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La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

01/12/2023

La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin, scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in carcere. Proprio in prigione questa ragazza dai genitori ignoti scrive i primi romanzi: L'Astragalo (osso che si rompe durante un'evasione, in occasione della quale conosce il marito anch'egli delinquente) e La Cavale. Per approfondire, segnalo il sito a lei dedicato https://www.albertinesarrazin.it/



La Cavale è il secondo romanzo di Albertine Sarrazin e fu pubblicato lo stesso anno de L’Astragale (L’Astragalo). Come in quest’ultimo l’ironia nel descrivere alcune situazioni è mista alla tragicità della vita in carcere. La protagonista delle vicende narrate è Anick Damien che altri non è che uno pseudonimo della scrittrice stessa.

A causa di un furto con scasso, compiuto da lei e dal suo amante Julien, si trova nuovamente segregata nella cella di un enorme penitenziario. Il suo amore viscerale per il compagno non può trovare sfogo fisico ma soltanto platonico, dato che i due non sono sposati e ricevono notizie l’uno dall’altra solo attraverso degli avvocati d’ufficio che si avvicendano nei colloqui. I poveri in canna hanno sì dei diritti ma meno di altri e le pene per chi è già afflitto da mille problemi risultano più faticose da patire.

Nonostante i muri in mattoni e in cemento armato i loro sentimenti continuano a sbocciare come se fossero piante innaffiate periodicamente dall’acqua sotto i raggi di un sole primaverile invece che erbe cresciute sul selciato. Si accarezzeranno e baceranno furtivamente durante la prima apparizione insieme in tribunale per il riesame ed è lì che escogiteranno anche un piano per evadere.

Contrariamente a quanto suggerito dal titolo, il libro non parla di una fuga, ma di un progetto di evasione che in realtà non avverrà mai: impegnarsi insieme nel lavorare a questo compito permette loro di passare il tempo e non impazzire. Nel mentre vengono evocati dalla mente di Sarrazin i ricordi legati alla vita in gattabuia mentre è sola o in gruppo. Anche il buttar giù su di un foglio in maniera ossessiva e non edulcorata idee e pensieri è sintomo di disturbo causato dall’ambiente che la circonda (è proprio il caso di scriverlo), ma anche una terapia per non soccombere nelle viscere dell’istituto che non accenna a sputarla fuori in una realtà che forse sarebbe ancor più dolorosa.

Lo stile è rozzo ma non perché rappresenta metaforicamente la menagrama vita dei detenuti, ma piuttosto perché lei è davvero poco istruita.

I temi trattati sono sistematicamente ritmati in maniera ripetitiva, fino alla noia. Simbolicamente rappresentano la vita nei penitenziari sempre identica; simili e metodici i movimenti delle persone per svolgere mansioni e prendersi cura di loro stessi nell’attesa di finire di scontare la pena e tornare alla normalità, una realtà in cui compiranno le stesse azioni.

La Cavale è un libro che rallenta e ci guarda, non ci offre una esperienza vicaria, è questo che ci disturba perché preferisce tenerci incollati coi piedi a terra in un mondo senza redenzione piuttosto che alle pagine che lo costituiscono. Usa la voce calma e attenta della scrittrice per includerci nella storia di donne e uomini che hanno formato una comunità dietro le sbarre. È un romanzo sulla continuità della vita, basata sull'amore di una donna per un uomo che si approfitta troppo dei suoi sentimenti.

Non evadendo dal suo ruolo di semplice galeotta, Anick Damien mentre protesta solo per la sua condizione, per non poter vedere il suo fidanzato non essendo loro sposati, supera lentamente le torture infernali del sistema carcerario - una serie inflessibile di pestaggi, stupri e umiliazioni abiette - mentre riesce a sollevare il suo sguardo aldilà di un orizzonte degradato.

L’umore di noi lettori nel frattempo oscilla rigorosamente da un’emozione ad un’altra emozione mentre la schiera decisamente folle di criminali mette a nudo il peso della vita turbolenta all'interno delle catacombe delle carceri.

28/11/2023

Niente di vero, Raimo. Il posto, Ernaux

Che senso ha accostare due titoli molto diversi per stile, contenuto e periodo narrato? Perché nella scheda di presentazione di Niente di vero di Veronica Raimo campeggia quanto segue: "Prendete lo spirito dissacrante che trasforma nevrosi, sesso e disastri famigliari in commedia, da Fleabag al Lamento di Portnoy, aggiungete l'uso spietato che Annie Ernaux fa dei ricordi: avrete la voce di una scrittrice che in Italia ancora non c’era."

Partiamo dal presupposto che non vi spiegherò perché Niente di vero si intitola così, altrimenti vi toglierei il gusto della lettura (o dell'ottima audiolettura di Cristina Pellegrino). Una cosa però la voglio specificare: si tratta di un'autobiografia che parte dalla certezza che i ricordi mutano nel tempo e nello spazio. La memoria non restituisce mai l'esatto vissuto.

