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La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

26/05/2023

Entropia, di Thomas Pynchon

Andrea Brattelli alle prese con l'apprendistato del genio del postmoderno: Thomas Pynchon e i suoi primi cinque racconti (1958-1964); in particolare, Entropia che ha segnato la svolta della narrativa USA verso la scienza e la fisica quantistica.


Thomas Pynchon è uno scrittore che tramite questa raccolta di racconti si dipinge rivelandosi cautamente al pubblico. Cinque storie giovanili e un'introduzione in cui egli si rende vulnerabile come non mai. Nel preambolo si mostra duro con se stesso, tanto da destare in me ai tempi la preoccupazione che quest’opera sarebbe stata solo un confessionale. In realtà si tratta di riflessioni di un uomo che, a un certo punto della sua vita, si guarda indietro e ripensa a un’America che non c’è più, lasciandosi coinvolgere dai ricordi degli anni ’50, contemplando la fine della beat generation come uno spettatore incredulo al quale un poliziotto urla, a lui e ai suoi amici, di sgomberare che la parata è finita ed è consigliabile approdare al bar più vicino a rimpinzarsi di toast in fast food commerciali come le riviste i cui articoli riportati dai media sono come il cibo di scarto e ti fanno desiderare di erudirti leggendo Lionel Trilling, T.S. Eliot, Hemingway.

Redige cautamente piccole storie su pagine incontaminate attingendo a risorse che i narratori hanno sempre ma che, a volte, non utilizzano: memoria, immaginazione, curiosità e conoscenze passate. Queste ultime in realtà Pynchon le definisce, molto banalmente, “cattive abitudini” e “idee e teorie stupide”.

Passiamo quindi ora ad analizzare brevemente questi racconti che rappresentano le fondamenta degli sviluppi successivi dell’opera narrativa di Pynchon.

Pioggerella (The Small Rain) è una storia incentrata sul protagonista, un certo Nathan ''Lardass'' Levine, che servì al narratore per collaudare i connotati di Benny Profane, che conosceremo meglio in V. In realtà è un personaggio la cui matrice prende il calco dallo scrittore stesso in quanto è laureato, lavora nell’esercito come soldato semplice svolgendo mansioni di scarsa importanza perché ciò che a lui interessa è avere un giaciglio per riposare e filosofare sulle grandi questioni dell’esistenza attraverso il “senso acquisito dall’anima”. Verrà destato da questo suo torpore in seguito all’incontro con la Morte, che si accompagna alla terra arida e fradicia in un simbolismo che ricorda quello di The waste land di T.S.Eliot.

A proposito di “terre”, come non trovare analogie tra la situazione descritta precedentemente e il paesaggio dipinto in Terre basse (Low lands) nel quale innumerevoli tunnel si contorcono nelle viscere della terra fino a sfociare in una discarica a nido d’ape dove trovano la pace eterna tutti gli elettrodomestici usa e getta, vittime del consumismo sfrenato: reti da letto, cessi, pentole, televisori e condizionatori d’aria ecc. Cosa si nasconde tra quei meandri? Lo scoprirà Dennis Flange, un uomo che si addentrerà in questa sporcizia, disposta su vari livelli, chino con la testa mentre entra nei tunnel, così come si è sempre piegato alle vicissitudini della vita che gli hanno spento qualsiasi passione e non alza quindi più da tempo il capo.

Leggendo troveremo molte analogie tra questi temi e quelli presenti in V e The Gravity Raimbow, romanzi nei quali la realtà rappresentata, se non è proprio distopica, non è poi neppure però poi così divertente da essere vissuta.

A questo proposito segnalo che proprio lo scritto Sotto la rosa (Under the Rose) è una versione minuta di V, o, meglio, del suo terzo capitolo, in cui uomini con un fare machiavellico cercano una soluzione per evitare una guerra tra Inghilterra e Francia a seguito della crisi di Fashoda. Le dinamiche, i giochi di potere in atto sembrano quelli di una politica italiana tardo rinascimentale ma il territorio non è come il nostro: sembra più un luogo dimenticato da Dio!

Entropia è, tra tutte, la più conosciuta delle storie di Mr. Pynchon, molto recensita e commentata.

In una casa disposta su più livelli, al piano inferiore dei musicisti jazz fanno un caos infernale non azzeccando neppure un accordo. Nella parte superiore invece una coppia pensa ad accudire una piccola piantagione cercando di isolarla dal mondo esterno per evitare il più possibile contaminazioni.

Non vi è alcuna interazione tra questi due insiemi di elementi, forse avranno qualcosa in comune solo quando il mondo finirà, quando ovunque le temperature saranno le stesse e nessun calore sarò mai più trasferito. Lo stesso calore che smuove i sentimenti, smossi da onde sonore scaturite dagli strumenti di un gruppo musicale a una festa, che rendono tutti euforici. Quando tutto giacerà in un silenzio e un equilibrio immane chi potrà giudicare le melodie, l’inferenza di una Natura musicista silenziosa, se nessuno le sentirà dato che nulla le trasporterà? Ci accorgeremo ancora di poter amare o se qualcuno/a ci sta mentendo sui sentimenti che dice di provare nei nostri confronti?

