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La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

30/05/2022

Città amara di Leonard Gardner

Ancora un romanzo trasformato in film da John Huston. Ho il piacere e l'onore di ospitare Riccardo Colella, che ha pubblicato pochi giorni fa sul suo blog Il cinenauta (vi consiglio di visitarlo) una recensione di Città amara (Fat city) di Leonard Gardner e io ve la ripropongo. A questo link la pubblicazione originale di Riccardo. Ma prima, aggiungo un paio di citazioni.

"Molte persone mi hanno chiesto del titolo del mio libro. Fa parte dello slang [delle persone afroamericane]. Quando si dice che si vuole andare a Fat City, significa che si vuole la bella vita. L'idea del titolo mi è venuta dopo aver visto la fotografia di una casa popolare in una mostra a San Francisco. "Fat City" era scritto con il gesso su un muro. Il titolo è ironico: Fat City è un obiettivo folle che nessuno raggiungerà mai." (Da un'intervista a Gardner, Life 1969.)

"- La versione cinematografica di Fat City è un classico, molto fedele al romanzo. Quanto ha lavorato a stretto contatto con John Huston per la sceneggiatura?

- Prima di iniziare a scriverla, mi ha invitato a trascorrere un paio di settimane a casa sua in Irlanda per discutere di come sarebbe andata. Era un tipo divertente. Credo che si fidasse di me, perché della sceneggiatura (...) abbiamo parlato forse mezz'ora. Poi ha voluto dipingere. Dipingeva sempre." (Da un'intervista a Gardner, Paris Review 2019.) 


“Una specie di manuale del fallimento, in cui la boxe rappresenta l’attività naturale di uomini totalmente incapaci di comprendere la vita”. Sono le parole con cui Joyce Carol Oates, scrittrice contemporanea americana tra le più prolifiche e già cinque volte finalista al Premio Pulitzer, descrive l’opera di Leonard Gardner. Un romanzo sulla boxe, quindi? Non proprio. O meglio: c’è il pugilato. Ma la noble art non è che un mezzo con cui l’autore s’intrufola nelle vite dei protagonisti, sviscerandone sogni, emozioni, desideri e rimpianti.

Città amara è l’altra faccia della medaglia dell’America che sogna. Quell’America della working class, più o meno hero, quella dei desideri infranti, delle speranze interrotte e dei trionfi che lasciano il posto alle sconfitte. Quell’America dove non c’è lieto fine e in cui la vita colpisce per prima e lo fa anche duramente. E quei protagonisti che tirano a campare alla meno peggio, cercando di sfangarla ogni santo giorno - ma scivolando, inevitabilmente, sempre più verso il fondo - è proprio attraverso la boxe che cercano il loro riscatto.

Billy Tully è un ex pugile che vive di ricordi, rimuginando su quello che poteva essere ma che non è stato. Ernie Munger, invece, è un ragazzo assai più giovane, che nella boxe intravede l’opportunità di una vita migliore. Uno è sconfitto dalla vita, mentre l’altro sembra essere lanciato verso un sicuro quanto effimero successo. I due si conoscono in una palestra dove lo stesso Billy, dall’alto della sua esperienza, “scopre” il più giovane. La città di Stockton, nel cuore della California, è il desolato scenario nel quale si muovono i due antieroi: palazzi per uffici, fast food, camini che sbuffano fumo, negozi di liquori e senza tetto buttati ai lati delle strade, sporche e piatte. Non c’è ombra di ricchezza né di successo nell’America dei perdenti. Le storie di Billy ed Ernie si sfiorano, s’intrecciano per un solo istante, proseguendo sempre su binari paralleli ma diretti verso un unico e amaro destino.

Ma allora dove sta la boxe? La risposta è: ovunque. Perché la boxe è lo sport più proletario che esista, così perfettamente a suo agio nel rappresentare quel Sogno Americano che vive di speranza, quasi fossimo in una ballata di Bruce Springsteen. La voglia di arrivare, partendo dal nulla. Ma la boxe è anche uno sport che può illudere e tradire. Ecco perché i due protagonisti si ritroveranno all’angolo, non di un ring ma in quello della vita. Città amara non è una glorificazione della sconfitta ma una narrazione, secca e asciutta, di vite miserabili e destinate al fallimento. Leonard Gardner disegna una storia vera. Di quelle crude che lasciano l'amaro in bocca.