In parte autobiografia, in parte romanzo di formazione che però non ha la struttura classica del romanzo ma assume una forma libera che può sembrare casuale anche nella linea temporale e nella scelta degli episodi narrati, l'opera, vincitrice del Premio Strega giovani 2022, ha diviso la platea in recensioni entusiastiche e deluse. Ma di che cosa parla, esattamente, questo libro di 176 pagine?

Raimo ci conduce nella sua famiglia dove campeggiano una madre onnipresente e ansiosa, un padre pieno di ossessioni igieniche e architettoniche e un fratello maggiore diventato anch'egli scrittore. "Siamo arrivati al paradosso" è il mantra del padre e potrebbe riassumere bene il contenuto del libro che, con tono leggero e dissacrante, mette in risalto gli aspetti più negativi e talvolta traumatici dell'esistenza per trasformarli in uno spettacolo comico.

La leggerezza con cui Raimo decide di affrontare tematiche comuni (il difficile rapporto con il proprio corpo e con il sesso, l'invadenza sgradevole dei parenti) e altre molto delicate (le molestie sessuali, l'aborto) non lascia scelta a chi legge: ciascuno di noi penserà che quello sia il modo giusto per parlare di certe cose, o che sia il modo sbagliato per trattarle. 



Il posto, di Annie Ernaux, è un volume di sole 114 pagine (o se preferite un'ottima lettura di Sonia Bergamasco) che, con una forma che unisce autobiografia, diario e trattato sociologico, attraverso il racconto del padre tratteggia le trasformazioni di un'intera società.

Nella provincia normanna, il padre (nato nel 1899) aveva fatto un "doppio salto": da contadino era diventato operaio, poi aveva rilevato un piccolo bar-drogheria. Qui era subentrato un senso di inadeguatezza da parte dell'uomo e della moglie, che avevano il timore di utilizzare termini inadeguati in presenza di persone altolocate e successivamente avevano affrontato difficoltà economiche, tanto che lui era tornato a fare l'operaio per poter mandare avanti il negozio.

Anne, la figlia, vuole affrancarsi dalle proprie origini e compiere il decisivo ingresso nel mondo borghese, studiando e diventando insegnante; ma vive il distacco con un forte senso di colpa, da una parte perché prova rabbia per la distanza culturale e sociale esistente tra lei e i genitori, dall'altra per il dolore che tale separazione comporta sul piano affettivo.

La strada più naturale da percorrere per saldare il debito con il padre (e per perdonarsi il tradimento nei suoi confronti) diventa quindi la scrittura, nel tentativo di ricostruire l’essenza dell'uomo dal quale Anne si era sempre più allontanata a causa di una crescente incomunicabilità: "Forse scrivo perché non avevamo più niente da dirci".

E il modo in cui Ernaux decide di farlo è con uno stile scarno, asciutto, privo di pietismo: una narrazione ridotta all'osso eppure non per questo meno emozionante. Una semplicità che fa assumere alle pagine della scrittrice un valore universale.

"(...) Il romanzo è impossibile. Per riferire di una vita sottomessa alla necessità non ho il diritto di prendere il partito dell’arte, né di provare a fare qualcosa di "appassionante" o "commovente". (...) Metterò assieme le parole, i gesti, i gusti di mio padre, i fatti di rilievo della sua vita, tutti i segni possibili di un’esistenza che ho condiviso anch’io. (...) Nessuna poesia del ricordo, nessuna gongolante derisione. La scrittura piatta mi viene naturale, la stessa che utilizzavo un tempo scrivendo ai miei per dare le notizie essenziali."

24/11/2023

Qualcuno volò sul nido del cuculo, di Ken Kesey

Andrea Brattelli alle prese con il testo di Ken Kesey pubblicato nel 1962 che ha ispirato il film omonimo diretto da Miloš Forman e magistralmente interpretato da Jack Nicholson: Qualcuno volò sul nido del cuculo. Se la pellicola vi è piaciuta, nel libro troverete una denuncia ben più evidente e strutturata alla società dell'epoca.


Alcune storie hanno come protagonisti dei personaggi così iconici che, in qualità di lettori, cerchiamo da loro risposte, come se figure di fantasia si dovessero prendere la briga di fornirci dettami su come possiamo raggiungere la serenità. Sembra di conoscerli da sempre; il gigante indiano dipinto nel romanzo di Ken Kesey assomiglia, per esempio, al più noto Frankenstein ma non per la bruttezza: anch’egli è un gigante, questo sì, ma è di fatto intelligente e ha un animo cordiale; è migliore della maggior parte di noi. Altra similitudine: sia il “Mostro” nato dalla penna di Mary Shelley che il suddetto co-protagonista possono chiedere lumi direttamente al loro creatore, cosa che noi comuni mortali non possiamo fare. Alla fine, quindi, è sempre il redattore del libro in questo caso che ci guiderà verso la strada maestra della saggezza.

Le vicende sono narrate da Bromden, un paziente indiano nativo americano che è in cura presso il reparto psichiatrico di un ospedale dell'Oregon. Si presume che Capo Bromden sia sordomuto ma, in realtà, non è affetto da nessuna disabilità fisica. Agisce quindi come osservatore onnisciente ed educa il lettore riguardo la vita all'interno del manicomio.

