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La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

26/11/2021

La via del tabacco, di Erskine Caldwell

Questa settimana Andrea Brattelli torna a parlare di Erskine Caldwell*, stavolta con La via del tabacco del 1932, che narra le vicende di poveri e testardi contadini negli Stati Uniti del Sud all'epoca della Grande Depressione. Un dramma grottesco che racconta molto della mentalità del tempo.



Scrivo questa recensione, non a caso, alla vigilia del 23 novembre, in occasione dell’anniversario del terremoto dell’Irpinia, quando alcuni comuni italiani e i suoi abitanti, per essere riconosciuti come tali, hanno dovuto subire una tragedia immane che gli facesse crollare il mondo addosso.

Ispirato dallo splendido monologo, da antologia, di Orazio Cerino, mi accingo ora a descrivere quest’opera.

Tobacco Road non tratta di un sisma catastrofico e allora, mi chiederete, cosa c’entra la suddetta premessa?

Erskine Caldwell si è sempre occupato degli ultimi del Sud America, relegati al margine della società civile come anche coloro che abitavano alcune zone del Sud Italia, vittime del terremoto del 1980.

Ne ha sempre discusso anche Saverio Strati di certi temi, ma, si sa, se ne parla uno scrittore straniero, estero, forse il grido di dolore dei poveri può riecheggiare più forte, rispetto all’amplificazione che può darne uno scrittore italiano semisconosciuto.

I protagonisti del libro, i Lester, sono una famiglia di mezzadri che, a causa della Grande Depressione e un cambiamento epocale delle politiche agricole, si ritrovano senza nulla e con il rischio concreto di morire di fame.

L’ignoranza, come la stupidità, porta a scelte sciocche e alcuni avvenimenti aggravano la già precaria situazione dei protagonisti. 

Non vi è pietà per gli stupidi, dato che, a seguito di una filosofia pienamente in voga negli anni '30 definita eugenetica (e forme distorte di questo pensiero), queste persone venivano volutamente abbandonate dallo Stato affinché morissero, dato che, proprio per i loro modi di fare, animaleschi più che umani, si riproducevano fin troppo perpetrando nei territori e negli anni il loro DNA malato, secondo i canoni del tempo.

Gente comune che aveva investito tutto il denaro, le capacità e le fatiche in un fazzoletto di terreno, finiva nelle grinfie di individui senza scrupoli, pronti a giocarsi quel poco che gli era rimasto per sopravvivere.

Ogni tanto, leggendo, scappa una risata, ma è triste, amara, come nei film di Totò.

*Qui la recensione di Miss Mama Aimee.

23/11/2021

Bezimena. Anatomia di uno stupro, di Nina Bunjevac


Bezimena significa “senza nome" perché è dedicato alle vittime senza nome della violenza sessuale. 

La storia, scritta da Nina Bunjevac, è quella di Benny, che fin da bambino prova impulsi sessuali incontrollabili. Benny è ossessionato da Becky, una compagna di classe. 

A nulla valgono i tentativi di rieducazione, compreso il famigerato letto antimasturbazione tipico dell’Ottocento: crescendo, Benny diventa un maniaco che si masturba ai giardini pubblici mentre osserva donne ignare. In seguito trova un lavoro allo zoo comunale e sembra essere in grado di gestire le proprie pulsioni; ma il ritrovamento di un taccuino lo porterà a mettere in pratica le sue fantasie.

La crudezza di questa opera, vincitrice del premio Gran Guinigi di Lucca Comics 2019 nella sezione "Migliore graphic novel", ci mostra, anche attraverso dettagli anatomici particolareggiati, una storia di violenza sessuale attraverso il punto di vista del carnefice: Bunjevac, traendo anche ispirazione da fatti autobiografici, mette in mostra le allucinazioni di uno stupratore. 

Visivamente il volume è di forte impatto: a sinistra si trova la voce narrante che, dalla terra, racconta la storia a una stella. A destra si trovano le illustrazioni a tutta pagina che ricordano un po’ lo stile di Franco Matticchio. Da leggere assolutamente.