E quell’atmosfera così soffocante e claustrofobica è ripresa magistralmente da John Houston nell’omonimo film del 1972. Billy Tully prende il volto di Stacy Keach (Classe 1999, Fuga da Los Angeles, American History X) ed Ernie Munger quello di un giovanissimo Jeff Bridges (King Kong, Tron, Il grande Lebowski). Un libro da leggere ed amare. Un film da vivere e di grande, grandissima fattura.

27/05/2022

Giungla d’asfalto di W.R.Burnett

Oggi Andrea Brattelli ci parla di Giungla d’asfalto, un romanzo pubblicato nel 1949 da W. R. Burnett, che fu portato sullo schermo da John Huston l'anno successivo raccogliendo l'approvazione dello scrittore. L'espressione "giungla d'asfalto" definisce in modo eloquente il senso di ansia legato alla vita nelle metropoli spietate, che non lasciano scampo a chi soccombe: un punto di vista evidentemente critico verso il capitalismo. Burnett, che lavorò molto a Hollywood come sceneggiatore, nel suo libro che ben si presta a una trasposizione cinematografica, caratterizza in modo efficace i "suoi" criminali decisamente umani.



Per fare una rapina c’è bisogno di un pilota di auto esperto, di uomini capaci di maneggiare “ferri” e quindi di sparare e resistere negli scontri a fuoco; ma, in modo particolare, ci vogliono dei delinquenti…

Molti registi, sceneggiatori, scrittori, negli anni si sono cimentati nel raccontare storie di furti e colpi messi a segno dai cattivi di turno ai danni di proprietari di gioiellerie e banche.

Quando e perché accade che alcune storie ci attraggono più di altre? Quante tipologie di polizieschi esistono? Alcuni preferiscono quando la narrazione è in prima persona, altri quando la narrazione è veloce e piena di colpi di scena che ti sembra di vivere i fatti come se stessi sulle montagne russe, mentre ti scorrono rapidi dinanzi agli occhi. Talune persone prediligono un racconto noir piuttosto che un poliziesco vero e proprio.

Nel caso di Giungla d’asfalto la differenza è insita nel titolo: la peculiarità in questo romanzo d’azione è che il protagonista della vicenda è proprio l’asfalto.

Illuminato dai neon di insegne luccicanti, abbagliato dalla luce fioca di lampioni sudici e dal rosso dei semafori, svolge meccanicamente, in maniera efficace, la sua funzione, che ci sia passaggio di auto o no.

Vista per lo più di notte, infatti, la città è un'entità vivente, spietata e indifferente alle lotte dei piccoli umani che pensano di poter controllare il proprio destino. Una volta inghiottiti dalla giungla d'asfalto diventano prede, spesso schiacciate dagli ingranaggi senz'anima della sua amministrazione o dalla ferocia dei suoi teppisti. Teppisti che spesso possono essere travestiti da poliziotti di alto rango, avvocati o politici.

L'autore ha una notevole capacità di evocare la cupezza della città in cui è ambientata la storia. Non viene mai nominata, a parte essere indicata come una "Midwestern City", ma questo anonimato aumenta una voluta alienazione anche nei lettori che si sentono di sperimentarla insieme ai protagonisti e comparse del romanzo: si diventa rispettosi della legge e criminali allo stesso tempo.

Le fondamenta della storia sono queste: un insignificante piccolo medico tedesco, appena uscito di prigione, entra in contatto con un amico di un socio della galera che spera possa aiutarlo a eseguire un'audace rapina di gioielli. Il piccolo tedesco ha bisogno di soci che lo aiutino a compiere il furto, quindi di un autista, un fabbro, un delinquente comune, un finanziatore.

