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La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

28/06/2022

L' Antonia. Poesie, lettere e fotografie di Antonia Pozzi scelte e raccontate da Paolo Cognetti



A volte ritorn...o anch'io con una recensione. Il libro di cui parlo, L' Antonia. Poesie, lettere e fotografie di Antonia Pozzi scelte e raccontate da Paolo Cognetti è tanto breve - come la vita dell'Antonia - quanto ricco di sentimenti. 

Antonia Pozzi "era una ragazza milanese innamorata della montagna", racconta il curatore - e chi meglio di Paolo Cognetti, scrittore anch'egli milanese e "montanaro"? - di questo volumetto che raccoglie alcune fotografie e una selezione di poesie e di lettere della poetessa scoperta - ormai dopo la morte - da Eugenio Montale nel 1945, a tratteggiare una vita intensa, culminata con un gesto estremo.
 
Nata nel 1912 in un quartiere signorile "di quella borghesia colta che non esiste più", Antonia Pozzi non era particolarmente legata a Milano, della quale apprezzava tuttavia la vitalità culturale - studiò al Liceo Manzoni e all'università Statale, Lettere e Filosofia con indirizzo di Filologia moderna - e le grandi serate alla Scala. "L'Antonia" amava molto la campagna lombarda, dalla quale proveniva la famiglia materna che aveva ricchi possedimenti terrieri "ma anche una biblioteca di 80.000 opere"; l'amatissima nonna, la Nena, abitava a Bereguardo.

Antonia Pozzi ebbe una vita breve ma colma di viaggi in Italia e in Europa. Il padre Roberto, avvocato, non le fece mancare nulla; forse anche per via della sua provenienza non agiata - erano stati gli studi, la tenacia e la preparazione a dargli una buona posizione, rafforzata poi dalle nozze con la nobile contessa Carolina detta Lina, mamma di Antonia - o forse perché Antonia fu l'unica figlia, la mandò ovunque a viaggiare, studiare, arrampicare e fotografare: quale uomo più moderno si potrebbe immaginare?

Roberto crebbe Antonia in modo laico e acquistò una casa a Pasturo - in provincia di Lecco, punto di partenza per escursioni montane - che la figlia frequentò a lungo.

La prima lettera selezionata da Cognetti è indirizzata all'insegnante Antonio Maria Cervi. Era il 1929, Antonia aveva 17 anni e iniziava a scrivere. A leggere adesso certe frasi, il ribrezzo sorge spontaneo: "Ha ragione lei di dire che le donne non valgono niente." Di quell'insegnante, Antonia si innamorò e fu anche quel sentimento a portarla verso la scrittura. Canto della mia nudità è una delle sue composizioni più note, e già si trovano molte delle caratteristiche delle composizioni di Antonia Pozzi: la sensualità, la tragedia, il riferimento alla morte.

Guardami: sono nuda. Dall'inquieto
Languore della mia capigliatura
Alla tensione snella del mio piede,
io sono tutta una magrezza acerba
inguainata in un color avorio.
Guarda: pallida è la carne mia.
Si direbbe che il sangue non vi scorra.
Rosso non ne traspare. Solo un languido
Palpito azzurrino sfuma in mezzo al petto.
Vedi come incavato ho il ventre. Incerta
È la curva dei fianchi, ma i ginocchi
E le caviglie e tutte le giunture,
ho scarne e salde come un puro sangue.
Oggi, m'inarco nuda, nel nitore
Del bagno bianco e m'inarcherò nuda
domani sopra un letto, se qualcuno
mi prenderà. E un giorno nuda, sola,
stesa supina sotto troppa terra,
starò, quando la morte avrà chiamato.

Altrettanta sensualità si trova in una poesia appena successiva, Vertigine, sempre del 1929, nella quale Antonia racconta il battesimo dell'arrampicata grazie alle escursioni con il CAI, e che inizia così:

Afferrami alla vita,
uomo. La cengia è stretta.
E l'abisso è un risucchio spaventoso
che ci vuole assorbire. (...)

L'amore per Cervi durò quattro anni, ostacolato dal padre di lei che non vedeva di buon occhio quell'insegnante privo di ambizioni e molto più vecchio della figlia. Cervi la voleva convertire e Antonia voleva dargli un figlio; ma la lontananza - Antonia venne mandata a Londra a studiare - e l'insistenza cattolica di lui, ma soprattutto la consapevolezza di lei, misero in crisi il rapporto. Man mano che si avvicinava il giorno della maggiore età che le avrebbe permesso di sposare Cervi, Antonia scriveva poesie su bambini mai nati, su "bambini finti".

