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La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

25/03/2022

Effi Briest di Theodor Fontane

Stavolta Andrea Brattelli ci parla di Effi Briest, uno dei grandi classici dell'Ottocento sull'infelice matrimonio borghese. Pubblicato nel 1894, il romanzo è ispirato alla vita di Elisabeth von Ardenne.



Effi Briest 
è un classico tedesco del diciannovesimo secolo che, per i temi trattati, potrebbe essere considerato alla stregua di Anna Karenina Madame Bovary.

Theodore Fontane lo scrisse quando ormai era un uomo più che maturo ed è forse per questo che egli fornisce alla sua eroina le caratteristiche che non ha più a causa della vecchiaia che sopraggiunge: la fanciulla, di origine tedesca, è esuberante e piena di vita, oltre che possedere un fascino accattivante.

Il suo temperamento sembra cozzare con il mondo di "familiare sicurezza" che le è stato costruito intorno dai genitori con i quali, però, non ha un cattivo rapporto, anzi. Con suo padre, ad esempio, ha spesso conversazioni confidenziali che vertono però anche su discussioni riguardanti le motivazioni che porteranno alla decisione della madre di farla maritare con uomo d’affari molto più vecchio di Effi Briest. Lei accetterà con accondiscendenza. Chissà se, in questo modo, l’autore metaforicamente abbia voluto impersonificare se stesso nella figura del barone Geert che, sposando una ragazza, tenta di riappropriarsi della spensieratezza e del vigore giovanile ormai esalati come fuochi fatui.

Il linguaggio di Fontane che rimanda ad un universo ricco di immagini e il simbolismo illustrano ed evidenziano in molti passaggi come le cose apparentemente superficiali e poco importanti abbiano un significato più profondo. Sin dall'inizio del romanzo, ad esempio, l'esuberanza di Effi mostra la spensieratezza giovanile. In seguito, la monotonia della vita quotidiana e la solitudine imperante nel suo matrimonio, pongono in evidenza il netto contrasto con la vita libera adolescenziale. L’opera del narratore contiene letteralmente vari esempi di empatia, come, ad esempio, un paesaggio invernale e desolato riflettono il tumulto interiore di una persona e la sua solitudine.

Il libro, in definitiva, si potrebbe includere nella categoria “romanzi storico-sociali” con trame strettamente correlate agli usi e costumi della Germania di allora. Si legge molto fluentemente e il modus operandi dei vari personaggi si può facilmente concepire perché fortemente contestualizzato empaticamente nel periodo storico in cui si svolgono le vicende narrate.

I problemi di Effi sono senza tempo, anche se la condizione delle donne di oggi è cambiata notevolmente, vi è l’emancipazione (per fortuna), ma i dissidi interiori sono simili o addirittura gli stessi: problemi derivanti dal vivere separati in un matrimonio celebrato per interesse, tra partner con visioni della vita diverse, solitudine, fuga in un'altra relazione, gelosie. Il linguaggio vivace di Fontane, i diversi personaggi e l'accattivante sequenza di eventi, così come lo sviluppo dei personaggi nel corso della trama, rendono questo libro un'opera di letteratura particolarmente degna di nota.

18/03/2022

Jerome K. Jerome, I pensieri oziosi di un ozioso

Andrea Brattelli ci parla di un libro di Jerome K. Jerome meno conosciuto di Tre uomini in barca ma altrettanto divertente, tradotto per la prima volta in italiano nel 1929 da Gigi De' Motta, col titolo Gli oziosi pensieri di un ozioso. Composto di 14 tra brevi racconti e saggi, il titolo originale sottolinea ancora più marcatamente l'atmosfera rilassata del volume: Idle Thoughts of an Idle Fellow, a book for an idle holiday.


I pensieri oziosi di un ozioso nacquero nel 1888 in forma di pamphlet per essere raccolti, solo un anno dopo, in un volumetto che ebbe molto successo. Secondo me rappresentano un’opera di Jerome K. Jerome migliore di Tre uomini in barca, una storia modestamente avventurosa.

