Che senso ha accostare due titoli molto diversi per stile, contenuto e periodo narrato? Perché nella scheda di presentazione di Niente di vero di Veronica Raimo campeggia quanto segue: "Prendete lo spirito dissacrante che trasforma nevrosi, sesso e disastri famigliari in commedia, da Fleabag al Lamento di Portnoy, aggiungete l'uso spietato che Annie Ernaux fa dei ricordi: avrete la voce di una scrittrice che in Italia ancora non c’era."
Partiamo dal presupposto che non vi spiegherò perché Niente di vero si intitola così, altrimenti vi toglierei il gusto della lettura (o dell'ottima audiolettura di Cristina Pellegrino). Una cosa però la voglio specificare: si tratta di un'autobiografia che parte dalla certezza che i ricordi mutano nel tempo e nello spazio. La memoria non restituisce mai l'esatto vissuto.
In parte autobiografia, in parte romanzo di formazione che però non ha la struttura classica del romanzo ma assume una forma libera che può sembrare casuale anche nella linea temporale e nella scelta degli episodi narrati, l'opera, vincitrice del Premio Strega giovani 2022, ha diviso la platea in recensioni entusiastiche e deluse. Ma di che cosa parla, esattamente, questo libro di 176 pagine?
Raimo ci conduce nella sua famiglia dove campeggiano una madre onnipresente e ansiosa, un padre pieno di ossessioni igieniche e architettoniche e un fratello maggiore diventato anch'egli scrittore. "Siamo arrivati al paradosso" è il mantra del padre e potrebbe riassumere bene il contenuto del libro che, con tono leggero e dissacrante, mette in risalto gli aspetti più negativi e talvolta traumatici dell'esistenza per trasformarli in uno spettacolo comico.
La leggerezza con cui Raimo decide di affrontare tematiche comuni (il difficile rapporto con il proprio corpo e con il sesso, l'invadenza sgradevole dei parenti) e altre molto delicate (le molestie sessuali, l'aborto) non lascia scelta a chi legge: ciascuno di noi penserà che quello sia il modo giusto per parlare di certe cose, o che sia il modo sbagliato per trattarle.
Il posto, di Annie Ernaux, è un volume di sole 114 pagine (o se preferite un'ottima lettura di Sonia Bergamasco) che, con una forma che unisce autobiografia, diario e trattato sociologico, attraverso il racconto del padre tratteggia le trasformazioni di un'intera società.
Nella provincia normanna, il padre (nato nel 1899) aveva fatto un "doppio salto": da contadino era diventato operaio, poi aveva rilevato un piccolo bar-drogheria. Qui era subentrato un senso di inadeguatezza da parte dell'uomo e della moglie, che avevano il timore di utilizzare termini inadeguati in presenza di persone altolocate e successivamente avevano affrontato difficoltà economiche, tanto che lui era tornato a fare l'operaio per poter mandare avanti il negozio.
Anne, la figlia, vuole affrancarsi dalle proprie origini e compiere il decisivo ingresso nel mondo borghese, studiando e diventando insegnante; ma vive il distacco con un forte senso di colpa, da una parte perché prova rabbia per la distanza culturale e sociale esistente tra lei e i genitori, dall'altra per il dolore che tale separazione comporta sul piano affettivo.
La strada più naturale da percorrere per saldare il debito con il padre (e per perdonarsi il tradimento nei suoi confronti) diventa quindi la scrittura, nel tentativo di ricostruire l’essenza dell'uomo dal quale Anne si era sempre più allontanata a causa di una crescente incomunicabilità: "Forse scrivo perché non avevamo più niente da dirci".
E il modo in cui Ernaux decide di farlo è con uno stile scarno, asciutto, privo di pietismo: una narrazione ridotta all'osso eppure non per questo meno emozionante. Una semplicità che fa assumere alle pagine della scrittrice un valore universale.
"(...) Il romanzo è impossibile. Per riferire di una vita sottomessa alla necessità non ho il diritto di prendere il partito dell’arte, né di provare a fare qualcosa di "appassionante" o "commovente". (...) Metterò assieme le parole, i gesti, i gusti di mio padre, i fatti di rilievo della sua vita, tutti i segni possibili di un’esistenza che ho condiviso anch’io. (...) Nessuna poesia del ricordo, nessuna gongolante derisione. La scrittura piatta mi viene naturale, la stessa che utilizzavo un tempo scrivendo ai miei per dare le notizie essenziali."
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