19/11/2021

Guerre che ho visto, di Gertrude Stein

Questa settimana Andrea Brattelli ci parla di un libro scritto tra il 1942 e il 1944, pubblicato l'anno seguente poco prima della morte dell'autrice. Gertrude Stein lo scrisse mentre, con la compagna Alice Toklas, era segregata in un borgo della Savoia occupato dai tedeschi. La lettura del testo non è immediata, in quanto unisce le caratteristiche del diario e dell'autobiografia a fatti di cronaca, ma rende bene l'atmosfera di confusione e di angoscia legata alla guerra. "Gli esseri umani sono così, finiti e infiniti, quando hanno la pace vogliono la guerra, e quando hanno la guerra vogliono la pace."

Il libro Guerre che ho visto, in maniera frammentaria, attraverso una storia biografica e i ricordi della scrittrice-protagonista ci porta a vivere un ritratto intimo della Seconda Guerra Mondiale nella Francia occupata dai nazisti.

Le sequenze sono incastonate l’una accanto all’altra, come in un mosaico di cui però non esiste un preciso disegno e le tessere possiamo ricomporle soltanto ascoltando chi alcune esperienze le ha vissute realmente.

L’opinione comune crea la trama del discorso. La protagonista vede quello che la gente comune osserva nelle strade e ascolta, registrando mentalmente, ciò che le persone dicono.

Il periodare dimesso, l’andamento semplice della frase, il flusso continuo delle conversazioni che confluiscono nei brani di riflessione creano un muro compatto, corposo.

La Stein ci rende cittadini operosi che cercano di vivere, peregrinando nella cittadina, con un po’ di verdura e frutta, poco pane e poco latte. Il desinare frugale lo dovremo condividere con la scrittrice e la sua amica e amante Alice Toklas perché non è abbastanza per tutti.

Le descrizioni di prigionieri e bombe sono stridentemente giustapposte a vignette quotidiane sulla vita quotidiana, e a considerazioni sulla guerra civile americana e dell'Inghilterra sotto Enrico VIII.
Ciò che rende questo tipo di scrittura così intricato è che l’autrice ci propina pensieri come cibo lanciato contro degli affamati che lo afferrano e lo divorano avidamente senza distinguere tra antipasto, primo, secondo e contorno: sembra che decidiamo noi su quali parti del romanzo soffermarci ma in realtà decide lei in preda all’eccitazione e alla paura per ciò che accadrà a causa dei tedeschi.

Questo è un sistema di rappresentazione che l’autrice definisce “pubblicità” nel senso più ampio del termine, ovverosia esternare ciò che è all’interno di noi stessi rendendolo pubblico, quindi fuori dalla dimensione strettamente privata; è questo ciò di cui si nutre e necessita l’attenzione, la curiosità, la fame.

Discute con la stessa intensità di cose private e catastrofi politiche come il padre di famiglia che, seduto con i congiunti intorno alla tavola, fa delle considerazioni sulla sua giornata lavorativa unendosi coralmente alla discussione con la moglie riguardo i figli che l’hanno fatta dannare, le camicie non ritirare in tintoria perché ancora né lavate né stirate ecc.

Gertrude lavora, spostando lo sguardo dove l’attenzione coglie la mutazione e il movimento, soppiantando la finzione del romanzo e del ricordo. La fotografia si contrappone al quadro.

La narratrice, quando si preoccupa del miele, dei suoi stivali e di altre questioni domestiche mentre pensa ai prigionieri su un treno, mostra esattamente cosa sta affrontando, perché i pensieri sui piccoli problemi quotidiani la distraggono dalla cruda realtà che imperversa ossessivamente tra le strade e nei meandri della sua mente. Bisogna trovare il modo di sopravvivere in tali situazioni organizzandosi giorno per giorno. Questa è la guerra. Il confronto di ciò che sta accadendo nel suo tempo con l'Inghilterra di Enrico VIII, di Shakespeare, è un accento originale sul suo approccio nel considerare la storia come se si ripetesse costantemente.

Questo in teoria. Ma se così fosse il gioco sarebbe troppo facile e poco divertente.