Questo luogo è gestito dalla tirannica infermiera Ratched, rigida e pignola per quanto concerne l’attenersi ai protocolli e la disciplina. Le sue sembianze assumono particolari fabieschi se si osserva la sua divisa bianca inamidata e la sua austerità che la fanno sembrare una strega dalle sembianze umane mandata dagli inferi per alimentare odio negli animi già esacerbati e sottomettere vigliaccamente poveri derelitti e fare proselitismo tra coloro che godono nell’essere sottomessi. Rappresenta l’emblema della stupidità che sfocia naturalmente in tirannia quando il poco sapere (medico in questo caso) e la saccenza si coniugano alla testardaggine e pedanteria nel far rispettare le regole sia al personale che si comanda sia agli ospiti della struttura sanitaria.

Questi atteggiamenti mal si sposano con la paranoia dell’omone indiano affetto da paranoie: egli è convinto che il mondo sia mosso da meccanismi ben congegnati, come quelli che costituiscono le macchine di Charles Babbage tanto care ai disegnatori di mondi distopici per intenderci, controllati unicamente da coloro che detengono l’autorità. La sua forza è insufficiente contro queste entità coercitive. Le digressioni sulla ricerca del luogo da cui provengono questi disturbi erodono un po’ la scorrevolezza della narrazione devo spiacevolmente confermare.

Un giorno nel reparto viene internato un certo McMurphy, che ha deciso di finire la sua pena detentiva in questo luogo a suo dire confortevole piuttosto che in una fattoria dove è obbligato a lavorare. Sembra uno psicopatico, è un gran chiacchierone, affabile, affetto da disturbi compulsivi legati perlopiù al gioco. Possiede quindi, per quest’ultimo motivo, una notevole attenzione e pazienza nel valutare cose, persone e situazioni. Si muove con cautela per poi maliziosamente attaccare la Capo Infermiera ottenendo piccole vittorie e guadagnandosi il rispetto degli altri pazienti che mettono così in discussione i metodi di cura della clinica. Proprio per questo motivo Bromden abbasserà la guardia con lui e lo scapestrato personaggio ne approfitterà per scoprire il suo segreto.

Inizierà una sorta di Guerra Fredda tra la donna e il protagonista principale che porterà inevitabilmente ad una tragedia.

Per capire meglio quest’opera dovremmo analizzarla contestualmente al periodo in cui è stata scritta. Si era proprio all’inizio delle battaglie per i diritti civili; tanto per fornire un esempio, la marcia di Martin Luther King su Washington e il relativo discorso che ne scaturì sono avvenimenti che accaddero l’anno dopo l’uscita del libro.

Kesey iniziò a scrivere il romanzo nel 1959. Sebbene McCarthy e la sua politica erano già decaduti, le questioni legate al conformismo e alla libera espressione erano ancora prevalenti e sono infatti trattate nel romanzo: i pazienti dell’ospedale, come in dittatura, sono incoraggiati a spiarsi l’un l’altro e a riferire a chi di dovere comportamenti anomali.

La psicologia e la neurologia, a causa della loro intrinseca complessità nell’essere indagate con strumentazione medica non all’avanguardia, ai tempi ancora non erano ben studiate ma dei dati iniziavano già ad emergere. Il libro di memorie del neurologo Oliver Sacks Awakenings per esempio, sebbene pubblicato nel 1973, riguardava principalmente ricerche degli anni ‘60.

Le questioni relative al trattamento degli umani istituzionalizzati sono incarnate nella parte centrale dello scritto. Il tutto rappresenta la metafora della vita all’interno di una società in gran parte conformista. Viene mostrata la grande capacità di coloro che detengono il potere di controllare e manipolare la maggioranza del popolo tanto da farli sentire impotenti e, alla fine, le persone comuni perdono anche la consapevolezza di essere assoggettate. Tutto ciò non è palesato nel film omonimo.

Cosa potrei scrivere per concludere questa recensione? Affermo che in alcuni paragrafi traspaiono machismo, razzismo e misoginia e ciò non mi aggrada, neppure quando le vittime di simili preconcetti e atteggiamenti sono i malvagi della situazione. Penso siano per nulla giustificabili simili scene anche alla luce del fatto che il libro è datato ed è figlio del suo tempo. Penso che McMurphy sia inizialmente un antieroe che, quando poi però attuerà le condizioni per cui il re apparirà a tutti nudo e avrà illuminato con la fiaccola della speranza l’animo dei negletti, diventerà a tutti gli effetti un eroe che ha provato a sacrificarsi per i diritti dei più deboli.

21/11/2023

Primavera silenziosa, di Rachel Carson

Torno anch'io alle recensioni per parlare di un libro a cui tengo molto, la pietra miliare della letteratura ambientalista moderna: Primavera silenziosa di Rachel Carson, considerata la madre di tale movimento. La sua voce è stata interrotta molto presto, a causa di un cancro che ne ha decretato la morte nel 1964 a soli 56 anni; ma la sua ultima opera pubblicata in vita continua ancora oggi, a 61 anni di distanza, a parlare per lei.