Burnett è nella profondità delle sue caratterizzazioni che eccelle; nessuno dei personaggi è unidimensionale. Con Dix ed Emmerich l'esplorazione dell’animo umano è estremamente probante a livelli filosofici. All'inizio entrambi gli uomini sono mostrati sotto una luce pura, senza compromessi di sorta; i loro notevoli difetti incombono attimo dopo attimo che la trama si dipana. Nel corso dell’opera assumono strati di complessità fino a quando, alla fine, diventano persone che possiamo capire e compatire. C'è poi Doll Pelky, un personaggio apparentemente minore. Si aggrappa a Dix: "Era pazza per questo grande vagabondo." Il perché non importa, lo era e basta.

E così la trama scorre, senza colpi di scena o grandi sorprese e ciò che mi incuriosisce è il modo in cui l'autore sia riuscito a creare le relazioni tra i vari personaggi, con i loro fallimenti, le loro illusioni e, in fondo, la loro solitudine. Sono perdenti e faticano a vivere, non solo a rimanere a galla: ognuno di loro ha ancora un piccolo sogno, qualcuno una donna, qualcuno una fattoria, qualcuno una famiglia. Insieme lavorano bene, ma ognuno di loro da questa esperienza ne uscirà male.

La polizia, come nella vita reale nei giorni in cui è stato ucciso Floyd, oppure Cucchi ecc. ne viene fuori come un rullo compressore formato da uomini che vogliono solo esprimersi tramite la pura violenza, poco intelligenti. La City, la giungla d'asfalto, diventa la metafora di una gabbia che uccide l'umanità e l'immaginazione, con la durezza del mondo criminale, la brutale violenza della polizia e l'indifferenza del resto del mondo. I protagonisti si muovono in questo contesto, ognuno alla ricerca di un riscatto personale; ognuno mette la sua parte nel gioco di squadra e il problema è che anche il Destino lo fa: svelerà situazioni sempre più intricate e inevitabili, compromettendo la redenzione dei protagonisti e il lieto fine del libro.

20/05/2022

Suite Française (Suite francese) di Irène Némirovsky

Andrea Brattelli ci parla di un libro più attuale di quel che si potrebbe pensare. Irène Némirovsky (nata a Kiev nel 1903 e fuggita dai soviet, di fatto una donna ebrea - anche se poi si convertì al cattolicesimo - apolide - la Francia le rifiutò la cittadinanza - che dovette sposarsi per avere garantiti i suoi diritti d'autore) tratteggia in modo realistico la fuga dei cittadini da Parigi e l'occupazione nazista della provincia francese; in questo contesto, inserisce una storia d'amore impossibile fin dalla nascita. Suite francese, libro dimenticato per 60 anni (le figlie per lungo tempo non ebbero la forza di leggere quanto scritto dalla madre poco prima dell'arresto) e mai terminato a causa della deportazione e della conseguente morte dell'autrice, nel 2014 è diventato un intenso film interpretato da un cast eccezionale: Michelle Williams, Matthias Schoenaerts, Kristin Scott Thomas, Sam Riley (tra i ruoli minori, una Margot Robbie anonima, ma anche una grande Eileen Atkins e Tom Schilling, eccezionale in Opera senza autore). Del resto, la stessa scrittrice nei suoi appunti affermava di voler ricreare un ritmo in senso cinematografico. Nel 2021 è stato pubblicato Re di un'ora e altri testi inediti, contenente il "capitolo ritrovato" (di fatto, alcune pagine che erano state escluse dalla prima pubblicazione). 



Suite francese è un libro che evoca perfettamente il caos in cui sprofondò Parigi dopo che la Francia fu sconfitta durante la Seconda Guerra Mondiale. Si descrive, in maniera particolare, la vita delle persone durante l’occupazione tedesca di un piccolo paesino di provincia.

Faccio una piccola digressione che ci aiuterà a capire meglio lo svolgimento di alcune dinamiche e la trattazione di talune tematiche.

L’autrice di questo romanzo, Irène Némirovsky, era una ragazza ebrea figlia di un ricco banchiere, che aveva un rapporto conflittuale con la madre e detestava l’ambiente ebraico.

Ebbe comunque una vita tranquilla, sposata, due figlie, fino a quando non fu costretta a scappare con il marito in un paese vicino a Parigi senza la prole per proteggerla.