Tanto per cominciare, proprio considerando questi accostamenti della guerra alla tragedia di Shakespeare e al romanzo di James Fenimore Cooper, viene da chiedersi se questo scritto implicitamente sottolinei la sua diversità rispetto alla storia narrata e rivendichi una capacità realistica che non appartiene alla finzione del romanzo, ma se poi, allo stesso tempo, l’immagine della guerra che lo sguardo della Stein registra, si dilata, si sfoca in un disegno di che prodotto letterario si tratterà mai? Come lo potremmo inquadrare?

Guerre che ho visto è un po’ un diario, un autobiografia, un romanzo storico. Rappresenta l’opera della scrittrice che si misura con tutte le forme di scrittura precedenti in un contesto di avanguardia storica per liquidarle e, al contempo, riappropriarsene.

Questi molteplici filoni di tempo e prospettiva rendono questo libro una lettura obbligata per gli ammiratori di Stein e per coloro che sono interessati alla storia del Modernismo.


12/11/2021

Benito Cereno di Herman Melville

Questa settimana Andrea Brattelli ci parla di uno dei romanzi brevi tra i più conosciuti al mondo: Benito Cereno, una novella del 1855 (pubblicata in Italia solo nel 1940) che ha ricevuto da subito le più disparate interpretazioni. Anche Andrea nella sua lettura del testo non è da meno, tanto da scomodare le teorie di Nietzsche.



Benito Cereno è una novella sulla schiavitù, la cui storia è basata su fatti realmente accaduti.

La vicenda all’inizio pare intricata, volutamente penso, per generare suspence.

Melville con questa sua opera protesta in maniera decisa contro la schiavitù fregandosene che suo suocero, giudice promotore di una legge nel Massachusetts che imponeva alle forze dell’ordine di arrestare chiunque fosse ritenuto anche solo ipoteticamente uno schiavo fuggito dalla prigionia, aveva elargito denaro a sua moglie, figlia del giudice, per farli vivere in maniera agiata.

La novella è una critica alla politica del sentimentalismo, alla benevolenza, alla carità cristiana, all'idealismo trascendentalista e alla compiacenza generale del liberalismo dell'élite del New England, perché, ai tempi, erano solo ideali di facciata.

La storia narra di una nave di schiavi spagnoli arenata al largo delle coste del Cile. La scena sulla nave è inquietante: l'equipaggio ha sofferto la febbre, le tempeste. Il personaggio principale è il capitano, apparentemente debilitato, Don Benito Cereno, letteralmente sostenuto dal suo apparentemente fedele servitore schiavo, chiamato con il diminutivo di Babo. 

Il nervosismo e la reticenza di Cereno, insieme alla particolare disposizione degli abitanti della nave – che include un corpo di uomini neri che affilano le accette in mezzo a un equipaggio bianco generalmente irrequieto – suscita il sospetto di Delano, un capitano che è venuto in soccorso della nave. 

In effetti, la maggior parte del racconto, narrato in terza persona con una focalizzazione rigorosamente mantenuta attraverso il flusso di coscienza di Delano, è un'oscillazione tra le paure del capitano del New England e le sue auto-rassicurazioni, un movimento d'onda emotivo che mima quello del mare.

Nell'atmosfera gotica della storia, la nave degli schiavi ricorda le abbazie in rovina e i merli crollati e possiamo quindi leggere una profezia dell'eventuale declino dell'America.

Forse l'interpretazione dipende anche da chi guarda l'evento. Il potere della novella deriva in parte dai limiti di prospettiva del punto di vista del lettore e della considerazione che avevano dei neri gli organismi preposti al potere a quei tempi.

Analizzando quindi la psiche dei personaggi, possiamo affermare che, ad esempio, il capitano Delano risulta intellettualmente mal equipaggiato per dimorare in un mondo di ambiguità (grigio, contro bianco e nero), di ombra (che deve essere distinta dalla sostanza), o di sofferenza (la passione evocata da "rood", sinonimo di "crocifisso" oltre che di unità di misura, in questo caso delle asperità nel cammino della vita). Delano è, a livello locale, una caricatura del trascendentalista con la sua definizione privativa del male e il suo idealismo compiacente, ma è anche, più ampiamente, una satira sulla sensibilità liberale in generale.

