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La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

25/08/2023

I viaggiatori della sera, di Umberto Simonetta

Nel 1976, in un periodo nel quale la società italiana inizia a fare i conti con la terza età, Umberto Simonetta pubblica per Mondadori un libro che non verrà più ristampato: I viaggiatori della sera, che diverrà anche un film poco fortunato diretto da Ugo Tognazzi. Se la fantascienza italiana ha avuto fortune alterne, non dimentichiamo che alcuni grandi scrittori si sono cimentati anche con la letteratura di genere dimostrando di saper anticipare i tempi. Il soggetto di Simonetta ad esempio, che a sua volta non è del tutto nuovo (pensiamo al racconto The test che Richard Matheson scrisse già nel 1958) ricorda in parte quello del film The Lobster di Yorgos Lanthimos del 2015. Con la sua recensione, Andrea Brattelli ci dà un motivo in più per tornare in biblioteca :-)

Il libro di Umberto Simonetta intitolato I viaggiatori della sera è un dramma distopico futuristico. Narra di un mondo sovraffollato nel quale, per evitare ripercussioni sulle generazioni future, la Legge prevede che al compiere dei 49 anni ogni cittadino debba obbligatoriamente abbandonare il proprio lavoro e la casa in cui abita per recarsi in uno dei numerosi villaggi vacanze messi a disposizione del governo per una villeggiatura definitiva. Tra giochi e divertimento ogni mese in questi resort il personale impone agli ospiti attempati la regola draconiana di giocare a tombola. Chi vince partirà per una crociera da cui non tornerà mai più.

Tutti i villeggianti sono quindi dei detenuti in una gabbia dorata, anzi, in stanze d’albergo confortevoli dove gli inservienti li tengono lì con la forza, mascherando quest’ultima attraverso atteggiamenti amichevoli e messa in atto di strategie volte a far apparire quei luoghi come una normale estensione delle dimore in cui erano abituati a vivere con i famigliari (molti infatti hanno lasciato da soli mogli e figli perché non hanno la stessa età), con tanto di serate all’insegna del buon cibo, giochi e musica popolare atti a ricalcare i costumi borghesi.

L’attesa rende un dramma la vita di coppia e quindi anche quella dei nostri due protagonisti, Alvaro e Annamaria, rispettivamente marito e moglie.

La parte della vita amorosa racchiusa nell’erotismo, nell’impulsività, nell’emotività inizia col tempo a mancare. Sembra più che l’uomo e la donna rimangano insieme perché sono diventate materialmente l’uno il tassello mancante dell’altra, solo perché l’uno ha un tratto distintivo da abbinare all’altra in modo da completarsi a vicenda e… andarsene finalmente insieme in modo da liberare in una sola volta due posti nel resort e quindi altri due sulla Terra. Si legge tra le righe una totale mancanza di sentimenti da mettere alla prova.

Attraverso il paesaggio dipinto nel romanzo si mette in dubbio il sistema stesso che ha prodotto questo metodo di sopravvivenza per la razza umana, nonché le ipotesi sul perché si dovrebbero lodare certe scelte.

Il mare in cui tutto scorre e dove i bagnanti attendono il loro destino al suono di canzonette orecchiabili fa da contrasto agli edifici del villaggio vacanze che si stagliano nei pressi della spiaggia, dalle linee scintillanti, pulite, dall’architettura moderna edificata con i materiali più innovativi e sostenibili. Il fulcro drammatico dell’opera sussiste proprio in questo paradosso schematico che ovatta i desideri amorosi seppur questi non siano ostacolati dai sorveglianti stessi.

Il viaggio verso ameni luoghi accarezzati dalla brezza marina e dove negli anfratti di squadrati edifici stagna l’odore di salsedine si percorre su una moderna autostrada che ricorda la monorotaia di Fahrenheit 451 di Truffaut. Questi era un regista, un autore, ancora più visionario di Simonetta almeno per quanto riguarda le premesse di una distopia oppressa dalla tecnologia; aveva capito che sarebbe stata la roccaforte della nostalgia il preservare stili e forme tradizionali all'interno della sua società sorvegliata e nella quale si attuava il lavaggio cervello assistito dai media.

Ne I viaggiatori della sera i grandi meccanismi sono mossi attraverso semplici comandi. Il lamento lacrimoso dell’autore per un mondo incentrato sulle coppie e un sottomondo incentrato sui solitari tradisce un senso irritabile e dispeptico della disforia sessuale e romantica; pochi o nulli i riferimenti per lo stato della società o della condizione umana: solo una messa in onda dei suoi piccoli gemiti quotidiani.

