Seguici su https://quarantasettelibrocheparla.com/

La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

29/04/2022

Mary Coin di Marisa Silver

Dorothea Lange non si chiamava così alla nascita: cambiò il cognome all'anagrafe, assumendo quello materno. Mary Coin è la storia romanzata di questa grande fotografa e del suo scatto più famoso; ce ne parla Andrea Brattelli.




“Non giudicare il libro dalla copertina”: espressione metaforica, sta a significare che una persona non si dovrebbe soffermare sulle apparenze per giudicare qualcosa o qualcuno.

Non so se leggendo il libro Mary Coin giudicherete il contenuto all’altezza della bella foto in copertina, ciò che è certo è che l’immagine restituisce vita, in maniera cruda, ai ricordi più reconditi sulla stirpe americana.

Il flash dell’antica macchina fotografica ha bruciato letteralmente i solchi sul volto di Mary Coin, la mamma migrante dell’era della Grande Depressione, imprimendoli in una immagine in cui lei fissa l’orizzonte pensierosa, guardando poggi brulli e sassosi scottati dal sole che inaridisce anche il suo volto.

Osservando questo ritratto chiunque di noi può inventare una storia plausibile su questa donna da sovrapporre a quella reale descritta nel romanzo; sarebbe un compito da portare a termine per imparare a vedere davvero.

La scrittrice Marisa Silver dunque si ispira a Dorothea Lange per scrivere la vita di Vera Dare, colei che immortala Mary Coin.

L’eroismo dei personaggi caratterizzati nel libro è costituito dalla loro capacità di saper affrontare i problemi di tutti i giorni e la fatica del lavoro riuscendo comunque a portare avanti senza clamore una vita decorosa e umile pur rimanendo umani.

All’inizio infatti la gente viene descritta alle prese con la quotidianità e in preda ad esigenze primitive insite nell’uomo: il desiderio e la sessualità che li distraggono dalla disoccupazione, dalla fame, dalla malattia, dal non avere un tetto sulla testa, dalle umiliazioni, dalle relazioni fallite, dalla morte.

Uno storico si confronterà con la storia di questo passato, con la vita fatta di mestieri duri portati avanti con determinazione e caparbietà da questa sua ava, rimasta vedova troppo presto di un marito, indefesso lavoratore anche lui, che le ha fatto sfornare rapidamente figli, così come da una zucca si ricavano facilmente semi.

Mary però, come Maria, la madre di Gesù ha, anche in questo caso, accettato l’impegno con devozione, cercando per la sua prole un avvenire migliore.

L'esplorazione di questa filosofia di vita potrebbe facilmente trasformarsi in meditazioni elevate e ingombranti, ma la narratrice mantiene il controllo fondendo sapientemente le elucubrazioni con personalità realistiche e dettagli accuratamente realizzati.

La rappresentazione che possiamo ammirare in copertina è stata impressa sulla pellicola da Vera Dare quando ha incontrato la protagonista durante una migrazione insieme ad altri disperati verso la California, alla ricerca di un terreno da coltivare, mentre allattava la sua ennesima figlia al seno sotto una tenda sgangherata, in preda alla disperazione per l’auto che l’ha lasciata in panne.

La fotografa invece ha, al contrario, abbandonato i suoi figli per inseguire le sue passioni, ma il suo comportamento non è totalmente da vituperare perché anche lei ha avuto una vita molto difficile.

Le due donne, che si incontrano solo una volta, nel momento in cui Dare fotografa Coin, sembrano essere unite in un modo che non è così forte neppure nelle relazioni tra persone dello stesso sangue; una connessione così dinamica tra le due, dato che anche il loro animo è in fermento in parallelo all’evolversi delle vicende che seguirono la grande depressione, che le porta a rivelare i loro segreti più reconditi e intimi, a confessare i loro desideri e le cronache strazianti delle loro relazioni che cadono come le ultime foglie di un albero morente: tutto ciò crea una forte empatia con il lettore. Sì, perché la morale è che “inizi a sapere chi sei e a conoscere veramente te stesso quando inizi a perdere le cose”.

