Con molto entusiasmo mi accingo a recensire questo capolavoro di Dalton Trumbo, pubblicato per la prima volta il 3 settembre 1939, praticamente due giorni dopo che la Germania ebbe invaso la Polonia, scritto da uno dei più talentuosi sceneggiatori di Hollywood, perseguitato per la sua fede politica filo comunista.
Sfogliando le pagine dell'opera, queste si aprono come labbra in modo da poter fare assaporare a noi il testo e, al contempo, fanno le veci dei giovani soldati mandati a morire come agnelli per i lupi, del protagonista e degli assediati, urlando al posto loro tutto il dolore che la guerra comporta.
L'autore, anche in questo caso, non maschera con metafore il suo pensiero e le sue opinioni politiche in merito. Egli vuole ammonire i giovani sulla inutilità delle battaglie e spronarli a non combattere tra di loro ma, se proprio deve accadere, a morire lottando per degli ideali di fratellanza sconfiggendo chi, da comode poltrone, decide della vita altrui scelleratamente.
Alcuni destini possono essere peggiori della morte, come accade al protagonista Joe Bonham che rimane gravemente ferito in battaglia e solo la sua mente rimane intatta e libera di vagare in un mare di pensieri senza poter mostrare più al mondo le sue sensazioni e desideri; inerme, come i genitori dei figli al fronte che aspettano che i pargoli tornino a casa sani e salvi, consapevoli che la loro salvezza dipende dalla morte di qualche altro ragazzino.
In un ospedale francese Johnny, ormai carcassa umana, dopo essere stato colpito da una palla di cannone, è cieco, sordo, muto e focomelico: al posto del viso una massa gelatinosa di carne e pelle malcucite coperta da garze per non destare incubi notturni alle infermiere.
"Una maschera della morte rossa ante litteram", un racconto fantastico di Ibanez dei giorni nostri. L'unico conforto sono i suoi ricordi del Colorado dove viveva felice con la sua famiglia.
Il tempo lo trascorre cercando espedienti per fare capire alle persone che ne alleviano il dolore la sua situazione. Tutti pensano che sia morto anche cerebralmente.
Si dovrebbe riflettere proprio ora sulle vittime dell'Afghanistan, sul fatto che meritano meno menzione dei dispacci sui rotocalchi e sono loro riservate discussioni da salotto. A settant'anni di distanza ciò è deprimente seppur attuale.
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