L'attivismo sociale e la documentazione politica che porta dinanzi ai nostri occhi questo scritto non sono garanti del suo merito artistico e non sono in alcun modo correlati ad esso.

Non si pone al suo interno una vera luce sui problemi del paese negli anni in cui è stato pubblicato (1976), in alcun modo suggerisce che la pratica artistica si sviluppi di concerto e in risposta a delle circostanze pratiche.

Forse è questo il motivo per cui I viaggiatori della sera non è stato più ristampato? La sua cupezza può essere presa come un segno di intento serio e, anche se la sua svolta sentimentale offre desiderio di speranza in un futuro migliore, offre una parvenza di profondità senza assolutamente alcun livello di difficoltà. Ancor più importante, la sua allegoria distopica risponde ad un bisogno reale. Gli scrittori talvolta cercano disperatamente di allontanarsi dalla solita corsa al realismo drammatico ma sono anche snob, stanchi delle richieste della gente. 

Questa storia è una via di mezzo che si adatta sia ai lettori che sono desiderosi di frivolezze e di evadere dalla realtà politica e sia a quelli consapevoli della demagogia intellettuale in vistosa difesa degli scritti di carattere politico. L'allegoria in questo romanzo offre un senso di significato sociale pur mantenendo una sofisticata distanza da qualsiasi problema reale. È dignitoso. La società composta dai personaggi e protagonisti che l’autore guarda dal basso verso l’alto è sia aperta, fluida, integrata, reattiva ma anche chiusa, rigida e nostalgica.

18/08/2023

Isole nella corrente, di Ernest Hemingway

Isole nella corrente è l'intensa opera postuma di Ernest Hemingway, raccontata - anzi: vissuta - da Andrea Brattelli che ne coglie tutta la densità e i numerosi riferimenti. Aveva già parlato qui di Il vecchio e il mare.


Isole nella corrente è un libro pubblicato postumo, scoperto dalla quarta moglie di Hemingway, Mary, poco dopo il suicidio dello scrittore Premio Nobel.

L’opera al momento del suo ritrovamento si poteva già definire praticamente conclusa. Io che l’ho letta posso affermare che non è da considerarsi minore rispetto alle altre che riflettono la vita di questo scrittore che ha tribolato per aver avuto l’esperienza diretta di due guerre mondiali e della guerra civile spagnola, ha vissuto esperienze esotiche nei Caraibi ed è riuscito ad adattare quello stile di vita anche quando ha soggiornato in Europa. Ha frequentato molti altri grandi narratori del suo tempo e, in questo modo, è riuscito sempre ad avere il polso della situazione concernente la situazione delle generazioni di vari periodi storici. 

Redatto poco prima del suo suicidio, questo scritto è pervaso da un tumulto emotivo, dalla depressione che stava attraversando e che si è infiltrata nella sua scrittura. Isole nella corrente nasce da un senso di tristezza scaturito dal fatto che Hemingway si era accorto che non era più capace di scrivere come prima e stava quindi cercando di riaffermare il suo valore mentre in maniera scoordinata e disarticolata ruzzolava giù dall’apice del suo successo.

L'archetipo del narratore è chiaramente definito in questo romanzo attraverso il nostro protagonista, Thomas Hudson. È un uomo. Un vero uomo, come solo gli eroi di Hemingway sanno essere. Sa pescare e navigare in mare aperto; è un gran lavoratore ma quando è a riposo frequenta bische clandestine dove beve e si batte a mani nude con pendagli da forca. Stoico, sicuro di sé, tiene sepolta nel suo cuore, silenziosamente, una tragedia. Fondamentalmente si rende conto che la vita è anche intrisa di dolore e, attraverso le sue parole, tutto ciò lo si evince meglio di quanto lo si capisca ammirando i quadri dei suoi amici artisti: non basta vivere alle Bahamas per essere felici.

Thomas Hudson ha amato e perso due mogli e i suoi tre figli verranno a trovarlo per le vacanze. Con loro pescherà e si divertirà nell’isola dove vive, a Bimini. A tener loro compagnia ci sarà un amico di vecchia data, Roger, fortemente dedito al bere.