Termino iniziando da dove son partito, scrivendo della foto. Il voyeurismo dell’arte ci permette di credere unica la nostra visione delle persone e dei fatti; lo è sempre stato, anche in un’epoca dove non vi erano i Social, anche se ora il fenomeno è amplificato proprio da questi strumenti.

Attraverso un ritratto potremmo scoprire molto più del nostro passato, verità scomode e altre che potrebbero rendere il nostro presente migliore di quello che è. Un fotogramma rappresenta una scheggia di un attimo della vita nostra o di qualcuno catturata e impressa nel tempo per l’eternità; un frammento non potrà mai dirci tutta la verità su una storia ma forse molto di più su noi stessi e, forse, ci renderemo conto, che le nostre radici sono state anche quelle di altri o molto simili e forse guarderemo più dentro di noi piuttosto che ciò che fa il prossimo per giudicarlo.

22/04/2022

Uomini e No di Elio Vittorini

Uomini e no è il primo romanzo a narrare la Resistenza. La ricerca di nuove tecniche di narrazione, ci spiega Andrea Brattelli, non lo rende un libro "facile" da leggere; ma resta un testo ricco di riflessioni importanti in vista della prossima ricorrenza del 25 aprile. «Questo era il modo migliore di colpire l'uomo. Colpirlo dove l'uomo era più debole dove aveva l'infanzia, dove aveva la vecchiaia, dove aveva la costola staccata e il cuore scoperto. Dov'era più uomo»


Uomini e no, il romanzo che Vittorini ha pubblicato nel 1945, dopo nove anni di silenzio, è il risultato dello sforzo, che lo scrittore compie, di conciliare i modi allegorici e tesi sperimentati in Conversazione con l’esigenza di giungere finalmente al realismo che domina la cultura in generale di quegli anni.

Il risultato, mi spiace confermarlo, non è dei più felici: il mito, la storia, l’interpretazione di fatti e personaggi contemporanei non sempre si fondono in un discorso narrativo coerente ed organico.

Ciò lo dirà anche lo scrittore, che riconoscerà che questo suo romanzo lo ha redatto con lo stesso impegno premeditato con cui partorì Garofano ma non gli diede lo stesso piacere a parità di sforzo.

L’opera è la storia del partigiano Enne 2 che vive la Resistenza a Milano nel 1944. Vivremo insieme a lui la ricerca dell’autenticità di vita e di impegno del mondo; indagine che è ostacolata dall’amore non corrisposto per Berta ed è anche per questo che l’uomo combatterà la sua ultima battaglia, per dimenticarla.

La tecnica del rallentamento del dialogo attuato mediante frequenti ripetizioni al fine di elevarlo in un’atmosfera irreale è usatissima per tutto il racconto fino a sfiorare un manierismo barocco.

Alcuni critici osservano che nello scegliere questo stile Vittorini si sia fatto influenzare dagli scritti di Faulkner, Anderson, Hemingway. Io penso invece che il narratore si sia imbarcato in una prosa che ha poi rallentato e si è irrealizzata nel tentativo vano di approcciarsi a quella di Conversazione. Il motivo? Troppi contingenti e precisi significati storici reali che non possono essere in alcun modo resi assoluti attraverso l’astrazione.

L’infanzia dell’autore e il presente si intrecciano in scritti in corsivo presenti nel libro. Ciò dà luogo a una “quarta dimensione” in cui la fantasia prende il sopravvento e vedremo un adulto che instaura dialoghi con una bambina, Berta appunto, interrogandosi sul perché ella non voglia amarla a prescindere dalle condizioni e da ciò che egli è disposto a fare per lei.