Immagine generata con Tome AI

Primavera silenziosa risulta tuttora un libro di scienza ambientale innovativo. Edita per la prima volta nel 1962, l'opera di Carson denuncia i pericoli di vari insetticidi sintetici (in particolare del DDT ma anche di clordano, eptacloro e altri), i loro effetti nocivi sull'ambiente e sulla salute umana. L'autrice ne illustra gli alti livelli di tossicità, il gran numero di organismi uccisi dalla loro nefasta azione, la capacità di alcune sostanze chimiche tossiche di accumularsi negli organismi e i percorsi attraverso i quali le tossine consumate dalle specie-bersaglio finiscono nella catena alimentare.

Ogni pagina di Silent spring contiene un chiaro messaggio sulla fragile e fondamentale interconnessione tra ambiente e umanità. Gli esempi citati da Carson sono riferiti in particolare agli Stati Uniti, ma non mancano citazioni di casi provenienti da tutto il mondo. 

Nel momento in cui scrive, l'autrice non ha ancora a disposizione un gran numero di studi che chiariscano nel dettaglio i processi di intossicazione determinati dalle sostanze di cui parla, ma parte da osservazioni personali e della sua rete di conoscenze sugli impatti del DDT, studia le più aggiornate ricerche disponibili su un’ampia gamma di discipline e raccoglie tutti i dati in un testo avvincente. Anche quando illustra le mutazioni genetiche, le trasformazioni chimiche e le interazioni che rendono letali componenti singolarmente innocui, l'autrice riesce a utilizzare un linguaggio comprensibile anche per chi non ha competenze scientifiche.

Immagine generata con Tome AI

Per apprezzare al meglio il valore di Silent Spring, è essenziale conoscere la biografia dell'autrice*. Nata in Pennsylvania nel 1907, dimostrò un precoce interesse per la natura e per la scrittura. Al college studiò biologia e, dopo un periodo come ricercatrice in biologia marina nel Massachusetts, intraprese ulteriori studi in zoologia alla Johns Hopkins dove, nel 1932, completò il master. Nel frattempo, a causa delle difficoltà finanziarie della famiglia (a queste seguiranno malattie, decessi ed eventi traumatici), non potendo proseguire gli studi per il dottorato, entrò al Dipartimento della Pesca degli USA come scrittrice scientifica.

L'esperienza come biologa marina ispirò i primi testi scritti da Carson, una trilogia dedicata al mare che univa alle conoscenze scientifiche l'amore per gli elementi naturali e una grande capacità divulgativa: Undersea; The Sea around us del 1951, che la portò alla notorietà permettendole di lasciare il lavoro all'ente per dedicarsi a quello di scrittrice; The Edge of sea.

Alcuni anni dopo, l’amica e scrittrice Olga Owens Huckins, che aveva recensito The Sea around us, le segnalò una tremenda moria di uccelli nella sua proprietà in Massachusetts, nel 1957. Carson si mise al lavoro e, nonostante una diagnosi di cancro, riuscì a pubblicare l'esito delle sue ricerche nel 1962.


Primavera silenziosa è suddiviso in quattro sezioni per 17 capitoli in totale, ognuno dei quali affronta diversi aspetti dell'uso dei pesticidi e del loro impatto. Il libro inizia con la vivida descrizione di una ipotetica città in cui ogni forma di vita è stata messa a tacere dalle sostanze chimiche nocive, dando il tono al resto dell'opera. Carson approfondisce poi la storia dell'uso dei pesticidi e ne analizza in dettaglio, con numerosi esempi, gli effetti dannosi sugli ecosistemi, sugli animali e sulla salute umana. 

La prima sezione del libro analizza la storia e lo sviluppo dei pesticidi, evidenziando come la loro diffusione nella società statunitense sia aumentata nel corso degli anni. Carson descrive come l'uso intensivo del DDT abbia avuto un impatto devastante sulla vita selvatica, distruggendo la biodiversità e rendendo il mondo un luogo più "silenzioso". In queste pagine, Carson fa un appello per una maggiore consapevolezza e per un cambiamento di paradigma nell'uso dei disinfestanti.

La seconda parte esplora il ciclo di vita e l'interconnessione ecologica di vari organismi. Carson mette in luce gli effetti negativi dei pesticidi sulle popolazioni di uccelli. L'accumulo di disinfestanti nei loro corpi causa disfunzioni riproduttive e malformazioni, mettendo in pericolo l'esistenza di quasi tutte le specie, a eccezione del passero che sembra resistere bene alle sostanze chimiche. Questa sezione sottolinea l'importanza di valutare l'interconnessione tra le diverse forme di vita e di considerare le conseguenze delle azioni umane sull'ambiente. 