Chiusa la relazione con Cervi, Antonia Pozzi si dedicò alla poesia e alla montagna, che divennero strumento e luogo per avvicinarsi alla sua idea di Dio. Molte gite le faceva con l'amica - praticamente una sorella - Lucia detta Cia; altre compagne di viaggio furono Elvira e la zia Ida, sorella del padre.

Questa è la prova 
che voi mi benedite - 
montagne - 
se nell'ora del distacco 
la vostra chiesa m'accoglie (...)

Vette altissime si toccano anche nelle sue lettere. Come questa del gennaio 1934: "(...) Non ho più né pensieri né parole. Soltanto occhi per guardare e muscoli per camminare. (...) Tutte le cose morte si struggono nel gran sole. (...)"

Nel febbraio del 1934 compose Nevai, un'altra delle sue vette - in tutti i sensi:

Io fui nel giorno alto che vive
oltre gli abeti,
io camminai su campi e monti
di luce –
Traversai laghi morti - ed un segreto
canto mi sussurravano le onde
prigioniere -
passai su bianche rive, chiamando
a nome le genziane
sopite -
Io sognai nella neve di un'immensa
città di fiori
sepolta -
io fui sui monti
come un irto fiore -
e guardavo le rocce,
gli alti scogli
per i mari del vento -
e cantavo fra me di una remota
estate, che coi suoi amari
rododendri
m'avvampava nel sangue -

Anche la fotografia era fondamentale per Antonia, in quanto con l'obiettivo riusciva a cogliere i sentimenti nascosti della natura che la circondava.  Nel frattempo, il padre diventò podestà di Pasturo mentre lei continuava a frequentare le lezioni alla Statale; in quel periodo molti tra i suoi amici erano antifascisti, alcuni anche ebrei. Vittorio Sereni, Alberto Mondadori, Paolo e Piero Treves, Enzo Paci - tremendo affossatore delle sue capacità compositive, giudizio che su di lei peserà come un macigno - e Remo Cantoni del quale si innamorò, come emerge dalla poesia Bellezza, di un amore non corrisposto.

Nel 1935, Antonia si laureò con una tesi sulla formazione letteraria di Flaubert. Il relatore, Antonio Banfi, pur lodando la capacità critica di Antonia giudicò adolescenziali le sue poesie: altro giudizio che su di lei avrà un peso enorme. 

Fra il 1935 e il 1937 Antonia scrisse poche poesie e viaggiò molto in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che aveva imparato ad amare all’università, tanto da tradurre anche alcuni testi, forse nell'ottica di intraprendere la carriera di traduttrice. Poi, al rientro in Italia nella primavera del 1937, ecco ritornare prepotente la poesia, insieme all'amore per Dino Formaggio, insegnante di umili origini più giovane di due anni - un vero scandalo, all'epoca - che la rese aperta a una nuova visione sulla periferia milanese.

Nell'autunno del 1937, dopo un periodo di grande debolezza fisica le furono prescritti barbiturici, che all'epoca venivano utilizzati per tutto: ansia, insonnia, visioni; ma a leggere le poesie dell'ultimo periodo, la depressione pare evidente. Nel 1938, dopo un altro periodo di debilitazione, sembrava tornare a vivere, a uscire con le amiche e finalmente riuscì a strappare al padre la possibilità di fargli conoscere Dino, il quale tuttavia a quanto pare non voleva saperne di sposarla.

Né l’insegnamento né l’impegno sociale a favore dei poveri, e neppure il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia, oltre alla poesia e alla fotografia, riuscirono a placare il dramma di Antonia. Ho letto tante ipotesi sul suo suicidio, addirittura secondo alcune teorie sarebbe stata la mancanza di fede a spingerla. Per quanto mi riguarda è sufficiente sapere che era depressa, come dimostrano altri due casi di suicidio avvenuti anni prima nella famiglia paterna.

Così, nel dicembre del 1938, a soli 26 anni Antonia Pozzi ingerì un grande quantitativo di barbiturici davanti all'Abbazia di Chiaravalle; ma la famiglia negò il suicidio, parlando di decesso dovuto a polmonite. Il testamento e il biglietto d'addio ai genitori furono distrutti dal padre, che manipolò anche le sue poesie, allora inedite. 