Fu proprio in questo periodo che iniziò a scrivere Suite francese: voleva catturare, senza illusioni, la situazione e l'esperienza all'interno della Francia occupata; illuminare, tra le altre cose, il contrasto della miseria con la prosperità, l'individuo e la collettività, l'egoismo e la codardia e le realtà della vita quotidiana sotto occupazione come, a esempio, la crescente ossessione per il cibo e l'approvvigionamento.

In questo suo scritto ha denunciato la paura, la vigliaccheria, l'accettazione dell'umiliazione, della persecuzione e del massacro. Era sola. Era raro trovare, a quei tempi, qualcuno nel mondo letterario ed editoriale che non avesse scelto di collaborare con i nazisti.

La scrittrice immaginava di dare alla luce un grande romanzo di cinque parti, composto come una sinfonia, con molti personaggi disparati; da città e villaggi, ricchi e poveri, collaboratori e resistenti, soldati tedeschi e fidanzate francesi, artisti e banchieri, agricoltori e aristocratici.

Purtroppo fu catturata e morì ad Auschwitz; al marito toccò la stessa sorte ma le figlie sopravvissero. Dopo anni pubblicarono due dei cinque volumi (tre dei quali mai stati scritti), ovvero: Temporale di Giugno e Dolce, poi entrambi riuniti sotto un unico titolo (Suite francese, appunto).

Il primo libro narra le esperienze di diversi gruppi di personaggi, la maggior parte dei quali non hanno nulla a che fare l'uno con l'altro e le cui strade non si incrociano, mentre rapidamente la Francia perde la guerra facendo rimanere tutti di stucco.

Leggere Storm in June è come vedere un susseguirsi di varie scene a teatro di pochi minuti, l’una indipendente dall’altra. Non è una storia lineare e completa.

Le esperienze dei personaggi delineano la situazione a Parigi e nei paesi limitrofi dopo la caduta della Francia.

Sono rimasto colpito in particolare dalla storia di due coniugi che sanno che i loro figli moriranno in guerra e quindi propongo qui, sommariamente, il dialogo della madre: "Ho dato alla luce un santo e un eroe." "I nostri figli fanno sacrifici per i figli degli altri."

Date le circostanze, questo genere di discorsi risultano plausibili e rendono ancora più realistica la vicenda narrata. Si nota la riluttanza dei francesi a combattere, ancora una volta, contro i tedeschi quando il ricordo della guerra precedente è ancora fresco. In particolare ciò si evince tra i riservisti di mezza età fortunati ad essere sopravvissuti l'ultima volta ed ora chiamati a combattere di nuovo. Si percepisce il panico e l'incredulità nelle principali città nell'udire che i tedeschi avevano sfondato la linea francese così presto e così facilmente. La paura che porta a commettere imprudenze e quindi il sopraggiungere di innumerevoli altri guai. 

La portata della sofferenza inutile (col senno di poi) e una completa rottura della morale convenzionale, forniscono alcuni dei migliori passaggi del libro. Il sollievo, persino la gioia, per la resa e l'armistizio Némirovsky li stempera col fallimento dei leader francesi e degli orrori che seguirono, e che potrebbero presto essere dimenticati.

Dolce invece, la seconda parte dell’opera, narra della vita sotto l'occupazione tedesca.

Ambientata un anno dopo gli eventi di Temporale di Giugno e in una piccola città di provincia di Bussy, Némirovsky ci trascina in una comunità affiatata che fa i conti con il vivere sotto il potere degli invasori stranieri.

È una storia completa, incentrata principalmente sulla famiglia Angellier i cui membri sono molto tesi data la situazione.

La narratrice ci trascina nelle acque torbide della collaborazione francese con i tedeschi in una piccola comunità. Questa cooperazione non è un semplice caso di ossequiosità, o di creazione di un vantaggio personale; i motivi possono essere meno chiari e più ben intenzionati ma inevitabilmente aprono divisioni tra ricchi e poveri, contadini e aristocratici, patrioti zelanti e pragmatici ben intenzionati.

13/05/2022

Gabriel Garcia Marquez, Dell’amore e di altri demoni

Andrea Brattelli ci parla di Dell’amore e di altri demoni, romanzo dello scrittore premio Nobel Gabriel García Márquez pubblicato nel 1994.