La terza sezione analizza gli effetti dei pesticidi sugli insetti e sulla catena alimentare. Carson presenta vari casi di avvelenamento da sostanze tossiche e spiega come queste possano contaminare il cibo, l'acqua e l'aria, mettendo così a rischio la salute umana. Utilizzando esempi drammatici e descrizioni dettagliate di malattie e morte causate dall'avvelenamento da disinfestanti, Carson cerca di suscitare un senso di urgenza nel lettore. Sottolinea anche la necessità di un'azione tempestiva per proteggere la salute pubblica e di adottare alternative meno dannose nell'agricoltura e nella gestione dei parassiti. 

L'ultima parte del libro offre proprio alcune soluzioni per il controllo dei parassiti che siano più sostenibili e rispettose dell'ambiente. Carson sostiene che l'adozione di tecniche di gestione integrata dei parassiti, che coinvolgono l'uso di predatori naturali, la rotazione delle colture e altre strategie, può ridurre la dipendenza dagli agenti chimici nocivi. Propone anche una riforma delle politiche di regolamentazione per limitare l'uso indiscriminato dei pesticidi a livello governativo.


Ciò che rende Primavera silenziosa particolarmente rilevante è che si tratta di un testo fortemente critico nei confronti delle autorità che sembrano farsi guidare dagli interessi economici che stanno dietro alla diffusione dei pesticidi. L'autrice sottolinea infatti come alcune sostanze chimiche nocive abbiano ottenuto un'ampia accettazione pubblica, grazie all’entusiasmo con cui scienza e imprenditoria abbracciarono i progressi compiuti in campo chimico durante l'ultimo conflitto mondiale. Tuttavia, ai fondi per produrre e acquistare le sostanze non si erano accostati quelli per valutarne correttamente le interazioni e gli effetti collaterali.

Ancor prima dell'uscita, i rappresentanti dell'industria chimica e i loro alleati politici condannano fermamente Primavera silenziosa e portano avanti una campagna di disinformazione per screditare l'autrice e il suo lavoro, minacciando inoltre gli editori del libro con una causa per diffamazione. Carson viene accusata di scarsa rigorosità scientifica e di abuso di termini drammatici e sensazionalistici per influenzare il pubblico. 

Le critiche all'autrice vanno ben oltre le sue idee e si trasformano in attacchi personali: viene definita tra le altre cose "isterica" e "probabilmente comunista", si avanzano ipotesi sul fatto che sia nubile, si minimizza la sua preparazione scientifica tanto che non viene chiamata "dottoressa" o "scienziata" ma "signorina". Nel 1963, l'esponente di un'azienda produttrice di pesticidi afferma infatti: "Se l’uomo seguisse gli insegnamenti di Miss Carson, torneremmo ai secoli bui, e gli insetti, le malattie e i parassiti erediterebbero ancora una volta la terra" (1).

Per fortuna, questi tentativi meschini di mascherare la verità si rivelano inefficaci e controproducenti. Carson non è contraria in assoluto all'uso di sostanze chimiche di sintesi: chiede solo di usarle in modo selettivo, nelle dosi adeguate e con la dovuta consapevolezza. Il suo libro permette l'avvio di un dibattito nazionale sulla conservazione dell'ambiente e sulla regolamentazione dei pesticidi, rappresenta un potente strumento di sensibilizzazione dell'opinione pubblica su tali argomenti e rivela la presenza di conflitti di interesse da parte di alcuni scienziati scettici.

Una prima conferma dell'importanza del lavoro di Carson si avrà nel 1963 con l'istituzione di un gruppo speciale all'interno del comitato consultivo scientifico del governo statunitense, che produrrà un rapporto di conferma delle ricerche contenute nel libro. Da lì in poi, le sostanze indicate dall'autrice saranno soggette a continue limitazioni o divieti.

Immagine generata con Tome AI

Con la sua prosa evocativa e la capacità di descrivere gli effetti disastrosi degli agenti chimici nocivi sull'ambiente, Primavera silenziosa rimane una lettura essenziale per chiunque sia preoccupato per il futuro del nostro pianeta, non solo per chi ha un ruolo nell'attivismo ambientale e nella conservazione del mondo naturale. 

Il messaggio di Primavera silenziosa rimane attuale ancora oggi: gli avvertimenti del libro sui pericoli dei pesticidi e sulla necessità di pratiche ambientali sostenibili sono quanto mai pertinenti, considerando che è possibile entrare in un qualunque negozio e acquistare prodotti che contengono componenti altamente tossici: ma le informazioni più importanti, che riguardano dosi e modalità di utilizzo e soprattutto la loro pericolosità, sono riportate in caratteri minuscoli...