Che genere di riflessioni celano le pagine di questo piccolo scritto? Non certo morali: tra tutti gli autori questo poeta è il più simpaticamente lontano dal voler (e poter) elargire consigli atti alla edificazione e rigenerazione dello spirito dei lettori.

I vizi sono sempre ammessi purché in piccolo formato come questo libricino che, per citare i giapponesi, contiene massime che si possono tenere nel palmo di una mano. La sobrietà borghese può essere interrotta solo durante pochi momenti di divagazione, come quando si assaporano le essenze della propria pipa.

Altrimenti, si darà adito ai peccati di gola, alle liti famigliari e tradimenti che Jerome non esitava a decantare nelle sue spassose produzioni.

E sì, perché l’umorismo di questo narratore è simile a quello inglese e non contempla, non tollera nulla di troppo importante. Egli scrive di cani, bambini, pipe, cappelli, bere e camere ammobiliate. Fa sorridere anche solo il fatto che abbia accozzato insieme tutti argomenti che non sembrano avere nulla a che fare l’un con l’altro ma che alla fine, in maniera organica, suscitano comicità.

Questi argomenti di cui chiacchierano signori e signore vittime delle loro superficiali animosità creano un mondo scevro da inquietudini ma, nel capitolo in cui si fa riferimento alla guerra, si nota che questo avvenimento abbia ferito in prima persona lo scrittore. Non si fa riferimento a sangue e violenze ma i toni si fanno più cupi, come quando in una stanza la fiamma della candela si affievolisce piano piano col tempo e la camera a mano a mano si fa più buia. Da questo particolare si nota che Jerome è stato un grande umorista ma anche un fine sentimentale, che, come molti spiritosi, prova a far sorridere affinché chiunque possa togliersi quel velo di tristezza che egli stesso ha avuto per un periodo adagiato sul cuore.

Inventare situazioni è il suo stratagemma per intrattenere e per tramandare un tipo di humor che pone le sue basi sui sogni, che risultano accattivanti sia per i bambini che per gli adulti. Ecco perché i suoi lavori continuano a deliziare ancora i lettori nonostante il passare degli anni.

11/03/2022

Morti di salute di T.C. Boyle

Questa volta, Andrea Brattelli ci conduce nel fantastico mondo del dottor Kellogg (proprio lui, quello dei cereali!) con il libro Morti di salute e i suoi personaggi bizzarri. Il libro di T.C. Boyle è stato pubblicato nel 1993 con il titolo The Road to Wellville e l'anno seguente è diventato un film di Alan Parker.



Nel corso della sua carriera di scrittore, T.C. Boyle ha sempre mostrato interesse nel ritrarre la generazione del dopoguerra; in realtà regge lo specchio nel quale i loro volti sorridono scioccamente perché non riescono a comprendere il mondo a cui appartengono.

La sensazione che scaturisce in me alla fine della lettura di un’opera del suddetto romanziere è semplice: partendo dal presupposto che nei suoi libri vi è sempre presente un personaggio che potremmo definire, in maniera molto elementare, cattivo e narcisista e che per questi va sempre a finire male, ciò mi provoca una piacevole soddisfazione. Non potrebbe essere altrimenti dato che lo stile del narratore è denso di un delizioso humor nero, esuberante nella ricercatezza del linguaggio tanto da suscitare ammirazione, avulso da facili moralismi.

Nel libro Morti di salute, lo scrittore sembra aver abiurato nei confronti dell’umanità e della sporcizia che crea e che si porta dietro, non solo metaforica. Il tema infatti è la “salute”.

È il 1907 e ai lettori viene proposta la biografia del medico John Harvey Kellogg di Battle Creek, Michigan, ovvero l’inventore dei corn flakes, il quale professa ed impartisce ai suoi adepti e pazienti lezioni su modelli di vita salutari e di cucina vegana (o quasi).

I suoi clienti erano tutte persone estremamente danarose: tra loro si annoveravano Henry Ford, Harvey Firestone, Thomas Edison, ecc.

Lo scopo di T.C. Boyle è analizzare, in questo scritto, con la stessa scientificità con cui il noto dottore studiava al microscopio i cibi, il meccanismo di convincimento che utilizzano alcune persone sulle altre per persuaderle e la fonte primaria di origine delle convinzioni in generale e la loro radicalizzazione.