Le minuzie della pesca a me non interessano ma Hemingway con il suo stile piatto e scarno crea una sorta di tensione perpetua che ti lacera e strappa via la noia. Le dinamiche familiari sono commoventi: i figli cercano di essere d’aiuto per sgravarlo dalle fatiche quotidiane e per attuare ciò collaborano molto tra di loro e seguono diligentemente i dettami del padre che non si dimostra comunque pedante e fa di tutto per trovare del tempo per stare con loro e farli divertire rinunciando alle sue risse nelle osterie.

Solo in un secondo momento però mi sono accorto che questo romanzo è in realtà diviso in tre parti (prima di leggere qualsiasi cosa non leggo mai né trama né recensioni, mi lascio trasportare dall’istinto) e quella in cui il protagonista è depresso e alcolizzato racchiude scene che si verificano solo dopo l’arrivo dei figli sull’isola e in seguito a diverse tragedie.

La terza parte del romanzo è dedicata a descrivere la vita di Hudson che insegue l’equipaggio di U-Boot tedesco intorno a Cuba. Il dolore lo ha quasi divorato e rimane ben poco dell'uomo che era mentre caccia altri uomini e cerca di raggiungere la sua inevitabile morte.
Il ricordo de Il vecchio e il mare tormentò la genesi di questo romanzo sin dall'inizio, ed è difficile non pensarci durante la lettura della prima parte perché entrambi sono estremamente simili e accurati nella loro descrizione della cattura di un grande pesce. Il vecchio e il mare fu l'ultima opera di Hemingway prima di morire. Isole nel torrente è stato il suo primo lavoro ritrovato dopo che è morto (e l’ultimo in tal senso). Il primo inizialmente era la terza parte originale del secondo, ma, all'ultimo momento, è stato rielaborato per essere pubblicato singolarmente. La nuova terza parte di Island in the streams nasce da un racconto inedito (intitolato Inseguimento in mare) rielaborato dalla moglie e dall'editore per completare il romanzo al posto della sua conclusione originale. 

Entrambe le versioni glorificano la lotta che si deve intraprendere per la vittoria stessa ma, alla fine, quando avrete concluso la lettura di tutta l’opera e avrete relazionato le varie parti, vi accorgerete che, come nella storia de Il Colombre di Buzzati, tutta la narrazione non è che una allegoria del fallimento esistenziale. Inseguendo illusioni e vane oppure fuggendo dai pericoli reali o immaginari che siano, l’uomo si priva con le proprie mani della possibilità di assaporare la vita per quello che è e per quello che sa offrire. Evidente, in questo caso, la metafora del pescatore che con le mani deve comunque districare le reti per prendere il pesce catturato, poco o tanto che sia, altrimenti la prossima volta non avrà forze per navigare e non avrà mezzi per pescare.

In questo senso, Isole nella corrente può essere inteso come uno studio sul dolore preternaturale* e sulla pervasività di un tipo di depressione che non ha una vera spiegazione e nessuna vera cura. Funziona come un lavoro psicologico sulle sfumature di ansia sociale a cui sono soggetti gli esseri umani durante una crisi di mezza età. Penso che ci siano anche molte altre implicazioni metaforiche e interpretazioni in generale. Ho vissuto pienamente quest’opera e, nonostante queste descrizioni cupe, ho scoperto che mi è davvero piaciuto leggerla. Un monumento edificante, un funerale di stampo letterario dedicato ad un grande scrittore che non c’è più.

* Di fenomeno che non è conforme all'andamento naturale delle cose.

11/08/2023

Il re della pioggia, di Saul Bellow

Andrea Brattelli alle prese con Il re della pioggia del 1959, un divertente libro di Saul Bellow che fu immediatamente pubblicato anche in Italia nella traduzione di Luciano Bianciardi.

"Un uomo può fare molte cose strane, ma fin quando non ha una teoria in proposito, noi lo perdoniamo. Se invece dietro le sue azioni c'è una teoria, tutti gli danno addosso."

Nel film L’ora più buia, durante la scena di un pranzo re Giorgio VI (Ben Mendelsohn) chiede a Winston Churchill (interpretato magistralmente da Gary Oldman): "Una bottiglia di champagne a pranzo ed una a cena, come fa?" E Churchill risponde: "Abitudine!"

Il protagonista del romanzo di Saul Bellow Il re della pioggia, Eugene Henderson, è anch’egli così: un multimilionario, spavaldo clown per natura, alcolizzato tanto da essere già ubriaco prima di pranzo. Le sue follie lo portano però, ad un tratto, ad un cambio di rotta e così, all’età di 55 anni, intraprende un viaggio in Africa. Il racconto di questo pellegrinaggio non ha nulla di omerico. Per noi lettori rappresenterà per sempre l’anti-poesia narrata dalla voce gergale del protagonista che farà da “io narrante” alle sue vicissitudini, nelle quali la vera eroina sarà solo la sua sfacciataggine.