*Per approfondire: ipodcast Rai a lei dedicato e alcuni articoli in inglese:
https://extension.unh.edu/blog/2022/01/silent-spring-60-years-later
(1) https://blog.ucsusa.org/anita-desikan/why-rachel-carsons-silent-spring-still-resonates-today/

17/11/2023

La vita agra, di Luciano Bianciardi

Andrea Brattelli si dedica a uno dei principali testi della letteratura italiana del Dopoguerra: La vita agra di Luciano Bianciardi. Tra elementi autobiografici, fiction e indagini sociologiche, il libro esplora l'alienazione in una Milano anni '60 in piena metamorfosi. Oltre al successo di pubblico, questa narrazione acuta e ironica di Bianciardi ha suscitato ampio dibattito critico e la sua impareggiabile analisi sociale continua a renderlo un'opera esemplare della cultura italiana. Per un sintetico approfondimento su Bianciardi, libro e film segnalo la scheda del Locarno Film Festival.

La vita agra è un corto “meta-romanzo”* (scriverò poi il perché delle virgolette) considerato tra i libri più importanti della letteratura italiana contemporanea. Ebbe un notevole successo popolare nonostante i primi due capitoli (la prima cinquantina di pagine per intenderci) non siano molto comprensibili: non si capisce dove l’autore, come si suol affermare, voglia andare a parare. 

Vi sono riportate molte parole le cui radici affondano nel gergo regionale, nella lingua dialettale, inglesismi il cui vero significato non può essere contemplato neppure nei migliori dizionari italiani; tuttavia nell’insieme esprimono una certa dialettica o, come riporterebbe Luciano Bianciardi: "sono discorsi che si avvalgono artificiosamente della possibilità nullificante di una opposizione divenuta fine a sé stessa (eristica), degenerando quindi in vuota logomachia".

Anche nomi di scrittori e artisti famosi più che riportati vengono lasciati cadere dalla penna del narratore un po’ a caso: Verga, Mahler, Visconti, Renoir, Mann ecc.

Mi permetto di suggerire a questo punto, a chiunque abbia voglia di intraprendere la lettura di quest’opera, se non è già passato a fare altro invece di leggere questa “meta-recensione”, di scorrere i primi capitoli e di ricominciare per due-tre volte per poter apprezzare questo scritto e non rimetterlo a tacere in libreria.

Il fatto è che definire questo lavoro un “romanzo” è un po’ una forzatura*. In realtà è l'illustrazione di uno spaccato della società, una raccolta di aneddoti guidati da un flusso di coscienza. 

Queste peregrinazioni mentali sembrano frutto di anni di studi moderni di psicologia, economia e sociologia, come se un Premio Nobel scrivesse un trattato sulla tassonomia degli individui nei contesti urbani, con tanto di calcolo delle variazioni che transitano attraverso il prisma delle esperienze personali. Infatti il libro è autobiografico, redatto in prima persona, in cui il narratore racconta la sua storia, quella di un giovane toscano che si trasferisce a Milano come molti suoi coetanei in cerca di fortuna.

In realtà il nostro Luciano il suo posto di rilievo nella società lo aveva già trovato, dato che fu chiamato a lavorare per l’Einaudi. Il motivo vero per cui era fuggito al Nord era per scappare dai fantasmi che lo inseguivano da quando era diventato un reduce della Seconda Guerra Mondiale e dopo aver assistito alla morte di 43 minatori a causa dello scoppio di un pozzo presso la cava di Ribolla. 

Questo orrore aprì nuove ferite in un animo già segnato dal contemplare le miserie di queste famiglie e la povertà in cui versavano e che lui sempre denunciò con sensibilità, la stessa che gli permise di osservare da vari e diversi punti di vista il cambiamento repentino post bellico così veloce, troppo veloce, costretto quindi a succhiare tutto l’ossigeno agli abitanti di un paese.

Nella grande città non si trovò bene. Scherniva i comportamenti della media e alta borghesia e dei colletti bianchi ma non con scritti satirici, bensì con malizia e cattiveria e ciò non gli permise mai di trovare una sua vera dimensione lavorativa ma, anzi, le ansie e le frustrazioni lo condannarono ad una vita grama e da alcolista che lo portarono precocemente alla morte, purtroppo.

Gli aneddoti scherzosi che trovano spazio in questa intera opera senza capo né coda e la alleggeriscono mano a mano fanno sorridere, ci stupiscono, ci fanno riflettere sulle nostre idiosincrasie di persone più fortunate di altre e ridacchiare per non lasciare spazio all’autocommiserazione, ma nascondono anche l’animo turbato di questo grande autore. 

Lui usa le battute e gli scherzi come protezione, come mani che si protendono naturalmente in avanti quando si cade per non ferirsi il volto: chissà le volte che invece si è ferito il viso quando cadeva ubriaco in preda all’alcol per cercare di vincere una guerra con sé stesso causata da un “io” che di cose brutte ne aveva viste troppe per una vita sola.

10/11/2023

Il nero del Narciso, di Joseph Conrad

Il nero del Narciso è un romanzo di Joseph Conrad pubblicato nel 1897 e ambientato su un mercantile britannico. La narrazione va ben oltre il racconto d'avventura e, come spesso accade con le storie ambientate in mare, gli avvenimenti suscitano riflessioni esistenziali, toccando temi di primaria importanza come la solidarietà e il razzismo, l'isolamento, la morte e il senso della vita. Quella di Conrad è un'opera di grande valore letterario che illustra la realtà coloniale e la natura umana esprimendo una forte potenza emotiva attraverso la caratterizzazione psicologica dei personaggi. Tanto coinvolgimento l'ho riscontrato con la visione della prima stagione della serie The Terror, ispirata alla spedizione perduta di Franklin. Vi lascio ora alla recensione di Andrea Brattelli. 