Ogni religione infatti ha bisogno di uno scettico e,  nel nostro caso, uno dei protagonisti che tesserà la trama pagina dopo pagina sarà proprio un uomo dubbioso accompagnato dalla moglie, in cerca di salvezza per il suo intestino e per il suo matrimonio.

Il vero antagonista è invece il figlio adottivo di Kellogg, George, metafora dell’uomo mediocre, incapace di prendersi cura di se stesso e vittima di cattive abitudini alimentari. L'esistenza stessa di questo ragazzo mina le convinzioni del dottore dimostrando con quanta enfasi i suoi metodi affabili gli si possano ritorcere contro. George, però, non è semplicemente una vittima incompresa. Puzza davvero, commette davvero crimini, cerca davvero di distruggere il suo padre adottivo e il suo “santo santuario sanitario” per pura vendetta.

In un romanzo di Boyle sono presenti personaggi principali ma nessun vero eroe o eroina. Piuttosto ci troviamo dinanzi ad una moltitudine di comparse picaresche, di dickensiana memoria. Egli complica e confonde il gioco ponendo in maniera non convenzionale il bene contro il male e viceversa.

A dispetto del fatto che le persone che popolano questa storia non siano eroi nel vero senso della parola, l’ambientazione invece è consona all’argomento trattato.

Il lago dipinto restituisce all’alba e al tramonto la luce del sole ai verdi parchi semplicemente riflettendola, senza improvvise scintille incendiarie, infondendo un benessere moderato e ordinario; un venticello leggero spinge le onde a riva increspandone le argentee gobbe rendendo l’acqua di una salubrità invitante.

Il primitivismo è imperante. L’uomo è descritto come specie animale tra gli animali in competizione per risorse inevitabilmente limitate. La principale falsa promessa del dottor Kellogg è quella dell’auto miglioramento, del cambiamento volontario attraverso la ragione e la determinazione. Gli animali però non cambiano e, certe scene rappresentate, assomigliano a quelle che si possono vedere nel film 7 chili in 7 giorni. L’ istinto naturale perenne non può trascendere attraverso pulizia spuria e false affermazioni.

Da questo punto di vista il nostro inventore assume i connotati di uno scienziato pazzo dei fumetti. Egli cerca di sostituire un tipo di dipendenza con un’altra e queste tematiche lo scrittore le conosce bene, dato che ha abusato di alcool e droga fino ai 40 anni e rotti.

L’umorismo mordace a cui è avvezzo il romanziere ci stigmatizza a conigli: siamo troppi e la troppa vicinanza in un pianeta stretto ci farà morire di tularemia*. Forse non lo ameremo mai ma la sua prosa è una meraviglia, godibile dall’inizio alla fine, ricca di osservazioni astute, sottile musicalità.

La ripetitività all’interno della clinica regna sovrana: clisteri ed esercizi fisici tutti i giorni, sempre gli stessi, alla stessa ora, rendono i personaggi tutti uguali tra loro e, alla lunga, ciò annoia un po’. Per fortuna il film tratto da questo libro ci evita simili lungaggini.

Diciamo che a Boyle gli si perdona tutto, anche la lunghezza un po’ eccessiva di questa sua produzione, grazie al suo potere narrativo incentrato sul grottesco, alla sua capacità di descrivere una semplice passeggiata al chiar di luna in modo da farti gelare il sangue.

*la febbre dei conigli.

04/03/2022

Ho scelto la libertà di Viktor Andrijovyč Kravčenko

Questa settimana Andrea Brattelli parla di un libro parecchio attuale: Ho scelto la libertà di Viktor Andrijovyč Kravčenko, pubblicato in Italia nel 1948. Lo scrittore, nato in una famiglia di rivoluzionari, fu testimone della riduzione alla fame dei contadini ucraini durante la collettivizzazione forzata.