“Un cane cenerognolo con una stella sulla fronte irruppe nei budelli del mercato la prima domenica di dicembre, travolse rivendite di fritture, scompigliò bancarelle di indios e chioschi della lotteria, e passando morse quattro persone che si trovavano sul suo percorso.”



Se non fosse per l’immagine che ad un tratto spunta tra le prime pagine del libro oserei affermare che questo romanzo sia un’opera prettamente gotica.

La scoperta invece di un corpo quasi avvolto in capelli luminosi intrecciati tra antiche ossa che giacciono in una fossa come carbone rimasto dalle ceneri di un piccolo falò spentosi la mattina presto dopo aver riscaldato la notte ad un avventuriero stanco, dona allo scritto un tocco di magia e speranza al lettore di qualcosa di migliore dopo la morte.

Nel 1949 Gabriel Garcia Marquez in veste di cronista sta seguendo gli scavi presso il convento di suore di Clarissan. Rimane stupito nel vedere affiorare da una cripta “un flusso di capelli vivi di color del rame”. È la chioma fluente di Maria de Todos los Angeles, una marchesa di 12 anni morta più di duecento anni prima.

Inizia così una storia grottesca, a tratti terribile, scintillante di trovate geniali e cupa.

La verità in questo racconto si intreccia con la fantasia e alcune scene ci sembreranno incredibili; durante la lettura sarà come ammirare streghe e stregoni mentre compiono riti di magia demoniaca.

La fatalità ineluttabile è data da un modo di narrare scarno in cui gli avvenimenti si susseguono rapidamente e in cui l’irrazionalità domina in quei momenti in cui l’amore ruba le scene alle atmosfere sinistre rendendo l’atmosfera festosa.

La bambina Maria aveva genitori aristocratici e la sua matrigna era anche una mercante di schiavi. Trattata male da quest’ultima, la fanciulla crebbe insieme ai poveri africani assorbendo la loro cultura e imparando le loro canzoni in lingua.

I prigionieri sono, nonostante la loro vita grama, pieni di vitalità mentre gli spagnoli sembrano fiaccati da una vita condotta per e con inerzia, sfruttando i più deboli, incapaci di praticare qualsiasi onesto mestiere.

I primi si prenderanno cura dei capelli della ragazzina e di proteggerla con amuleti magici fino a quando un cane la morderà e le trasmetterà la rabbia.

Ci aspetteremmo ora che siano gli schiavi africani a somministrare cure non convenzionali alla ragazza; invece no, furono proprio i “civili” spagnoli. Un capo esorcista inizierà un rituale basandosi sulle letture di antichi libri redatti in stile romantico/cortese. Verrà ostacolato dal più razionale medico ebreo Abrenuncio ma troppo in ritardo.

Ma quali sono allora i demoni menzionati nel titolo?

Innanzitutto vi è la “rabbia” che ai tempi era vista non come una malattia ma piuttosto uno stratagemma che usa il diavolo per entrare nel corpo di una persona. I riti magici che gli africani trasmettono sotto forma di tradizione orale, con i loro canti e che influenzano la bambina e la fanno sembrare nei confronti dei parenti distante dalla sua cultura di origine, invisibile a loro ma perfettamente integrata tra gli schiavi.

L'amore, perché seppur molto decantato nelle musiche degli zulù è qualcosa, per il padre di Maria, su cui non fare affidamento perché inganna i cuori.

In realtà il vero demone è rappresentato dalle false credenze popolari basate sull’ignoranza.

Alla base di questa inciviltà vi è un cattivo rapporto delle persone di allora con gli animali e l’ambiente in generale.

I cani sono ovunque: malati o no scorrazzano in giro con gli altri animali da cortile in ambienti sporchi, puzzolenti; l’aria è satura dell’olezzo degli escrementi.

È in questo scenario che la bambina muore, dopo il martirio dell’esorcismo e all’odore di povertà si mischierà l’odore ferrigno del suo sangue che fuoriesce dalle piaghe.