Anni dopo, Roberto Pozzi dichiarò di ricordare il biglietto a memoria, e qui Antonia parlava di "disperazione mortale". Fu sepolta a Pasturo come da sua volontà. Al padre va riconosciuto il merito di aver stampato (sebbene per uso privato e da lui rimaneggiate) le poesie della figlia, che furono scoperte da Montale pochi anni dopo.

Paolo Cognetti, con tutta la sua sensibilità di scrittore e di grande amante e conoscitore della montagna, ci restituisce l'Antonia Pozzi più vera e più "intera". Un volume breve ma profondo, come la vita di questa ragazza straordinaria.

24/06/2022

L’infanzia di Ivan di Vladimir Bogomolov

Andrea Brattelli ci parla di un libro autobiografico di Vladimir Bogomolov, L'infanzia di Ivan, che nel 1962 è diventato il primo omonimo lungometraggio di Andrej Tarkovskij; un film che ha a sua volta ispirato Jean-Paul Sartre: “Per questo bambino, non c'è differenza tra giorno e notte. In ogni caso, non vive con noi."



La narrazione della guerra vista con gli occhi di un giovane ragazzo dal viso sfregiato rende questo romanzo uno degli scritti più audaci e singolari nel panorama della letteratura di questo genere, ad opera dello scrittore russo Vladimir Bogomolov.

Durante la lettura ci si sente elettrizzati mentre, in un’atmosfera onirica, le scene si susseguono trapelando dalle pagine del libro. La fredda lucidità con cui vengono descritti i fatti convive con la compassione.

Ci troviamo sul fronte orientale sovietico, la Seconda Guerra Mondiale volge al termine, ed Ivan è un ragazzino che ha perso madre e sorella, uccise dai tedeschi, che assurge al ruolo di esploratore dietro le linee nemiche; il desiderio di vendetta lo consuma come anche i tragitti intrapresi per svolgere i suoi compiti di spionaggio che porta avanti con coraggio e caparbietà.

Le sequenze oniriche e i flashback ci riportano alla sua infanzia straziante prima della guerra, durata molto poco ma abbastanza a lungo per comprendere la differenza tra la pace e un conflitto di enorme proporzione. In realtà benché così giovane, conosce molto bene le atrocità del secondo piuttosto che la tranquillità della prima.

La sua anima è sfregiata come il suo volto.

Comandato da due ufficiali, gli viene indorata la pillola riguardo la sua mansione: viene attribuita al suo lavoro di spionaggio una vena romantica, sottolineando l’importanza dei suoi occhi che sono quelli dell’intera brigata che non riuscirebbe a vedere così lontano senza il loro aiuto.

In un mondo che sembra appartenere ad un altro pianeta, veniamo ridestati dallo stupore nel contemplare i desolati campi di battaglia scolpiti nel tempo dai particolari che lo scrittore ci propone, come se riuscisse a fotografarli, riguardanti i corpi di due soldati russi uccisi dai tedeschi, e riportati con i dovuti onori nel loro paese.

In quest’atmosfera in cui la tensione si taglia con il coltello e le immagini sembrano asportate dalla realtà e fatte a brandelli con colpi d’accetta gli uomini hanno ancora tempo per ascoltare musica e leggere libri.

L’amore suscitato dai ricordi di tutti coloro che hanno perso qualcosa e qualcuno per fortuna sembra duro da sradicare, così come il bene che la madre di Ivan provava per il suo piccolo quando vi era ancora pace in questo mondo e il sole baciava i loro volti e i verdi prati di paesaggi bucolici.

La realtà ora è ben diversa e, se si vuole ritrovare la felicità di un tempo, bisogna attraversare le paludi disseminate di filo spinato, strisciando come la paura, che attanaglia le viscere e da queste scorre via fino in gola, trasformando la fame in rigurgiti acidi.

Che si tratti però di raccontare scene cruente, piuttosto che scene di corteggiamento all’ombra del bosco, Bogomolov non perde mai il senso della poesia e ci sorprende la sua inventiva nel farci apparire quasi plausibile che un’attività in genere considerata solo per uomini adulti (la guerra) ora è possibile farla praticare anche ad un bambino i cui occhi non sono solo appartenenti al plotone ma sono anche i nostri.

17/06/2022

La fonte meravigliosa di Ayn Rand

Nel 1943, la scrittrice e filosofa americana di origine russa Ayn Rand pubblica un romanzo che illustra la sua teoria filosofica oggettivista, che esalta l'individualismo e l'egoismo razionale mentre combatte tanto l'idea dello statalismo quanto quella del collettivismo; non a caso, La fonte meravigliosa diventerà il testo sacro del capitalismo libertario e Rand una convinta collaboratrice del senatore McCarthy. Ce ne parla Andrea Brattelli.