Annoiato e infelice, questo ricco possidente allevatore di suini dall’indole rude, lunatico e tiranno spezza la monotonia delle sue giornate suonando il violino. Le sue ossessioni cerca di sfiancarle col duro lavoro fisico nella sua tenuta a Danbury (è un omone molto forte); nulla però può lenire il suo “tedio vitae” e la sua agonia generale a cui il suo spirito è in preda. Questi aspetti di codesto signore vengono posti in risalto più volte dallo scrittore, in maniera minuziosa nonché prolissa ed esasperante.

Definirei questo libro una prosa scaturita da una triplice sorgente. Tre sono infatti le fondamenta sulle quali si erge tutta la trama del romanzo. La commedia grottesca che non ha nulla di comico; l’avventura in Africa, continente messo in luce volutamente sotto una luce distorta, descritto con nessuna attinenza alla realtà, dove ci si aspetta, pagina dopo pagina, di incontrare Tarzan con il suo fedele Waziri; la ricerca dei “grandi principi della vita” che porteranno (dovrebbero condurre) a una pace spirituale, la felicità e il sentirsi più vicini a Dio in qualità di suoi figli prediletti. Tutti e tre questi elementi sono amalgamati sapientemente nel racconto. Henderson vaga per l’Africa lamentandosi dei suoi peccati, compiendo prodezze tanto da essere acclamato da una tribù primitiva “Sacro Re della Pioggia”. 

Il suo personaggio ricorda Don Chisciotte o il capitano Achab, se non per il suo coraggio, almeno per la sua indole ribelle contro il materialismo moderno contro il quale urla a gran voce nel deserto frasi di scherno per amore della Natura più che per affetto verso gli esseri umani. Intanto che le sue parole vengono scandite dal suono di tamburi, i colori di una nazione completamente diversa dalla nostra ci entrano dentro, e li lasciamo passare attraverso l’anima come se fossimo sdraiati sulla pelle di strumenti a percussione e nel nostro cuore e cervello rimbombasse solo il suono di casse di legno percosse da bastoni. Ad un tratto ci svegliamo e con gli occhi sbarrati guardiamo la luna gialla, immersa in una foresta resa blu dalla notte. Le stelle girano calme. Se ci alziamo e poggiamo l’orecchio a terra possiamo udire lo scalpitio degli zoccoli di zebra che si muovono in gruppo.

Nessuno vorrebbe criticare una lezione sulla redenzione ricca di simbolismi come questa. Molti lettori probabilmente concluderanno che Bellow ha cercato di trasmetterla in maniera un po’ impacciata. Egli non ha mai avuto un background africano, non c’è mai stato lì ma, con fare melodrammatico, tende a suggerirci che le fiabe con morale non sono realistiche per definizione eppure Esopo riusciva ugualmente a trasmettere buoni esempi ed ottimi principi. 

Lo scrittore statunitense però non è capace, in un certo senso, rispetto al greco, nel porre sul giusto piano e con equilibrio allegoria e fantasia. Henderson stesso sembra un wrestler che reprime il suo ego e la sua spavalderia sì con umiltà, ma che, alla fine, nonostante abbia cercato di acculturarsi, di studiare arte, letteratura e storia rimane un contenitore pieno di nozioni che potremmo tranquillamente apprendere in vecchi manuali polverosi stantii su scaffali polverosi di una biblioteca di una qualsiasi cittadina, scevri dai resoconti delle ultime scoperte. In definitiva, un bellimbusto qualsiasi alle prese con i provini del primo film su Tarzan del 1932, dai quali però poi viene scartato perché la sua parte andrà a Johnny Weissmuller.

04/08/2023

Diario di Hiroshima, di Michihiko Hachiya

Tra pochi giorni ricorreranno gli anniversari dello sgancio degli ordigni nucleari sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki da parte degli Stati Uniti. Questi avvenimenti hanno avuto un impatto tale che ancora oggi ne commemoriamo le vittime: ad esempio domenica 6 agosto tornerà a Bologna la cerimonia delle lanterne galleggianti. Andrea Brattelli ha scelto di ricordare le tragedie nipponiche parlando di Diario di Hiroshima di Michihiko Hachiya, crudo resoconto di un medico che racconta delle cure prestate alle persone colpite.