Babo, al contrario, con il suo genio nel mettere in scena lo spettacolo pubblico nell'interesse del suo popolo, non è altro che un maestro della politica. Il personaggio parla a malapena e non abbiamo accesso alla sua coscienza.

Non c'è incoerenza, quindi, nel vedere Babo sia come diavolo che come eroe, il vero protagonista della storia, se si considera la trasvalutazione dei valori dello scrittore romantico: "il male sia tu mio bene", un'interpretazione difendibile anche se controversa di ciò che sta a significare effettivamente che gli ultimi saranno i primi, quindi che i neri, un giorno, staranno al posto dei bianchi…

09/11/2021

Madri e no di Flavia Gasperetti


Inizierò dicendo che cosa NON è questo libro: un manifesto dell’orgoglio delle donne che rifiutano la maternità. L'autrice spiega invece quanto sia complesso l'universo delle non-madri. Già, perché mentre la maternità pur con le sue differenze appare come una condizione condivisa, chi decide di non avere figli lo fa per motivi tra loro molto diversi.

Nel libro Gasperetti parla dei forum childfree, che hanno al loro interno utenti con posizioni decisamente estremiste; ma in questo testo c'è molto di più: ci sono tutte le sfumature del mondo delle donne senza figli. Il merito dell'autrice, che è giornalista, ricercatrice di storia contemporanea e traduttrice, è di farci strada in moltissimi campi diversi, tra scienza, letteratura e comunicazione. 

Cercherò di menzionare alcuni degli argomenti più interessanti che ho trovato in queste pagine: prima di tutto, la letteratura femminista. L’autrice cita un testo fondamentale di Adrienne Rich, Nato di donna (1976, uscito in Italia nel 1977). Se non lo avete letto, fatelo: cercatelo in biblioteca o su qualche bancarella (purtroppo è fuori catalogo). 

Il concetto di Rich (che iniziò a scrivere il suo libro nel 1972) lo potrei riassumere così: la maternità è vuota come un'istituzione, il sacro è tutto nell'ideale ma nella pratica essere madre si traduce nel carico di una donna che deve dare tutta se stessa senza riserve.

Nelle pagine di Gasperetti si affollano numerosi pregiudizi e leggende metropolitane che circondano la maternità e la ammantano di un alone sacrale che si traduce, di fatto, in una montagna di responsabilità ampiamente non-condivise.

La storia dell'orologio biologico? Fuffa. Il termine è stato coniato nel 1978 dal giornalista Richard Cohen per parlare delle aspirazioni delle donne in carriera. L’orologio biologico, dice Gasperetti, è il luogo di incontro della scienza e del sessismo, dato che il fardello della riproduzione ricade solo sulla donna. L’uomo, anche se gli studi dimostrano che più invecchia più facilmente aumenta il rischio di anomalie nel feto, viene considerato in grado di fertilizzare la donna anche in età avanzata. 

Alcune di queste considerazioni sono a parer mio estremizzate. Un altro libro fondamentale per chi si interessa di femminismo, Vagina di Naomi Wolf del 2012, spiega che alcune delle formule tradizionalmente adottate per parlare di un desiderio di maternità che sarebbe "innato", per quanto imbevute di pressione sociale, hanno anche un parziale fondamento biologico.

I figli sono pochi, soprattutto in Italia: poco più di uno per coppia (mentre la quota di sostituzione sarebbe di due). Perché? Perché oggi "i figli non rientrano nel progetto di vita". E perché non ci rientrano? Di nuovo, la colpa viene attribuita dalla società alla "donna di oggi", troppo moderna ed emancipata: più alto è il titolo di studio, minore è la voglia di fare figli. 

E qui Gasperetti ci parla del racconto della zitella, un grande classico del pregiudizio. La zitella, nella letteratura e nel cinema, è bibliotecaria o maestra. Nell’Ottocento, quando iniziavano certi fermenti per i diritti civili, è stata molto alta l’invettiva contro le donne non sposate.

Nel libro incontriamo poi l’ostinazione di quelli che cercano di convincere le donne a fare figli con l'opera di persuasione del "cambierai idea", collegata al concetto della "mancanza" e del "completamento" grazie ai figli, legata anche all'errata convinzione che diventare genitori renda necessariamente adulti, maturi e consapevoli. 