Inizio questa recensione sbilanciandomi un po’: oso scrivere che tutti quanti dovrebbero leggere La fonte meravigliosa della filosofa, ancor prima che grande scrittrice, Ayn Rand; è un libro che andrebbe fatto leggere alle scuole superiori, quando i ragazzi iniziano ad avere una certa maturità. Non so bene se andrebbe fatto studiare nelle ore di disegno, oppure durante storia dell’arte, durante le lezioni di filosofia o di inglese perché è un romanzo “totale”.

È un testo straordinario, una difesa dello spirito creativo individuale. Sono contento di averlo letto e mi rammarico di essere stato così ignorante, in qualità di ingegnere, per non averlo letto prima. È un buon promemoria che ci ricorda che tutti dovremmo cercare di comprendere quasi tutte le idee altrui che provengono da prospettive diverse rispetto ai nostri pregiudizi e preconcetti.

Il protagonista di questa storia è Howard Roark, un architetto così convinto della sua bravura e correttezza che metterà a repentaglio gli affetti e la sua carriera per contrastare il sistema senza ascoltare i consigli di nessuno. Leggendo il libro talvolta ci sembrerà un tipo ascetico per come, miracolosamente, riuscirà a cavarsela in situazioni davvero intricate e ne uscirà indenne, anzi, come se invece di aver lottato strenuamente fino ad un attimo prima abbia invece dormito saporitamente e si sia fatto la doccia dopo una lauta colazione e sigaretta; siamo compartecipi delle sue gesta, gli siamo accanto, così vicino che ci sembra quasi di sentire i suoi vestiti ancora profumati di bucato appena lavato.

Uomo dai mille volti, il nostro architetto è anche egoista e, al contempo, un grande ammiratore dell’eccellenza e della correttezza, con un profondo senso della giustizia. La sua integrità gli permette di sostenere le sue idee a qualsiasi condizione.

È disposto a sacrificare il bene comune e la sua carriera, (anche quella altrui) per il suo ego, noncurante del pensiero degli altri; i suoi principi riguardano la progettazione di edifici superiori intesi come modelli per migliorare la vita dell’individuo e quindi la società.

Per certi aspetti mi sembra che il protagonista abbia l’Asperger.

Howard Roark è un oggettivista. L'oggettivismo è un ideale filosofico creato dalla stessa Rand.

Un oggettivista è una persona che ottiene la vera felicità dalle sue opere, dai suoi modi di fare e tramite i suoi comportamenti. La narratrice si opponeva alla teoria della religione e credeva che le sue linee guida morali fossero basate sulla ragione e sull'umanità anziché sulla fede e sulle emozioni.

Se dovessimo riassumere con una frase l’approccio del protagonista nei confronti dei suoi clienti sarebbe questa: “la cosa più difficile da spiegare è l’evidenza che tutti hanno deciso di non vedere”.

Roark non lavora con nessuna persona a meno che questa non accetti di costruire alle sue condizioni: quali sono? L’edificio deve essere progettato senza alcuna ingerenza da parte del cliente; le sue costruzioni non devono necessariamente rispecchiare una estetica, moderna o classica che sia, ma devono potersi esprimere come esseri la cui essenza di vita è fornita proprio dalle persone che vi abitano, felici di stare in ambienti pensati, in maniera lungimirante, per le esigenze di tutti che porteranno benessere, in seguito, ai singoli individui proprietari degli appartamenti.

Il fulcro della storia quindi ruota intorno alla vita professionale di Howard che cerca di lavorare secondo i suoi standard mentre la sua carriera è “minacciata” da una bellissima donna con cui ha una travagliata storia d’amore che mette a repentaglio la sua carriera, perché sembra che lei, con la forza dell’amore, voglia frantumare quello specchio in cui il protagonista vede solo se stesso, come un moderno Dorian Gray, e mai gli altri e le loro esigenze e prospettive.

Tra i personaggi principali vi sono inoltre Peter Keating, ignavo professionista che disegna in maniera convenzionale (quindi, secondo la Rand, da sbattere subito nel girone dell’inferno riservato a tali individui).

Vi è poi Ellsworth Toohey, il malvagio della storia, solo assetato di potere.

Tutti questi personaggi sono descritti con una meticolosità e profondità inaudita.