Da quando ho iniziato a scegliere insieme a Vaina i libri da recensire per il suo blog è aumentata la voglia in me di andare per mercatini e antiche librerie indipendenti a caccia di libri non dico introvabili ma quantomeno caduti nell’oblio, dimenticati inspiegabilmente in primis dalle case editrici che non li hanno più ristampati.

Ho scelto la libertà è uno di questi, non più commercializzato nonostante l’importanza storica che riveste, la triste attualità degli argomenti trattati . Se non si dà più importanza a simili opere mi chiedo a cosa serva riempirsi la bocca con frasi del tipo “la storia va insegnata, studiata ed imparata affinché alcune tragedie per l’umanità non si ripetano più”.

Preso al volo, questo libro l’ho inizialmente accatastato vicino ad altri di cui leggo di ognuno alcune pagine per decidere poi cosa proporre e terminare eventualmente la lettura di uno di essi.

Lo scritto di Kravčenko mi ha preso subito sin dall’inizio e l’ho divorato, nell’attesa di poterlo proporre in un momento che, speravo, non sarebbe mai arrivato, ma che, purtroppo, è giunto, e fatico a scriverne per rispetto nei confronti del dolore altrui: ho paura che qualsiasi cosa io proponga sia banale e non opportuno. 

È una storia vera in cui vengono narrate le vicende legate ad un funzionario di Stalin, pagine dolorose della storia umana che riempirono le cronache solo dopo “il processo del secolo”. Come il nome di Kravčenko sia stato dimenticato, diversamente da quanto non è capitato fortunatamente a Solženicyn, a me pare un mistero o quasi.

Ci sarebbe infatti da ricordare che, non appena un individuo osava denunciare il sistema sovietico, veniva immediatamente calunniato e insultato. Nella migliore delle ipotesi subiva l’oblio sotto una coltre copiosa di fango.

Accusato di essere una spia americana, lo scrittore russo vinse la causa per diffamazione. Pura formalità comunque, le scuse sincere arrivarono troppo tardi, dopo la sua uccisione mascherata da finto suicidio, avvenuta nel 1966.

Noi leggiamo Primo Levi o Anna Frank perché questi autori, partendo da un punto di vista personale, basato sull’esperienza, raccontano poi in maniera cruda i fatti. Questo è ciò che fa anche lo scrittore russo. La metodologia di svolgimento precedentemente descritta non vuol essere un “indorare la pillola” per aiutarci a metabolizzare storie tragicamente indigeste. Il fatto è che il meccanismo dell’autobiografia aiuta ad immedesimarsi e comprendere in maniera empatica.

Kravčenko racconta ciò che ha patito con una sincerità che si percepisce in ogni pagina. Narra come ha "vissuto" all'interno di questo inferno, come è riuscito a resistere, in che maniera, ovvero, con una certa dose di fortuna; è riuscito a sopravvivere e ottenere posizioni piuttosto "privilegiate". Spiega come è riuscito a fuggire, non senza pericoli, e devi aver almeno letto il suo libro per misurare la dose di forza psicologica e fisica che richiede questa disumana avventura.

Da questa lettura si evince anche che non è sempre così ovvio determinare chi sono i carnefici in un sistema in cui la nozione di responsabilità non ha più senso. Al di là degli individui, vediamo che è soprattutto un sistema ultra-statale , ultra-centralizzato, ultra-burocratico che produce questo abominio. Se Stalin era, naturalmente, l'apice di un tale sistema, non sorprende che il profondo dispotismo di quest'ultimo sia sopravvissuto al despota. E arriviamo a porci questa domanda spaventosa: se vivessi in un tale sistema, quale posto occuperei? 

Questa domanda che mi sono fatto mi porta forse ad essere, come temevo sin dall’inizio, inopportuno scrivendo questo pensiero: di primo acchito questo romanzo mi ha fatto venire in mente Animal Farm. Per noi che non abbiamo mai avuto simili problemi queste creazioni della letteratura, seppur pregevoli, sembrano caricature della società esagerate, se va bene le intendiamo come romanzi distopici troppo esterni a noi stessi. E’ forse per questo che Kravčenko è stato dimenticato? Ha trattato un argomento per noi troppo irreale?