Allo stesso modo le sospensioni, le domande senza risposta, che nella realtà richiedono invece impegno diretto, si sovrappongono a dialoghi normali e li rallentano rendendoli monotoni.

In qualche caso, come nelle pagine iniziali in cui Enne 2 incontra Berta, queste tecniche funzionano, devo ammetterlo.

Forse dovrei cercare, invece di scegliere le pagine belle in Uomini e no e separarle da quelle populistiche con un non so che di lezioso, di fornire un’indicazione sul significato profondo del racconto narrato, dell’esperienza umana e politica del protagonista.

La storia tra ninfa vitale e quindi sboccia alimentata dalla purezza dell’umanità a cui si giunge attraverso il dolore. Ma il candore può esistere non solo nella passività, nella sottomissione al male; può esistere anche nell’azione, purché sia semplice e naturale.

Ciò avviene quando si realizza un mutamento nella storia indipendente dall’impegno non sempre razionale del protagonista e di altri personaggi, ovvero quando il fascismo sta per cadere, il Male sta per scomparire dal mondo e tutti potranno iniziare a credere in un Bene privo di ombre.

Lo stesso romanzo si chiude con una pagina scritta con il fine preciso di lasciare aperta qualche prospettiva per il futuro.

15/04/2022

Big Sur di Jack Kerouac

Andrea Brattelli ci racconta Big Sur, il "bad trip" di Jack Kerouac. Nel 1962 esce questa amara storia autobiografica che segna l'inizio della fine dello scrittore, stritolato dalla dipendenza dall'alcool. "Se non scrivo quello che vedo effettivamente accadere su questo globo infelice racchiuso nei contorni del mio teschio penserò che il povero Dio mi abbia mandato sulla terra per niente." Suggerisco anche il breve commento di Emanuele Trevi per Rai Cultura che sottolinea l'intensità del libro e la tragicità della vicenda umana di Kerouac.


Big Sur è l’ultimo bacio sulla guancia che riceve dalla vita Jack Kerouac, l’ultimo saluto all’esplorazione, ai festeggiamenti, l’estremo baluardo alla sua vita fatta di eccessi. Come in un vortice ci troviamo a far scorrere dinanzi a noi tutta la sua vita ben documentata nelle sue altre produzioni; però, questa volta, i personaggi che l’hanno popolata, le destinazioni a cui è giunto, sono solo fonte di malessere.

Il falso antidoto a tutto ciò è l’alcool, dolce vino che brucia nel sangue. Quindi la paranoia prende il sopravvento, la disconnessione dalla realtà gli propone solo immagini sbiadite dell’ambiente che lo circonda, i vizi prendono il posto dell’ amore e dell’amicizia nella sua anima.

Situazioni elettrizzanti si tramutano presto in orrore e disperazione che lo seppelliscono.

Tutto ciò che l’autore guarda con i suoi occhi non ha più nulla di romantico e trascendentale come in On the Road, ad esempio. In realtà nella sua scrittura non si nota neppure una vena malinconica o tristezza; semplicemente il nostro Jack descrive in maniera asettica la natura che, nel momento in cui sta scrivendo questo romanzo, cerca di proteggerlo da incontri spiacevoli con parassiti che gli hanno succhiato via l’essenza per tutta la vita, compagni di dissolutezza.

Perché lo scrittore sembra così privo di idee? Perché non gioca più con le parole come in altri suoi romanzi? Ricordo che, anche quando descriveva il frangersi delle onde contro le rocce, scriveva metafore paragonandole al suo animo in fermento di una tragicità simile a quella presente nei testi di Edgar Allan Poe.

Le risposte a queste domande forse si nascondono dietro al fatto che egli ormai così come non si prende più la briga di cercare di cambiare ciò che lo circonda (ambienti, persone, situazioni) non stuzzica neppure più il nostro “appetito” con descrizioni poetiche ma riporta le cose così come sono. Giudica la sua esistenza inutile e può fare a meno di ciò che è stato in passato. La sua vita va in frantumi e specchiandosi nei frammenti Kerouac vede il suo volto emaciato in primo piano e, dietro, la gioia ormai appassita dei suoi successi letterari con cui non riesce a riconciliarsi.