Le altre persone del racconto rappresentano invece, metaforicamente, i paradigmi che ci insegnano a scuola e su cui dobbiamo basare le nostre future conoscenze e innovazioni che, volendo, possiamo apportare in qualsiasi disciplina. Sono vincoli, archetipi, che ci servono letteralmente per esprimere filosoficamente un’opinione sull’uomo ideale e il suo pensiero per adattargli una vita migliore.

Chiudo questa recensione scrivendo che la narratrice, con questa sua opera, ci insegna a distinguere, nella vita di tutti i giorni, i vari Howard Roark presenti nei vari settori lavorativi. Sono, alla fine, degli antieroi, che ci fanno comprendere quando sia invece anche più importante la cooperazione tra esseri umani piuttosto che l’autogratificazione raggiunta tramite l’egocentrismo che limita le possibilità di successo.

Le debolezze di ciascuno vengono attenuate dall’aiuto reciproco che gli esseri umani si forniscono a vicenda all’interno della collettività ansiosa di cooperare in maniera organizzata. Questo è un pensiero che secondo me doveva essere espresso in maniera più incisiva dalla Rand all’interno del suo romanzo.

10/06/2022

L’imprevedibile viaggio di Harold Fry di Rachel Joyce

Poi non dite che Andrea Brattelli non è un tenerone! Stavolta ci parla di un libro dolce, dolcissimo (sdolcinato, secondo alcune recensioni), che narra la storia di un Forrest Gump inglese anzianotto. Romanzo d'esordio (del 2012) di Rachel Joyce, L’imprevedibile viaggio di Harold Fry ha vinto numerosi premi ed è stato tradotto in tutto il mondo: inevitabile che un successo tanto ampio abbia attirato le critiche di coloro che ci vedono una storia scontata e una scrittura superficiale.



Harold Fry è un signore di 65 anni in pensione da poco, con una moglie fissata per le pulizie e brontolona.

Le sue giornate vanno avanti per inerzia, ma presto scopriremo che questa monotonia sta per finire: il suo sopravvivere all’inedia si tramuterà in un viaggio che gli permetterà di guardarsi dentro e imparare tante lezioni dalle persone che incontrerà lungo il percorso.

Ricevuta infatti una lettera da una ex collega di lavoro, Queenie Hennessy, nella quale lei gli comunica di essere malata, il protagonista intraprende un pellegrinaggio a piedi per andarla a incontrare.

Non uso il termine “pellegrinaggio” a sproposito. Nel romanzo sono presenti infatti riferimenti biblici e a parabole; storie descritte in maniera sobria e semplice.

Ci ritroveremo quindi con un nuovo “Forrest Gump” che invece di correre cammina, trascinandosi dietro ammiratori e gente stupefatta a cui ha raccontato il perché di questa sua spedizione.

La solitudine lo costringe ad aprire la porta ai suoi demoni personali. Semplicemente camminare richiede un comportamento totalmente avulso dal suo carattere e gli conferisce la capacità di connettersi sia con la natura che con l'umanità. Trae la forza per andare avanti dalla nuova consapevolezza dell'intricata bellezza della natura.

Si denota poi una certa satira quando Harold verrà in seguito raggiunto da star del cinema che lo seguono ma non per portare realmente conforto ad una persona morente, bensì solo per farsi notare, in un' era in cui “apparire” è tutto.

Alcuni di questi personaggi secondari sono molto ben delineati e sembra che riusciamo a percepirli distintamente attraverso gli occhi e le orecchie del sessantacinquenne.

A volte il libro, con la sua struttura episodica e talvolta ripetitiva, rasenta la noia, ma la Joyce non edulcora i fatti.

La vicenda è intrisa di solitudine, si annoverano le piccole delusioni della vita e si definisce il grande peso che costituiscono problemi che ingrigiscono la vita reale degli adulti, sempre surclassati da impegni, troppi in quest’età moderna; gli ultimi capitoli sferrano al petto e allo stomaco del lettore un paio di colpi emotivi inaspettatamente violenti. Tutto questo è temperato da un senso di quieta celebrazione.

Il protagonista non capisce mai pienamente perché ha iniziato il suo viaggio e non riesce a contemplare tutti i motivi per cui sta camminando, sa solo che deve andare avanti. Una nota di speranza attraversa il racconto facendoci giungere lentamente, con piccoli dettagli, alla commozione finale. Durante il percorso troveremo momenti di connessione con una donna che si sveglierà da un sonno profondo, come congelata dal dolore, e poi capace di toccare nuovamente le persone e sentirne la vita scorrere tre le punte delle dita.