Gli uomini di Conrad sono motivati nell’agire da un complesso meccanismo costituito e mosso da contrappesi: amore e odio, bene e male. I romanzi di questo scrittore si occupano di studiare la situazione quando le persone sono in “comunione”, ovvero nel momento in cui loro esprimono se stesse attraverso idee e stati d’animo partorite da un “Io” costituito da una determinata educazione pregressa.

Ognuno di noi ha dei codici da rappresentare e interpretare a seconda delle situazioni, in alcune delle quali trapela tutta la nostra inadeguatezza; pochi sono coloro che sanno far fronte ad ogni situazione.

Anche questa storia narrata da Conrad è basata su un fatto vero e autobiografico in parte. Egli era secondo ufficiale di marina, dove lavorò con molti bravi marinai di colore. Il “Narciso” era davvero esistita: una bellissima nave i cui pregi vengono messi in risalto da descrizioni tecniche per nulla noiose sulla vita in mare aperto e gli accorgimenti da intraprendere affinché le sue vele fossero sempre gonfie sotto la spinta del vento che le permetteva di solcare le acque. Affermato ciò, posso confermare comunque che questo autore non è sempre facile da leggere. Il suo stile tardo vittoriano/edoardiano a volte sembra inutilmente laborioso.

Il nero del Narciso è il suo terzo romanzo. Descrive un ritorno a casa travagliato. La sofferenza è anche e soprattutto nell’animo del protagonista/narratore (in realtà la voce narrante non è unica, sembra ci siano più voci che ci danno coralmente una sensazione di affabilità specialmente quando forniscono consigli), con i suoi problemi personali, le ossessioni e le nevrosi che lo hanno accompagnato per tutta la sua difficile esistenza. La maggior parte delle persone che Conrad ha frequentato e dalle quali ha preso in parte spunto per dipingere le figure dei personaggi dei suoi scritti hanno le caratteristiche di quegli attori di Hollywood belli, carismatici, bravi nel loro mestiere, eroici ma dannati; dediti all’alcool e in preda agli isterismi.

Ciò si evince e si riflette anche nelle descrizioni nelle quali la nave attraversa i mari tropicali e si imbatte in monsoni sovrastata da nubi cupe e livide, metafora dello stato d’animo del narratore carico tanto quanto la stiva di una nave di speranze e rimpianti.

Conrad ama parole e aggettivi quali “intollerabile”, “tormento”, “solitario”, “ombre”. Le rende archetipicamente conradiane nella loro irrequietezza. Ho analizzato questi periodi, questi versi, cercando chiasmi, andando a ritroso nella mia memoria ravanando tra i ricordi delle lezioni di latino al liceo. Sono giunto alla conclusione che nell’equazione sono costanti le presenze di “ombra” e “anima” in contrapposizione tra di loro ed entrambe sono relazionate con la “morte” che è un’altra costante, un caposaldo delle sue elucubrazioni messe per iscritto.

I membri dell’imbarcazione che svolgono le loro faccende quotidiane con meticolosità sembrano fantasmi inquieti che, a volte, si esprimono tramite battute sagaci, forse sin troppo erudite per il loro stato sociale.

La capacità di introspezione dell’autore fa comprendere che questi lavoratori sono ignoranti ma hanno una forte fede che porta loro pace nel cuore e permette loro di vivere in armonia anche quando ramazzando il ponte della nave sono sottoposti a sforzi sovrumani e intemperie che interferiscono con il loro lavoro. La loro purezza è frutto della loro semplicità.

Nel romanzo vi è presente anche la figura di un altro protagonista di nome Singleton. Egli si erge a simbolo della scomparsa di un tipo di umanità, della perdita dell’innocenza sparita tra i flutti dell’oceano. Figlio del suo tempo, una reliquia solitaria divoratrice delle nuove generazioni. Le sue passioni celate dietro il suo petto tatuato erano già morte. Irriflessivo e sempre dritto in piedi, come uno stoccafisso fa parte di quella schiera di uomini figli del loro tempo che sono l’emblema di quel mondo descritto da Conrad. Facili da ispirare, difficili da gestire, vissuti senza conoscere la dolcezza dell’affetto o il rifugio di una casa, ma nella paura di finire in una tomba troppo stretta in una terra sempre scontenta della loro presenza che li ha quindi confinati nel mare misterioso, ma sia la prima che il secondo sono luoghi infedeli nei confronti dei loro figli.

