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La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

25/02/2022

Neve sottile di Junichiro Tanizaki

Oggi si celebra un anno dal sodalizio con Andrea Brattelli. E lo ringrazio moltissimo, perché la mancanza di tempo (ma soprattutto di concentrazione) mi ha impedito di scrivere tutte le recensioni che avrei voluto.

Andrea si è cimentato con libri di vario genere, dai classici ai titoli meno conosciuti, biografie e romanzi dimenticati, titoli di attualità ecc. Questo genere di iniziativa viene proposta anche sul forum dedicato alla rasatura curato da Andrea, "ilrasoio.com", con il nome di T.A.O.S.A.B. (The Art of Shaving and Book), con una fotografia legata alla rasatura accompagnata dal libro recensito.

Da oggi, con Andrea, vorremmo coinvolgervi maggiormente, pertanto nei commenti accettiamo volentieri consigli di tutti i tipi, compresi suggerimenti su tematiche da affrontare.

In quest'anno abbiamo raggiunto parecchi traguardi perché, grazie alle lettura, si esercitano il pensiero e la riflessione e magari si allevia anche la solitudine e, nel nostro piccolo, il blog può esservi utile :)

E ora, la nuova recensione di Andrea: Neve sottile.



Junichiro Tanizaki potrebbe essere definito il Tolstoj giapponese, non tanto perché descrive scene e situazioni quotidiane plausibili della sua epoca inizialmente, all’apparenza, semplici e banali ma che, in seguito, a causa di eventi esterni, diventano intricate, piuttosto perché riesce a mettere in luce i dissidi che, come fantasmi della tradizione nipponica albergano nelle dimore abitate da famiglie numerose e che, dopo un lungo silenzio, si manifestano, per qualche ragione, con tutta la loro energia sconvolgendo la serenità.

Il romanzo che mi accingo a recensire è ambientato tra il 1936 e il 1941 e le protagoniste fanno parte dell’alta borghesia di Osaka e vivono una vita pressoché spensierata. La loro vita sta però per cambiare, perché, di lì a poco, vi sarà l’attacco a Pearl Harbor.

Le quattro sorelle sono molto diverse tra loro caratterialmente e verranno descritte psicologicamente attraverso la messa in scena di situazioni nelle quali si renderà evidente a noi lettori come ognuna di loro si comporta nei più svariati contesti. In questo modo lo scrittore ci renderà anche partecipi dei costumi della società giapponese dell’epoca.

Per certi versi questo libro sembra un racconto di Jane Austen: vi è da organizzare un matrimonio combinato nel presente, affinché, in futuro, il buon nome della famiglia sia consolidato e possa, addirittura, accrescere il suo prestigio.

La triste sorella Yukiko, a cui si deve trovare un marito all’altezza, rappresenta il passato; Taeko invece simboleggia il futuro.

Il passato che si intende rappresentare non è quello ricco di tradizioni giapponesi, o meglio, è quello in cui si pongono sotto la lente di ingrandimento solo gli usi più beceri e vetusti della comunità.

Data questa premessa, il futuro immaginato fulgido dalla sorridente Taeko in realtà è come un sole che, appena sorto, dovrà fare i conti con un’eclisse di enorme durata.

Ho sempre ritenuto questo romanzo il “meno puro” tra quelli di Junichiro e tra altri letti, scritti da vari romanzieri giapponesi. In realtà, unendo le mie esperienze vissute con il popolo giapponese con quelle di un mio amico che e stato per circa venti anni in Giappone, ho capito che mi sbagliavo.

Lo scrittore identificando il passato e il presente per mezzo di due personaggi femminili usa una tecnica molto in voga in ogni forma d’arte giapponese: l’evocazione attraverso spiriti o personaggi immaginari che, a guisa di metafore, suggeriscono agli umani cosa fare oppure li distraggono dagli impegni presi.

L’umanità, a scapito di una eccessiva rarefatta carnalità, viene data a queste due figure immergendole nella quotidianità per cercare di far capire agli uomini cosa dover cambiare nella società per venire poi a patti con una tradizione antichissima che dovrà necessariamente mutare in seguito alla disfatta dovuta alla perdita, da parte dei giapponesi, della Seconda Guerra Mondiale.

In questo senso il narratore è stato profetico, proprio come una creatura soprannaturale del Sol Levante.