La parte forse più interessante del libro è quella che parla del parto e del dolore, anzi del tabù del dolore: esiste anche una fobia specifica, la tocofobia. Sembra incredibile, eppure nel 2021 regnano ancora l'omertà sulla violenza ostetrica e il vecchio convincimento che "il dolore è normale". 

La ricerca attorno alla diminuzione dei dolori del parto con l’epidurale, continua Gasperetti, ha coinvolto anche alcune riflessioni di medici che ritenevano quello del parto un dolore psicologico: l’ipotesi che la donna senta dolore perché la modernità l’avrebbe allontanata dallo stato di natura (e qui mi viene in mente, prepotente, l'agghiacciante scena del parto di Apocalypto): come se per certi dottori la natura fosse per forza benigna e la scolarizzazione un difetto. 

Gasperetti parla anche del lato oscuro della maternità: madri che abbandonano i figli, perché non si è solo madri; Medea che uccide i figli, e la rielaborazione moderna di Rachel Cusk. 

E poi ci sono gli antinatalisti, che portano all’estremo le considerazioni di Cioran sul fallimento dell’esistenza. Ad esempio il libro Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo di David Benatar (2006, ma in Italia solo nel 2018) che si preoccupa dell’emergenza climatica collegata alla sovrappopolazione: si stima che nel 2100 la Terra toccherà 11 miliardi di abitanti. Il film I figli degli uomini, con un futuro dove non nascono più bambini, è inquietante; ma d’altra parte non possiamo ignorare che, nei paesi meno sviluppati, miliardi di bambini soffrono la fame.

In conclusione, l’amore può (dovrebbe) riguardare tutte e tutti, anche se non si mettono al mondo figli. In tal senso è illuminante la riflessione di Donna Haraway: generiamo parentele, non prole; è più importante la socialità, il mondo in cui si vive, le condizioni, che non il numero dei figli.

Il pensiero che a parer mio si ha leggendo questo libro è che, se si capisce che la maternità non è un obbligo ma una scelta consapevole, può essere davvero un dono vero, autentico e felice.

05/11/2021

Barnaby Rudge di Charles Dickens

Andrea Brattelli ci parla del romanzo storico del 1841 di Charles Dickens che racconta i moti antipapisti del 1780.



Barnaby Rudge è un romanzo a cui Charles Dickens iniziò a lavorare sin dall’inizio della sua carriera: se non si fosse fermato più volte nel redigerlo, per i più svariati motivi, sarebbe stato stampato ancor prima di Oliver Twist.

Invece l’autore ci lavorò su nel tempo, fino a quando, nel 1841, venne ossessionato talmente tanto da quest’opera che ci si dedicò dalla mattina fino a notte inoltrata, cambiando più volte parti della trama.

Questa discontinuità si avverte durante la lettura, che non risulta semplice.

La parte più emozionante dello scritto è quella che illustra le sommosse di Gordon (“Gordon Riots”) nate per protestare contro l'emanazione del "Catholic Relief Act" del 1778, che aveva attenuato la discriminazione dei diritti civili già prevista contro la minoranza cattolica dal "Popery Act" del 1698.

Leggendo riguardo questi episodi mi è tornato in mente il film Gangs of New York e quindi le schermaglie e tafferugli tra gli abitanti del quartiere newyorkese dei “Five Points” nel XIX secolo.

Questo di Dickens è quindi un romanzo storico come quelli di Sir Walter Scott. Palesemente lo scrittore inglese riprende proprio da quest’ultimo le tecniche per mescolare stili, generi e trame e nel combinare il realismo con il melodramma. Possiede elementi gotici e melodrammatici, ma ha anche molti intermezzi comici dickensiani.

Purtroppo tali fatti storici ormai sono caduti nel dimenticatoio, ma all’epoca in cui era stata partorita la storia gli episodi erano ancora ben presenti nella memoria dei cittadini.

L’autore, tra l’altro, si documentò molto per fornirci una cronaca dell’accaduto degna di un giornalista e di un reporter moderni: scorrendo le pagine, egli sembra davvero che stesse lì a nascondersi da gente che linciava altre persone, tirate per i capelli, che dava fuoco a tutto, ecc.