Chiudo scrivendo che questo libro è un grido disperato di aiuto, urlato dalle vittime dell’Holodomor che riecheggia nelle pagine di Storia. Mi affido quindi alle parole di Schopenhauer che scrisse:

“[…] Mi spingerei persino ad attribuire alle biografie, e soprattutto alle autobiografie, un valore maggiore che alla storia stessa, almeno per come viene normalmente trattata, dal punto di vista dell'intima conoscenza della natura umana. Da un lato, per i primi, i dati sono raccolti in modo più diretto e completo rispetto ai secondi; d'altra parte, nella storia vera e propria, non sono tanto gli uomini ad agire, ma i popoli e gli eserciti; una biografia fedele ci mostra in una sfera ristretta la via dell'azione dell'uomo con tutte le sue sfumature e forme, la saggezza, la virtù, la santità in pochi, la stupidità, la bassezza, la malignità nella maggior parte e in altri anche il male.[…]

01/03/2022

Perché non parlo più di razzismo con le persone bianche di Reni Eddo-Lodge



Perché non parlo più di razzismo con le persone bianche
è un saggio-manifesto del 2017 (pubblicato in Italia nel 2021) che parla di razzismo, scritto per persone bianche. Se pensate che la discriminazione razziale non sia un problema in Europa, la lettura del libro di Reni Eddo-Lodge potrebbe sorprendervi.

È il 2014 quando l'allora giornalista venticinquenne britannica pubblica sul suo blog un lungo post, una «lettera d’addio alla bianchezza» nella quale esprime la frustrazione nel trovarsi a discutere con persone bianche che, spesso in buona fede, negano l'emarginazione a cui le persone non bianche come lei vengono sottoposte nella vita pubblica e privata. 

Eddo-Lodge, lo dimostra il suo stesso libro, non ha mai davvero messo in discussione la possibilità di parlare con le persone bianche, ma solo con quelle che negano il "razzismo strutturale", quello cioè che non riguarda solamente i pregiudizi, ma le ripercussioni sociali collegati a essi: l'ammissione a una scuola o all'università, la selezione lavorativa e soprattutto la difficoltà nel raggiungere posizioni di potere.

Il suo post conosce un immediato successo, tanto che nel 2014 il Guardian inserisce l'autrice tra le 30 persone più influenti sui Digital Media e tre anni dopo viene pubblicato Perché non parlo più di razzismo con le persone bianche, che è il suo primo libro e ottiene riconoscimenti come il British Book Award del 2018. 

Si tratta di un saggio molto acuto ed estremo che, insieme a statistiche e alla narrazione di episodi di cronaca, racconta bene i limiti (spesso inconsci) che abbiamo, come persone bianche ed europee, di fronte al riconoscimento di un razzismo strutturale che si declina in modo evidente: le posizioni di potere sono detenute da persone bianche. 

O ancora meglio: le posizioni di potere sono occupate da uomini bianchi. Molto interessanti, a tale proposito, le riflessioni riguardanti il mito della meritocrazia e gli esempi riguardanti l'emarginazione femminile (e qui l'autrice ci ricorda che le femministe non intersezionali non riconoscono le discriminazioni di categorie diverse dalla loro) e in base alle classi sociali. 

Eddo-Lodge ci racconta con grande abilità la storia schiavista e coloniale europea e in particolare del Regno Unito, la bufala del "razzismo inverso" (che attualmente non può esistere, dal momento che il razzismo presuppone la detenzione del potere) e la grande bugia della colour-blindness che tende a fingere che siamo tutti uguali, negando l'esistenza delle penalizzazioni.

In definitiva, un libro che dimostra come il razzismo non sia un pregiudizio individuale o limitato a piccole frange di estremisti (nel volume è presente anche un'intervista a Nick Griffin, già esponente del National Front, per anni a capo del British National Party, e nel 2014 fondatore del più estremista British Unity Party), e come la bianchezza non sia una semplice connotazione estetica ma un'ideologia politica, punto di riferimento per quei valori e quei saperi ritenuti "canonici". Ma negli ultimi anni, a detta della stessa autrice, le cose stanno già cambiando: anche i libri possono smuovere le coscienze.