08/04/2022

Umberto Eco, il pendolo di Foucault

Che cos'è il pendolo di Foucault? Un enorme pendolo sferico (un cavo di oltre 60 metri con attaccata una sfera di 28 kg) che fu appeso nel 1851 alla cupola del Panthéon di Parigi da Léon Foucault (1819-68), per dimostrare la rotazione terrestre. Ma è anche (e soprattutto) un libro di Umberto Eco, del quale ci parla Andrea Brattelli. Confesso di non essere mai riuscita a terminare la lettura di questo malloppo da 800 pagine edito nel 1988 e recentemente ristampato da La nave di Teseo, ma dopo aver letto le sue riflessioni magari potrei ritentare. Tre redattori editoriali, dopo avere frequentato autori fissati con le scienze occulte, le società segrete e complotti di vario tipo, decidono di inventare un "Piano"... 


Se posso permettermi di riassumere il significato di questo libro, penso che quest’opera si possa definire un viaggio dell’uomo trascinato nell’abisso dalle teorie del complotto.

Ogni tanto rileggo sempre qualche pagina di un romanzo che ho già letto; se qualcosa mi colpisce in maniera inusitata rispetto alla prima lettura, ne scrivo una recensione.

Quando mi sono soffermato nuovamente su qualche passo di questo scritto era il periodo in cui su vari gruppi, di vari social, degli scalmanati gridavano al nuovo ordine mondiale.

Ho trovato quindi delle analogie tra i complotti orditi secondo queste persone da famigerate società segrete e “Il Piano” di cui si scrive in questo libro, ovvero una battaglia contro le forze del male condotta da paladini del mondo. Una curiosità: “Il Piano” è anche il nome della guerra segreta che secondo alcuni Trump stia combattendo contro la società occulta dei Qanon.

Intricato, ricco di speculazioni filosofiche e con molte digressioni storiche tali da renderlo sfarzosamente barocco in tal senso, con Il pendolo di Foucault Umberto Eco intende dimostrare che anche l’escatologia medievale può essere fonte di intrighi come quelli presenti nei film di Indiana Jones.

I tre protagonisti della storia lavorano nel campo dell’editoria. Iniziano a indagare sui Templari e tutto inizia quando uno di loro scompare e gli altri due entrano nel suo computer dove il ricercato ha annotato tutte le sue idee e ricerche, per capire dove si possa trovare.

Inizia un gioco in cui si associano documenti trovati nei meandri dell’hardware per capire cosa, tra gli scritti di Belbo, possa essere vero oppure inventato.

Il pendolo fu inventato da Jean Bernard Leon Foucault (1819-68) per dimostrare la rotazione della terra. L’opera stessa oscilla tra l’erudizione dell’autore che si riscontra anche ne Il nome della rosa e scene pruriginose, metafora dei racconti spazzatura che trattano i tre editori per tirare a campare.

Il triumvirato di editori - Diotallevi, Belbo e Casaubon - decide, come in un gioco, di alimentare tutte le trame ermetiche che troveranno celate nel computer.

Camminano al buio, attraverso un museo di invenzioni meccaniche, alla ricerca di un nascondiglio. Nel mentre inciampano tra il ciarpame costituito dai rifiuti che la civiltà abbandona dopo essersi cibata per secoli senza ritegno, non vanno da nessuna parte perché sono cocchieri di carrozze senza cavalli e attraversano un mondo fatto di specchi deformanti. Temono il loro stesso respiro pesante e tellurico, il loro ansimare, le ossa che scricchiolano.