Meditando si ha, terminato il libro, proprio un senso di perdita, effettivamente; ma, per noi occidentali, forse questo è il romanzo orientale che più ci avvicina e ci fa capire, nella diversità tra popoli che, banalmente, “tutto il mondo è paese”, come si suol dire.

La tecnica di scrittura è elaborata ma assolutamente scorrevole: non è facile, nella lingua giapponese, sostenere in poche righe passaggi dal passato al presente per poi andare nell’immediato futuro senza scadere in toni poco armoniosi.

Ci sarebbe, infine, da interrogarsi, dato che di matrimoni si discute in questo scritto, come sempre, sul significato della parola amore: amore in giapponese si potrebbe tradurre nell’inglese “like”... Orribile. Ma il suo reale significato è: voglio stare con te escludendo tutti gli altri; un fervore monoteistico tipico della cultura occidentale...


18/02/2022

La foresta di smeraldo, tratto dalla sceneggiatura di Rospo Pallenberg

Questa settimana Andrea Brattelli tira fuori dal cilindro un libro del quale ignoravo totalmente l'esistenza: La foresta di smeraldo di Robert Holdstock. Il romanzo è tratto dalla sceneggiatura (del mitico Rospo Pallenberg, che pochi anni dopo dirigerà il primo film horror di Brad Pitt noto in Italia come Il ritorno di Brian) del film omonimo del 1985 diretto da John Boorman, regista di Un tranquillo weekend di paura. E ora lascio la parola al mago, cioè Andrea!

Romanzo basato su di una storia vera, da cui è stato tratto anche un film. Può essere antropologicamente inteso come un viaggio a ritroso nel tempo: si torna alla preistoria, circondati da indiani amazzonici che credono di essere dotati di un potere che li rende invisibili*, abitanti di una foresta pluviale impenetrabile.

Ma chi sono i primitivi? Gli indigeni Xingu appena descritti oppure i venezuelani a capo di una ditta che costruisce dighe e che stanno sconvolgendo il corso naturale delle acque riportando così alcune zone all’età della pietra, ove a causa della mancanza delle risorse idriche e al disboscamento sarà difficile sopravvivere?

La quarta diga più grande del mondo, il Tucurui, che serve per deviare l’acqua presso delle centrali idroelettriche, per essere costruita ha bisogno di molto spazio che viene creato da ruspe che fagocitano, come enormi dinosauri carnivori, grandi quantità di alberi grossi quasi quanto Baobab.

Al rumore assordante dei macchinari, al fetore del loro combustibile che si diffonde fino a 40 miglia rendendo l’aria irrespirabile, si contrappone la musica della fitta vegetazione, la melodia dei versi degli animali che la abitano, le percussioni della pioggia scrosciante sulle enormi foglie di Heliconia Episcopalis.

Se si esclude una spedizione nel 1884 e qualche incursione aerea dopo la Seconda Guerra Mondiale, le popolazioni del luogo non sono mai state avvicinate da esseri umani civilizzati, o presunti tali.

Vivono come nel neolitico, si nutrono grazie a caccia e pesca e le donne raccolgono la manioca; hanno come capo il re del villaggio ed uno sciamano. Abitano case fatte di tronchi ed hanno un forte senso della comunità.

In questo scenario un ingegnere perderà suo figlio, biondo e magro come un ramoscello, l’emblema della caducità umana, durante i lavori di costruzione della grande diga e, dopo 10 anni, quando lo ritroverà, scoprirà che è diventato una perfetta creatura della giungla.

Da qui inizieranno i suoi dissidi interiori: lasciare il sangue del suo sangue in balia dei primitivi? Riportarlo a quella stessa civiltà da cui proviene? Persone senza scrupoli che intaccano severamente il delicato equilibrio ecologico con la deforestazione, che distrugge il 53% di tutte le forme di vita che si trovano nelle foreste tropicali.

Tutto questo è causato in nome del progresso e della tecnologia ma è proprio quest’ultimo che, grazie al raziocinio umano, alla fine servirà per salvare le tribù dall’ennesima minaccia.