Dopo il martirio i suoi capelli la cingeranno come se fossero crisalide per poi farla volare su un tappeto di rose e rinascere in un cielo diafano.

Marquez con una scrittura commovente ci conduce in un tour didattico alla riscoperta della filosofia di San Tommaso d’Aquino sull’integrità dei corpi resuscitati (che io a questo punto rileggerò per capire meglio alcuni passaggi della narrazione).

06/05/2022

La casa dei Krull di Georges Simenon

Oggi Andrea Brattelli si cimenta con La casa dei Krull, il racconto di una famiglia che per quanto naturalizzata sarà sempre vista come "straniera" dalla popolazione della cittadina francese dove vive ormai da tempo: un capro espiatorio da incolpare alla prima occasione. Un racconto di Georges Simenon ancora tragicamente attuale.


Romanzo pubblicato alla fine degli anni '30 e straordinariamente attuale, nel quale l’autore descrive abilmente gli effetti distruttivi che i pregiudizi e le dicerie possono avere sulle persone o piccole comunità insediatesi all’interno di una più grande. Il tutto è scandito da una prosa schietta e sincera, senza fronzoli.

I protagonisti della nostra storia, i Krull, sono una famiglia tedesca che vive defilata in una modesta casa in una zona rurale di una città francese, vicino alla chiusa di un canale. Possiedono un bar frequentato perlopiù da turisti in quanto la gente del posto evita di andarci; un po’ per colpa delle persone del luogo, un po’ per colpa di questa casta originaria della Germania, la stirpe purtroppo non è mai stata accettata dalla comunità nonostante abbia comunque faticato per cercare di integrarsi.

In questo scenario delicato arriverà a gettare scompiglio un loro nipote cialtrone e arrogante che cercherà di entrare nelle grazie dei cittadini nel peggior modo possibile, fino a quando un corpo verrà ripescato nel canale... e la reazione della città sarà tutt’altro che galvanica. Con calma e meditazione però lo scrittore ci guiderà nei meandri della diffidenza attraverso cui si paleserà l’odio razziale e l’isteria di massa che stanno inghiottendo ancora l’Europa dei giorni nostri. Simenon ci dimostra come nel cuore umano si possa nascondere anche tanto odio, oltre che amore.

E così mentre nell'aria si addensa attraverso le afose giornate estive (nessuno evoca l'atmosfera meglio di Simenon) un oscuro presagio che come un fulmine si scaglierà crepitando contro i Krull, le voci delle comari che pettegolano sugli amori adolescenziali dei ragazzi del luogo diventano invettive tossiche. Arriviamo quindi al momento in cui la situazione esplode come una polveriera. Un vetro rotto proclamerà la prima ferita della casa. Arriveranno poi graffiti scarabocchiati: “Assassini”! Scriveranno. Le folle si radunano, scontrose, ubriache di giustizia sommaria. Simenon, tanto acuto quanto controllato è egli stesso esterrefatto dal comportamento dei personaggi partoriti dalla sua fantasia: soffre per le vittime e per i loro carnefici.

Le frontiere rassicuranti vengono calpestate e con una prosa meticolosa e un’intuizione impeccabile il narratore cerca di districare la matassa dell’universo caotico che si genera e vortica intorno alla xenofobia, rendendo l’avvenire torbido come le acque dove sorge la dimora dei Krull.

La casa dei Krull è un romanzo breve (scrivo in generale, non considerando gli standard del narratore che comunque riesce sempre a tenere alta la vivacità fino all’inevitabile conclusione) ma estremamente interessante. Simenon cattura davvero il senso di disagio che può svilupparsi in una comunità affiatata; il modo in cui la differenza porta spesso al risentimento e alla sfiducia, come i migranti possono diventare un capro espiatorio quando le cose vanno male. C'è un forte senso di terrore che attraversa la narrazione, una sensazione che si intensifica solo quando il romanzo raggiunge la sua conclusione devastante.

A distanza di più di ottanta anni, questa lettura sembra ancora attuale per le tematiche affrontate: una narrazione di importanza vitale per i nostri tempi difficili. Altamente raccomandato non solo per i fan di Simenon, ma anche per chiunque sia interessato alle questioni sociali.