Tutti gli avvenimenti convoglieranno, come in un disegno prospettico, verso un punto focale impersonato dal colonnello Ardenti artefice di una folle cospirazione che prevede l’uso di correnti telluriche create con l’elettricità convogliata attraverso le pietre di Stonehenge, i menhir, addirittura la torre Eiffel.

I druidi erano stati i primi osservatori a mappare e trovare analogie tra la forma delle costellazioni e le tracce per far passare i cavi elettrici in antiche costruzioni, ma presto altre popolazioni combatterono per averne il controllo.

Eco riconosce una distinzione tra arte "alta" e "bassa", e insiste sulla superiorità formale del basso: "Forse solo la finzione a buon mercato ci dà la vera misura della realtà” asserisce. La “Grande Arte” ci prende in giro tanto quanto ci conforta, perché mostra il mondo come gli artisti vorrebbero che fosse. Il romanzo è, tuttavia, una dima in cui il narratore finge di scherzare, ma poi ci mostra il mondo come è in realtà - o almeno il mondo come diventerà ...

La moderna tecnologia informatica fornisce la chiave con cui i cabalisti (tra cui uno dei protagonisti dell’opera in questione, il filosofo Abulafia) hanno cercato di far prendere vita alla loro metafisica.

È questa la chiave di lettura di tutto, perché come vi è distinzione tra arte “alta” e “bassa” vi è anche differenza tra linguaggi di programmazione di alto livello e basso livello con cui descriviamo il reale e cerchiamo di farlo rispondere alle nostre esigenze comandandolo dall’alto e dal basso.

Analisi fattoriale, calcolatrici binarie, cabala applicata alla tecnologia moderna, tutti strumenti che gli esseri umani utilizzano per realizzare quanto scritto poc’anzi.

Strano, o non così strano, che le abbreviazioni gesuite prefigurino così bene il computer, o che i computer debbano avere una riverenza spuria incorporata nel loro hardware. ''IBM: Iesus Babbage Mundi, Iesum Binarium Magnificamur. AMDG: Ad Maiorem Dei Gloriam?”

Troppi romanzi "letterari" usano la loro letterarietà come scusa per costruire narrazioni non curate, e questa stessa noncuranza determina che le loro fondamenta rimarranno instabili, la trama sottosviluppata e irrisolta. Lo scrittore qui invece inverte il processo, attenendosi strettamente alle convenzioni della narrativa di genere e poi (ancora più efficacemente che ne Il nome della rosa) trovando analogie tra diversi tipi di mistero, costruendo ponti tra forme fisiche e psicologiche e, di conseguenza, negandosi il lusso di lasciare fini slegati o enigmi irrisolti. Rispetta le restrizioni formali della narrativa popolare e innesta su di esse la serietà di intenti che associamo alla "Grande Arte": possiamo dire che per Eco, come per Belbo, deve essere arrivato un momento in cui si è reso conto che "non aveva senso scrivere senza una seria motivazione".

Definire Umberto Eco come un "post-modernista", quindi (come molti critici sono felici di fare), risulta impreciso. Anthony Burgess sottolinea che egli, ai tempi, stava ancora imparando a descrivere e discernere durante la scrittura di un libro il reale e fasullo ; la sua preoccupazione è sempre stata discutere di libri che parlano di libri, di farlo con autoironia, mise in evidenza la sua ossessione semiologica; ma tutto ciò graffia solo la superficie del pensiero di questo autore. È vero, egli non solo condivide la dottrina secondo cui la semiotica del linguaggio determini la realtà, ma la porta anche alla luce creando opportunamente la meccanica su larga scala della trama, con cui si percorre il post modernismo per uscire da un nucleo di umanesimo profondamente antiquato.

Un’ultima curiosità: Umberto Eco a causa di quanto è riportato in alcuni passi di questo romanzo è stato definito antisemita perché fa riferimento al fatto che Hitler non ha rispettato degli algoritmi matematici e ha reso la sofferenza degli ebrei all’interno dei campi di concentramento inutilmente troppo lunga.