Dopo aver letto questo libro capiremo cosa significa cambiare il nostro modo di vedere le cose, attraverso gli occhi del padre del ragazzo, diventato un moderno Mowgli. Non mancano scene d’azione e riferimenti al nudo femminile. Nel film tratto da quest’opera le scene in cui appaiono donne nude sono molteplici e ricordo, quando lo vidi da ragazzino, che ciò suscitò in me i primi “pruriti” e capii perché il giovane non voleva più tornare indietro…


*In realtà si tingono di una sostanza verde che li preserva dai morsi delle formiche e, al contempo, li rende mimetizzati nella foresta pluviale perlopiù verde.

11/02/2022

Picnic ad Hanging Rock di Joan Lindsay

Stavolta, per San Valentino, Andrea Brattelli ci parla di un libro che qualche anno dopo diventerà un famoso e inquietante film di Peter Weir: Picnic ad Hanging Rock di Joan Lindsay, pubblicato nel 1967. Ad accrescere il mistero attorno alla storia ambientata nel 1900, il trucco di dare l'impressione che fosse tratta da fatti realmente accaduti. La spiegazione di quanto accaduto nel romanzo avverrà solamente alla morte della scrittrice, per un accordo con l'editore.

«Sebbene il giorno di San Valentino sia in genere dedicato allo scambio di regali e ad affari di cuore, sono trascorsi esattamente tredici anni da quel fatale sabato in cui un gruppo di circa venti allieve e due insegnanti partì dall'Appleyard College sulla strada di Bendigo per un picnic a Hanging Rock. Una delle insegnanti e tre ragazze scomparvero nel pomeriggio. Solo una venne poi ritrovata.»


Siamo nel giorno di San Valentino del 1900. Con una veduta a volo d’uccello la scrittrice ci propone la seguente ambientazione per il suo racconto: cicale che friniscono, dalie cadenti, prati baciati dal sole, fanciulle che sgambettano tra i fiori; fotografa, fondamentalmente, una calda mattina d’estate fuori stagione. Devo ammettere che, nel Pantheon delle mie scrittrici preferite, la Lindsay è sempre stata tra le migliori “pittrici” di costruzioni sceniche mai conosciute. Il tutto si percepisce come un fermo immagine nel quale delle ragazze si preparano per una gita al monolitico Hanging Rock... Ma qualcosa di tremendo sta per accadere.

Un mistero che si apprezza con una inquietudine che sembra di origine onirica, che scaturisce da quei sogni che si fanno dopo aver fatto l’amore su un prato, quando ci si ritrova con la schiena umida di petali di fiori schiacciati dai corpi nudi.

La narratrice prova a suggerire, prima di iniziare, che la storia sia vera. Molto probabilmente non lo è ma sembrano reali, grazie alla sapiente descrizione, i corpi delle ragazze sui quali vestiti serpeggiano lucertole e ronzano coleotteri, le vesti strappate, le gonne lacerate che suggeriscono un nauseante erotismo dall’odore acre.

Le persone in città, non vedendole tornare, le immagineranno morte, i loro corpi fracassati al suolo in balia degli animali selvatici, in un misto di santità, data la loro illibata giovinezza sprofondata nel degrado.

Il soprannaturale ci terrà incollati al romanzo insieme alla domanda che ci porremmo su un biglietto dal significato arcano di cui si fa riferimento durante il racconto.

Le domande che ci poniamo durante la lettura sono: in che modo le nostre azioni influiscono sulla vita altrui? Che fine hanno fatto le ragazze? Come cambia lo spirito di una comunità dinanzi alle tragedie?

Quesiti che si dipaneranno come un fronte d’onda, insieme all’inquietudine e ad arcani risvolti.

I personaggi che incontriamo sono caratterizzati semplicemente, ma, al contempo, in maniera efficace. Saltano fuori come da uno scrigno e, in poche pagine, si descrivono le vite di sei persone.

A volte, devo ammetterlo, mi sembra ci sia troppa carne al fuoco. Molte descrizioni, tanti personaggi fin troppo riflessivi ma dai pensieri inconcludenti dato che non avranno una vita spensierata in futuro ma più dedita all’autolesionismo, troppe situazioni ambigue che si intrecciano con articoli di giornale e testimonianze.

Questo è ciò che rallenta un po’ la narrazione rispetto al film tratto da questo scritto.

