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30/05/2022

Città amara di Leonard Gardner

Ancora un romanzo trasformato in film da John Huston. Ho il piacere e l'onore di ospitare Riccardo Colella, che ha pubblicato pochi giorni fa sul suo blog Il cinenauta (vi consiglio di visitarlo) una recensione di Città amara (Fat city) di Leonard Gardner e io ve la ripropongo. A questo link la pubblicazione originale di Riccardo. Ma prima, aggiungo un paio di citazioni.

"Molte persone mi hanno chiesto del titolo del mio libro. Fa parte dello slang [delle persone afroamericane]. Quando si dice che si vuole andare a Fat City, significa che si vuole la bella vita. L'idea del titolo mi è venuta dopo aver visto la fotografia di una casa popolare in una mostra a San Francisco. "Fat City" era scritto con il gesso su un muro. Il titolo è ironico: Fat City è un obiettivo folle che nessuno raggiungerà mai." (Da un'intervista a Gardner, Life 1969.)

"- La versione cinematografica di Fat City è un classico, molto fedele al romanzo. Quanto ha lavorato a stretto contatto con John Huston per la sceneggiatura?

- Prima di iniziare a scriverla, mi ha invitato a trascorrere un paio di settimane a casa sua in Irlanda per discutere di come sarebbe andata. Era un tipo divertente. Credo che si fidasse di me, perché della sceneggiatura (...) abbiamo parlato forse mezz'ora. Poi ha voluto dipingere. Dipingeva sempre." (Da un'intervista a Gardner, Paris Review 2019.) 


“Una specie di manuale del fallimento, in cui la boxe rappresenta l’attività naturale di uomini totalmente incapaci di comprendere la vita”. Sono le parole con cui Joyce Carol Oates, scrittrice contemporanea americana tra le più prolifiche e già cinque volte finalista al Premio Pulitzer, descrive l’opera di Leonard Gardner. Un romanzo sulla boxe, quindi? Non proprio. O meglio: c’è il pugilato. Ma la noble art non è che un mezzo con cui l’autore s’intrufola nelle vite dei protagonisti, sviscerandone sogni, emozioni, desideri e rimpianti.

Città amara è l’altra faccia della medaglia dell’America che sogna. Quell’America della working class, più o meno hero, quella dei desideri infranti, delle speranze interrotte e dei trionfi che lasciano il posto alle sconfitte. Quell’America dove non c’è lieto fine e in cui la vita colpisce per prima e lo fa anche duramente. E quei protagonisti che tirano a campare alla meno peggio, cercando di sfangarla ogni santo giorno - ma scivolando, inevitabilmente, sempre più verso il fondo - è proprio attraverso la boxe che cercano il loro riscatto.

Billy Tully è un ex pugile che vive di ricordi, rimuginando su quello che poteva essere ma che non è stato. Ernie Munger, invece, è un ragazzo assai più giovane, che nella boxe intravede l’opportunità di una vita migliore. Uno è sconfitto dalla vita, mentre l’altro sembra essere lanciato verso un sicuro quanto effimero successo. I due si conoscono in una palestra dove lo stesso Billy, dall’alto della sua esperienza, “scopre” il più giovane. La città di Stockton, nel cuore della California, è il desolato scenario nel quale si muovono i due antieroi: palazzi per uffici, fast food, camini che sbuffano fumo, negozi di liquori e senza tetto buttati ai lati delle strade, sporche e piatte. Non c’è ombra di ricchezza né di successo nell’America dei perdenti. Le storie di Billy ed Ernie si sfiorano, s’intrecciano per un solo istante, proseguendo sempre su binari paralleli ma diretti verso un unico e amaro destino.

Ma allora dove sta la boxe? La risposta è: ovunque. Perché la boxe è lo sport più proletario che esista, così perfettamente a suo agio nel rappresentare quel Sogno Americano che vive di speranza, quasi fossimo in una ballata di Bruce Springsteen. La voglia di arrivare, partendo dal nulla. Ma la boxe è anche uno sport che può illudere e tradire. Ecco perché i due protagonisti si ritroveranno all’angolo, non di un ring ma in quello della vita. Città amara non è una glorificazione della sconfitta ma una narrazione, secca e asciutta, di vite miserabili e destinate al fallimento. Leonard Gardner disegna una storia vera. Di quelle crude che lasciano l'amaro in bocca.

E quell’atmosfera così soffocante e claustrofobica è ripresa magistralmente da John Houston nell’omonimo film del 1972. Billy Tully prende il volto di Stacy Keach (Classe 1999, Fuga da Los Angeles, American History X) ed Ernie Munger quello di un giovanissimo Jeff Bridges (King Kong, Tron, Il grande Lebowski). Un libro da leggere ed amare. Un film da vivere e di grande, grandissima fattura.

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