01/04/2022

William Gaddis, Le perizie (The Recognitions)

Andrea Brattelli ci parla di un titolo che ammetto di non aver mai sentito prima: Le perizie, romanzo d'esordio di William Gaddis del 1955 che anticipa il postmodernismo con un'opera mastodontica sulla falsificazione. Sicuramente interessante, anche se non credo sia di facile lettura. Ma scopriamo che cosa ne pensa Andrea.




Si tratta di un'opera pubblicata negli anni '50, ma più attuale che mai nei suoi contenuti. In un’epoca di incertezza, tutte le strutture stabili e coerenti si scoprono difficili da gestire.

Il mondo come avevamo imparato a conoscerlo, complesso come, metaforicamente parlando, la struttura della cattedrale descritta nel libro, si disintegra portandosi dietro tutta l’umanità dai suoi colori vivaci ma transitoria perché composta da comuni mortali che sono solo di passaggio su questa Terra.

Come ho precedentemente scritto, si parla sì di disintegrazione dell’opera… Ma anche di integrazione, di scelte maturate nel tempo da parte del protagonista che deciderà di cambiare vita e di convogliare le sue passioni in un nuovo mestiere che lo porterà a conoscere gente nuova e ad agire senza pregiudizi.

Il personaggio principale, Wyatt Gwyon, abbandona l'idea del sacerdozio per diventare un artista, poi rinuncia a "quella malattia romantica, ovvero l'originalità", per diventare un appassionato copista di Flemish Old Masters. La sua abilità, che per lui è inizialmente applicata come atto di riverenza disinteressata, lo coinvolge con falsari puramente mercenari per i quali i valori dell'arte sono indistinguibili dai quelli delle merci.

The Recognitions è un romanzo sulla falsificazione di tutti i tipi e su tutte le ambiguità implicate nel concetto di "imitazione". Anche la religione è considerata da un punto di vista strettamente utilitaristico.

Wyatt spiega la “forma e la densità” raggiunta dai pittori fiamminghi: "Perché hanno trovato Dio ovunque. Non c'era nulla che Dio non guardasse ... e quindi nel dipinto ogni dettaglio riflette ... l'interesse di Dio per gli oggetti più insignificanti della vita."

In definitiva, anche forme d’arte minori e falsificazioni trovano la loro giustificazione nel mondo perché Dio ha interesse per ogni uomo e qualsiasi sua creazione.

"Nihil cavum neque sine signo apud Deum": niente di vuoto o senza significato con Dio. Ma senza Dio? Cosa succede alla nozione stessa di "significato"? E come può una persona stabilire cos'è la pienezza e cos'è il vuoto, cosa è reale e cosa è falso? 

Si parla di Simon Magus, uno dei primi a trafficare reliquie religiose, ma a Gaddis sembra che quel traffico simoniaco sia ormai ovunque, contagiando ogni aspetto della vita umana, minacciando infatti lo status ontologico del singolo essere umano.

Ci sono prodotti, crescono a dismisura per numero e tipologia, ma non hanno significato al di fuori del regno del consumismo, della pubblicità e dello sfruttamento reciproco che le produce. Le vite sono "affollate" di dettagli, ma è impossibile mettere insieme i pezzi e, a volte, l'accumulo seriale è troppo da sopportare.

In una certa qual misura è così che l’autore descrive le figure e le parole del suo “Sistema” in modo che molti personaggi siano poco più che superfici in metamorfosi, frammenti di abitudini linguistiche, copie, prodotti.

The Recognitions
è concepito nella consapevolezza che tutto il tesoro letterario del passato è, per così dire, ancora in circolazione. I temi del libro e la sua feroce accusa nei confronti del mondo moderno possono sembrare ormai convenzionali, ma lo scrittore tratta i temi in un modo così straordinariamente originale che non si ha mai il senso di una semplice ricapitolazione delle idee.