Simili disordini sono di una preoccupante attualità. Dickens strizza nuovamente l’occhio ai poveri della classe operaia, ci mostra con orrore a cosa può portare la violenza se manovrata dai politici; non mostra alcuna simpatia per i rivoltosi protestanti anti-cattolici del 1780: è una folla, un agglomerato di persone senza senso trascinata da leader opportunisti, taluni estremisti, con precise idee su come organizzare un colpo di stato.

In una scena, lo scrittore descrive i rivoltosi che attaccano e bruciano la casa di Lord Mansfield nell'elegante Bloomsbury Square. Mansfield era probabilmente diventato un bersaglio per quei delinquenti per la sua posizione d'élite, ma anche per le sue opinioni progressiste e le sue sentenze legali. Mansfield è meglio conosciuto per la sua sentenza nel caso Somerset, dove aveva sostenuto che la schiavitù era illegale in Inghilterra.

In un’altra si descrive l'attacco dei facinorosi e l'incendio della prigione di Newgate. La prigione doveva essere a prova di fuga e la porta inespugnabile. Nella storia, Dickens fa sequestrare il fabbro Gabriel Varden dagli appartenenti alle proteste e lo fa trascinare alla porta di cui ha ideato la serratura. Egli si rifiuta di aprire, e così i manifestanti (tra i quali vi è anche William Blake) tentano di abbattere la porta con mazze e piedi di porco.

Personaggi immaginari si mischiano a quelli reali. Lord Gordon e la sua assistente, il boia pubblico, di nome Dennis, che si unì ai rivoltosi (anche se la caratterizzazione di Dickens è, apparentemente, molto diversa dall'uomo come era in realtà), il pasticcione, inconcludente Lord Mayor.

Barnaby Rudge è invece il personaggio principale, un giovane che è mentalmente handicappato sin dalla nascita, ritratto come una sorta di sciocco e idiota caricaturale che vaga per la città con il suo corvo domestico, Grip.

Grip è l’anti-grillo parlante per eccellenza, uno spirito demoniaco che ci sussurra all’orecchio per corrompere la nostra anima e farci compiere nefandezze.

Uno dei misteri della storia riguarda il padre di Barnaby ed è importante che io mi soffermi su questo punto perché analizzando questo tratto di storia si potrà poi notare come la psiche del nostro eroe cambi repentinamente. Sua madre, vedova di uno degli uomini uccisi nella battaglia di Lexington, inizia a ricevere visite da un uomo oscuro e spettrale che la fanno spaventare e fuggire da Londra portando con sé Barnaby.

Nella prima parte del romanzo, Barnaby rappresenta un personaggio al di fuori dei confini delle convenzioni sociali, limitato linguisticamente e nel ragionamento, ma è uno spirito libero. Tornato a Londra, si unisce ai disordini solo per l'emozione di indossare i colori dei ribelli, appartenere ad un gruppo, avere il privilegio di portare una bandiera, e attirato dal richiamo di guadagni facili. È la sintesi dei rivoltosi, guidata da bigotti senza scrupoli, istinti animaleschi e facili guadagni… Suona familiare?

Gli intrecci e cambiamenti dell’animo dei personaggi, in maniera repentina anche, non sono rari in questo romanzo, e ne indeboliscono un po’ la struttura.

Termino la recensione con uno scritto di John Forster proprio relativo a questo romanzo, perché non saprei trovare parole migliori in quanto efficaci e semplici:

“[…] ciò che era stato compiuto prima da Dickens, negli altri suoi romanzi, la lirica raggiunta, difficilmente poteva essere replicata ancora e men che meno qui. Nell'unità di intenti, nell'unità di idee o nell'armonia del trattamento; altri sono i difetti superati e non nella gestione della trama. Ciò che ha preso principalmente la fantasia del lettore all'inizio, scompare quasi del tutto nel potere e nella passione con cui, nei capitoli successivi, vengono descritte le grandi rivolte. Questa descrizione è così ammirevole, tuttavia, che sarebbe difficile doverla arrendere anche per una struttura più perfetta della favola. […]”