03/06/2022

Wilson Testamatta di Mark Twain

Anche conosciuto come Wilson lo zuccone, questo romanzo di Mark Twain del 1894 racconta la storia di uno scambio di ruoli nell'America schiavista. Inizialmente programmato per essere un racconto umoristico incentrato su due gemelli, divenne un dramma sul razzismo e sul rapporto tra ambiente ed ereditarietà (tema che riprenderanno moltissimi scrittori e sceneggiatori). Sentiamo che cosa ne pensa Andrea Brattelli.

Si narra che Mark Twain nello scrivere questo romanzo si sia ispirato alla storia di due gemelli siamesi italiani che lo ha molto impressionato.

In realtà la storia che andremo a recensire ha poco o nulla a che fare con la vicenda di cui sopra. Come accade sovente con gli scrittori poi si sono aggiunte, all’idea di base, altre situazioni e personaggi.

All’inizio vi è una lunga introduzione, e per questo non so se quest’opera si possa definire una lettura per bambini, come viene classificata, perché questa scelta stilistica risulta un po' noiosa, almeno in italiano, non so in lingua originale. Se poi consideriamo i temi trattati… Sarebbe il caso che l’insegnante prima di consigliare questo scritto facesse una piccola lezione di storia ai giovanissimi alunni.

Nel corso delle vicende umane infatti, la popolazione dalla pelle bianca proveniente prevalentemente dall'Europa occidentale, è riuscita a rafforzare il suo dominio sulle persone dalla pelle più scura presenti nel mondo. Ciò era dovuto, in gran parte, al fatto che per primi hanno sviluppato strumenti e armi per assoggettare le genti a loro vicine. L'uomo bianco sviluppò rapidamente la sensazione di essere fondamentalmente e naturalmente superiore ai suoi fratelli dalla pelle più scura. Attraverso questo romanzo (in lingua originale Pudd'nhead Wilson), Mark Twain rivela il razzismo intrinseco all'interno della sua società.

Nel libro viene riportato che attraverso delle prove attuate su le impronte digitali si dimostra che un uomo è nero e l'altro è bianco e il primo, secondo questi test “scientifici”, è inferiore rispetto al secondo; anche l’uomo bianco potrebbe non essere all’altezza di altri suoi simili se non è cresciuto all'interno della "vera" società europea.

Il testo presenta una struttura di base alquanto insolita. Si narrano infatti due storie che si svolgeranno parallelamente fino ad incontrarsi. La prima è la storia di Wilson lo zuccone, un avvocato che arriva a Dawson's Landing nella speranza di farsi un nome, ma, a causa di un'osservazione inopportuna, viene bollato come idiota. Per questo motivo prima di fare il legale svolge vari lavori fino a quando inizia ad interessarsi di impronte digitali.

La seconda trama descrive uno scambio di fanciulli operato da una donna schiava ai danni del suo padrone rimasto vedovo per salvare suo figlio (di lei). E’ proprio a questo punto che nel racconto si esplora il dibattito tra natura ed educazione quando i due bambini vengono scambiati nelle loro culle dalla loro tata, Roxana, schiava di razza mista che ha dato alla luce un bambino maschio, concepito con un uomo bianco del villaggio di Dawson’s Landing. Questo gesto metterà in moto una serie di eventi che cambieranno la vita di tutti.

Senza voler svelare il finale, leggendo questo romanzo si arriva a comprendere più a fondo il significato della frase "essere venduti lungo il fiume" e le differenze percepite tra i rapporti padrone/schiavo in questo stato di confine rispetto al "Profondo Sud", almeno nel 1830, quando il romanzo inizia. Sospetto che questo libro non sia molto conosciuto e molti potrebbero anche non esserne consapevoli, ma è un eccellente contrappunto ai racconti classici più apprezzati dell'autore.

Per molti aspetti ovvi, Pudd'nhead Wilson è, come la maggior parte dei primi romanzi di Twain, un'opera inesorabilmente laica. Pone la maggior parte della sua attenzione esplicita sulle istituzioni, i processi e le credenze storicamente costituite, ed esamina le caratteristiche della vita sociale e culturale principalmente da una prospettiva che si concentra sull'azione umana e sul processo naturale nel funzionamento di questo mondo. Anche le istituzioni religiose e le credenze di Dawson's Landing sono trattate più apparentemente come fenomeni socialmente costruiti, riflessi di desideri e impulsi umani più che delle vie di Dio. Per certi spetti, infatti, la comunità è dominante.