03/11/2023

Il cielo è rosso, di Giuseppe Berto

Oggi grazie alla recensione firmata da Andrea Brattelli conosciamo l'esordio di Giuseppe Berto: Il cielo è rosso, scritto durante la prigionia in Texas e pubblicato nel 1947. Nato nel 1914, Berto si distingue subito come autore poliedrico e moderno. Attraverso le pagine del suo primo romanzo, per il quale aveva immaginato il titolo La perduta gente, siamo catapultati in un mondo segnato da violenza, sofferenza e speranza in piena seconda guerra mondiale. Per saperne di più sull'accoglienza da parte dell'editore e della critica, consiglio questo approfondimento.



Ambientato in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale, il romanzo intitolato Il cielo è rosso di Giuseppe Berto ha come protagonisti bambini e adolescenti che cercano di sopravvivere alle privazioni di ogni genere di quel periodo. 

Per certi versi, seppure non è un diario, quest’opera mi ha ricordato un po’ la storia di Anna Frank: i personaggi che più subiscono le tragedie di un conflitto sono sempre gli inermi, i più piccoli e gli indifesi. Il loro spaesamento e la loro lotta per la sopravvivenza non hanno fazioni e, quando soccombono, è una vera perdita per e su tutti i fronti.

Le pagine sono introdotte da una frase presa dalla Bibbia scritta da Matteo 16:2 – 4 e usata anche nei detti comuni: "Se il cielo di sera si tinge di rosso il giorno dopo sarà bel tempo". Questa citazione di Gesù è il suo avvertimento alle generazioni future che sono sempre alla ricerca di segni che siano in grado di fornire spunti per interpretare il tempo; non sono utili però per comprendere i tempi in cui stanno vivendo... Argomento piuttosto interessante su cui riflettere. Non posso fare a meno di chiedermi: cosa significa? 

Nel contesto del romanzo, dove il bombardamento avviene non molto tempo dopo l'inizio dello stesso e il cielo diventa rosso, potrebbe significare una serie di cose. Si vorrebbe affermare che c'è speranza nell’andare avanti? Cosa simboleggia il rosso? Sangue, forse anche amore? Il rosso nel titolo è lo stesso de Il segno rosso del coraggio, che, appunto, simboleggia la forza d’animo connaturata degli alleati? A differenza di altri scritti di questo genere, come il famoso suddetto resoconto della fanciulla ebrea, questo volume non lo consiglierei a ragazze/i giovani dati gli espliciti riferimenti a bombardamenti e violenze di ogni tipo, anche sessuali su minori. La famiglia di rifugiati che ci viene presentata e costretta alla clandestinità è formata da un gruppo eterogeneo di orfani capitanati da una prostituta quattordicenne di nome Carla. L’ambientazione, se mi posso permettere, giusto per spazzare questa atmosfera di desolazione, è simile a quella di Oliver Twist di Dickens ma... in versione pulp.

Se mi concedete una digressione storica, oltre alle morti in guerra a causa dei bombardamenti, le famiglie si separavano ai tempi anche a causa della povertà estrema dovuta alla mancanza di viveri e delle condizioni basilari che permettevano la sopravvivenza dell’individuo, capisaldi questi di vita quotidiana in un paese civile, che svanivano durante gli attacchi bellici massivi. Molte erano quindi le migrazioni di persone alla ricerca di cibo e ambienti più salutari senza punti di riferimento in uno Stato che li ha traditi come ogni altra istituzione, compresa quella famigliare. I nuclei si frammentano e né i suoi componenti, né personaggi idealisti e più istruiti di altri possono farci nulla. Non sono d’aiuto a nessuno e non possono cambiare lo svolgersi degli eventi. Questa, in sostanza, è la metafisica che pervade il romanzo e altri del genere sopra menzionati.

Il cielo è rosso potrebbe essere collocato nella narrativa del realismo sociale perché ritrae la dura realtà della vita dei poveri. Ha preso il sopravvento come genere letterario, difatti, proprio nel periodo compreso tra le due grandi guerre a causa della grande depressione economica generalizzata. In questi scritti è avulso qualsiasi tentativo di edulcorare la verità.

Penso che il principale merito letterario del romanzo si basi sulla rappresentazione psicologica dei suoi giovani personaggi. Anche la storia stessa è piuttosto interessante da leggere. L’introspezione della vita interiore dei protagonisti e il loro rapporto con gli altri è davvero il fulcro di questo libro. Anche se solo quattro di loro reggono sulle spalle l’intero svolgersi della trama, sono le loro interazioni con le comparse che ci rivelano, attraverso frammenti, come in un puzzle, il mondo di allora e le sue dinamiche.

Per quanto la società descritta sia caotica e desolante, ci sono piccoli momenti di umanità che brillano come rugiada al sole. Sono narrate sempre piccole vittorie di chiaro stampo morale che forniscono speranza al lettore e gli insegnano a far fronte alle avversità. Il vero valore di un essere umano si evince tramite i suoi comportamenti caritatevoli nei confronti di altri individui durante le sciagure. La filosofia che permea il romanzo secondo cui il vecchio mondo potrà lasciare spazio al nuovo, migliore, solo attraverso la consapevolezza di cosa è male e cosa è bene privilegiando quest’ultimo rende quest’opera letteraria “totale” per la crescita personale, a mio umile parere.