Quest’opera è una affascinante documentazione su quanto accaduto a Hiroshima in seguito al lancio della bomba atomica che portò alla resa del Giappone dopo due settimane sul finire della Seconda Guerra Mondiale. Un genuino resoconto sul campo redatto da un medico giapponese che si trovava lì in quei tragici momenti e che potrebbe essere utile per approfondire la nostra conoscenza su quanto accaduto quel giorno ed è sicuramente un valido compendio a qualsiasi libro concernente il secondo conflitto mondiale.

Dal 6 Agosto al 30 Settembre 1945, il dottor Michihiko Hachiya tenne un diario sul quale annotò tutte le sue esperienze durante lo sgancio della bomba atomica su Hiroshima e ciò che accadde i giorni successivi. È una toccante testimonianza diretta dell’orrore e degli incubi generati dall’olocausto nucleare, resoconto monumentale che documenta sia le vicissitudini del protagonista/scrittore, sia quelle di vari sopravvissuti.

Hachiya è stato, essendo un medico, tra i primi uomini al mondo a studiare gli effetti della radioattività sulle persone e a fornire quindi un resoconto dettagliato dei danni da radiazione. Durante questo periodo estremamente difficile ci coinvolge stranamente lo sbigottimento dei sanitari; la paura aveva lasciato spazio allo stupore nel vedere cosa l’uomo era terribilmente stato capace di fare liberando energie che prima si attribuivano esclusivamente al dominio degli dei. Mi è venuta in mente, leggendo queste pagine in particolare, la frase di Platone: "Solo i morti hanno visto la fine della guerra".

Gli occhi del mondo si posarono sulle rovine di un paese distrutto, contemplando la distruzione portata da un ordigno i cui effetti devastanti non erano stati mai sperimentati sino ad allora. Mentre il sangue fuoriusciva da ogni orifizio di “burattini” sopravvissuti, loro malgrado, all’attacco, i medici cercavano di curarli anche analizzando i loro fluidi e umori corporei: staccandosi dal malato morente correvano con dei campioni verso i microscopi e, stropicciandosi via dalle mani i capelli dei leucemici per utilizzare le piccole manopole per mettere a fuoco lembi di pelle e scrutarli meglio, osservavano sistemi biologici mutati come in un horror fantascientifico di serie B.

Scrivo tutto ciò per avvertirvi che questo reportage non è per i deboli di cuore; la descrizione delle condizioni fisiche delle vittime è talmente ben articolata che vi sembrerà davvero di essere trasportati in un obitorio per osservare quei corpi sfigurati e gravemente ustionati.

Sembrerà assurdo ma, nonostante tutto ciò, persone che anche dopo un mese venivano ritrovate quasi morte e sconquassate da dolori, avevano ancora la forza per gridare che il governo giapponese non doveva arrendersi. C’è chi giurava di aver sentito tra le fiamme generate dall’esplosione gente che flebilmente, con l’ultima aria nei polmoni, supplicava tutti di non arrendersi. Assumevano le sembianze di fuochi fatui che dalle fiamme dell’inferno facevano capolino per affermare in qualsiasi modo, anche in maniera ingenua, la loro presenza nel regno dei vivi. "Solo un codardo si tirerebbe indietro ora", asserivano; "preferirei morire piuttosto che essere sconfitto" alcuni dicevano, e via discorrendo. L’orgoglio era più importante della vita loro e dei connazionali.

In seguito gli americani sbarcarono sulle coste del Giappone. Ci si aspettava che ne approfittassero per finire di uccidere i sopravvissuti, ma ciò non accadde. Consegnate tutte le spade, le katane dei samurai che finirono confiscate, bruciate o, molto più probabilmente, rubate dai generali dell’esercito statunitense, iniziò l’opera di ricostruzione del paese.

Hachiya morì nel 1980. Nonostante visse a un miglio da dove esplose la bomba campò molto a lungo; le radiazioni non ebbero molto effetto su di lui a quanto pare. Secondo me è da paragonare a un angelo caduto dal cielo a seguito di un cataclisma per occuparsi dei dolori dei comuni mortali e la sua penitenza per essere il fortunato sopravvissuto a quelle condizioni in cui tutti perirono è stata il dover ricordare la tragedia in ogni singolo dettaglio ogni istante della sua restante vita da quel maledetto giorno in poi.