Joan Lindsay a volte ci lesina le informazioni, altre volte dichiara tutto apertamente, e, alla fine, ci si sente come se ci si alzasse da tavola con lo stomaco ancora un po’ vuoto, e invece di porci la domanda su cosa volere ancora dovremmo pensare a chiederci se al di fuori della stanza in cui siamo c’è qualcosa di diverso per noi che ci può rendere appagati perché i mezzi di cui disponiamo per rapportarci nel mondo che ci circonda non sono sufficienti.

Riporto, a tal proposito, una frase di Marion, personaggio presente nel libro: "Un numero sorprendente di esseri umani è senza scopo. Anche se è probabile, ovviamente, che stiano svolgendo qualche funzione necessaria sconosciuta a se stessi."

04/02/2022

Into the Wild (Nelle terre selvagge) di Jon Krakauer

Oggi Andrea Brattelli ci parla di una storia tragica realmente accaduta, quella raccontata da Jon Krakauer in Into the Wild  (Nelle terre selvagge). Dal momento dell'uscita del libro, nel 1996, e del meraviglioso film che ne è stato tratto da Sean Penn nel 2007, interpretato da un eccezionale Emile Hirsch, l'opinione pubblica si è divisa: da una parte chi come me ha sempre trovato comprensibile la scelta rivoluzionaria di Christopher McCandless, novello San Francesco che se ne fregava della sua posizione privilegiata, a costo di mettere a rischio la propria vita; dall'altra chi, nel migliore dei casi, lo vede come un povero minorato o come un fallito senza midollo. A voi, che leggete, l'ardua sentenza.



Into the Wild (Nelle terre selvagge) di Jon Krakauer è il resoconto della vita di Christopher McCandless il quale, dopo essersi laureato nel 1990, si disfò di tutti i suoi averi (era di famiglia benestante) e vagò senza meta per l’America fino ad arrivare in Alaska lasciando dietro di sé parenti in preda alla disperazione, in un’ottica totalmente egoistica di raggiungimento della pace dei sensi, ispirandosi e fondendosi con la Natura tanto decantata da Jack London, senza aver capito che senza cognizione di causa i boschi, con il sopraggiungere della notte e del clima freddo, possono diventare una trappola mortale.

L’autore si è preso la briga di cercare e parlare con tutte le persone che conobbero questo ragazzo; le interviste che si susseguono nel testo si alternano a frasi trovate nei suoi diari rinvenuti: periodi tratti da scritti di Thoreau, Tolstoj ecc.

Da questa frase in particolare: “Quando perdoni, ami. E quando ami, la luce di Dio risplende su di te", si evince che alcune persone seguono le percussioni di un loro “tamburo” interiore, bramano viaggiare ascoltando e assorbendo il ritmo dell’ambiente che li circonda, facendosi accarezzare dal vento, dal sole, dalle intemperie, rifiutando ogni convenzione sociale. Vivono in simbiosi e a volte, purtroppo, diventano vittime di esperienze crude e non filtrate.

Potrebbe sembrare questo un racconto in prima e terza persona di un uomo coraggioso e forse si è spronati a comprare il libro proprio perché si pensa che si leggerà un romanzo di avventura: nulla di più sbagliato.

Si narra la vita di un giovane che rifiuta il materialismo, gli sprechi, la vita frenetica e dettata da ritmi prestabiliti. Lo fa fuggendo. Mi chiedo se sia fuggito innanzitutto dai suoi problemi e dalle sue responsabilità. Si può cambiare il mondo anche ritagliandosi degli spazi nella propria vita dedicando del tempo ad altri, costruendo qualcosa di nuovo e un mondo migliore con l’aiuto di altri esseri umani.

Christopher era un ragazzo molto intelligente e prestante fisicamente, ma poco saggio: non aveva l’abilità nel vivere.

Alcune persone che lo conobbero, appresa la notizia della sua tragica fine, se la presero con Dio per non averlo salvato. Secondo me se esistesse un’entità superiore, direbbe loro che il nostro avventuriero aveva una famiglia amorevole con cui confrontarsi e che non lo avrebbe mai lasciato solo nelle difficoltà, che gli era stata donata alla nascita per preservarlo dalle asperità. Ha giocato male le sue carte.

Penso che Jon Krakauer abbia voluto puntare i riflettori sul fatto che per la ricerca dell’autostima una persona debba distanziarsi dai cliché che i media ci portano a sorbirci non facendoci accettare la diversità: tutto oggettivamente giusto, ma, in questo caso, mi sembra un pensiero fuori luogo.