E per finire, nella raccolta troviamo L'integrazione segreta (The secret integration) in cui viene messa in scena una rivolta simile a quella degli schiavi in Spartacus ma ad opera di bambini che vivono a Mingeborough, nel Berkshire. Il loro condottiero è Grover Snodd, troppo stupido per nascondere quanto è intelligente. Il malcontento di questi ragazzini risiede nell’essere ignorati dai genitori succubi, anche questa volta, della modernità e delle sue materiali diavolerie; la solitudine prenderà posto alla rabbia che provano verso mamme e papà del tutto inutili sentimentalmente, ma necessari per i bisogni primari. Non vi è, nei loro abbracci, né un irraggiamento tale che possa essere contemplato dal secondo principio della termodinamica, né una capacità di assorbire le ansie e preoccupazioni giovanili.

Con queste produzioni Pynchon vuole catturare l’attenzione degli adolescenti a cui, sentenzia, non interessano i personaggi ben definiti e congegnati, ma l’anima del testo in movimento, sempre pronta a sorprenderti. In questo contesto di frasi gergali si potrebbe paragonare a Frank Zappa che rese immortale la sua musica sperimentando e rendendo partecipi del suo successo dei ragazzi strabiliandoli con il rock’n’roll. Con l’esempio si fornisce educazione che durerà per sempre (by Henry Adams).

19/05/2023

Gli extraterrestri, di Clifford Simak

Clifford D. Simak (1904-1988) è stato uno scrittore statunitense prolifico. In Italia sono stati pubblicati parecchi dei suoi romanzi e racconti, tanto che in base al Catalogo Vegetti della letteratura fantastica il suo City del 1952 ha avuto ben 38 edizioni, con titoli diversi. Simak ha vinto due premi prestigiosi nel suo genere: nel 1976 il The Grand Master Award e nel 1987 il riconoscimento Horror Writers Association Life Achievement. Andrea Brattelli ci parla della raccolta Gli extraterrestri e ci spiega perché dovremmo leggere Simak. Chiude la recensione una curiosità su Tadanori Yokoo.


Clifford Simak era sia un giornalista che uno scrittore di romanzi e racconti di fantascienza. Le sue storie sono spesso ambientate nel Middle West americano, in particolare nello stato del Wisconsin, costituito ai suoi tempi per lo più da cittadine e fattorie a conduzione famigliare; nel percorrere il cammino tra un punto abitato e un altro si potevano incrociare laghetti tersi, corsi d’acqua limpidi e prati in fiore ove, come in un agguato, potevano spuntare in momenti inopportuni animaletti sì teneri, ma che potevano incutere spavento facendo capolino da qualche tana all’improvviso. L’approccio dello scrittore americano nel narrare è pressoché questo per suscitare stupore e meraviglia nei lettori.

Porgo inizialmente all’attenzione di tutti una rapida digressione sulla nascita del racconto breve di stampo “Sci-Fi” (Science Fiction). Tra il 1930 e gli anni '80 la proliferazione di riviste di fantascienza e l’interesse suscitato da questi temi era tale per cui uno scrittore, seppur pagato poco o nulla per pubblicare, cercava di porsi all’attenzione del pubblico anche solo con una rubrica all’interno di esse per poi suscitare interesse verso qualcosa di più importante a cui da anni stava lavorando come, ad esempio, un libro o una sceneggiatura per un film. 

In realtà la fatica richiesta non era molta. Infatti Bradbury o Pynchon, per esempio, molto famosi, ambientavano le loro storielle in contesti simili e con tematiche medesime a quelle già palesate in precedenza in Martian Chronichles o The illustrated Man ecc. nel caso del primo o in V. e nell'Arcobaleno della gravità nel caso del secondo.

Simak invece lo potremmo paragonare più verosimilmente a Sherwood Anderson: entrambi giornalisti, preferivano scrivere testi di cinquanta pagine al massimo, come se stessero raccontando un fatto di cronaca. In caso contrario, non sarebbero stati capaci di intrattenere un appassionato del genere che si sarebbe, altresì, annoiato. In questo modo lo scrittore americano riesce a partorire vicende con un finale convincente pur rimanendo nel settore fantasy o fantascientifico.

Ciò che stupisce nella raccolta Extraterrestri edita da Bompiani in esame è come il comune, l'ordinario, prepari sempre il palcoscenico a qualcosa di particolare, rappresenti il preludio di un evento straordinario ed eccitante. È un metodo collaudato di narrazione questo, per portare il lettore gradualmente da una zona di comfort a lui più congeniale, mentre lo si culla, per poi sbalzarlo via scaraventandolo in un altro mondo.

In poche pagine si combinano alcuni temi familiari agli scrittori di fantascienza degli anni '50 e '60 con una visione personale e curiosamente pastorale dell’autore. Per questo motivo, se desiderate un racconto con una descrizione del paesaggio non eccessivamente distopica, cyber potenziata ma comunque approfondita, mi permetto di consigliarvi la lettura di Simak: avrete, alla fine, passato una giornata spensierata e avrete un approccio diverso nel rapportarvi con la realtà nel vostro futuro, un altro punto di vista, vedrete l’avvenire sotto una luce diversa.

P.S. Nell’edizione Bompiani che ho io in copertina vi è rappresentata una locandina Tadanori Yokoo. La tecnica di questo artista giapponese si può inquadrare in una espressione religiosa ed ermetica fortemente colorata e contaminata con la sua personalità popolare, consumistica e politica con le quali concepisce un particolare design, contribuendo così a perpetuare lo scisma tra quest’ultimo e l’arte.

I poster di Yokoo durante gli anni '60 enfatizzavano elementi indigeni, pre-modernisti e kitsch presenti nei gusti libidinosi delle masse giapponesi e sorprendevano coloro che erano abituati ad architetture moderniste e razionali.

12/05/2023

La noia, di Alberto Moravia

La noia. Invece di proporre la mia recensione del capolavoro del 1960 di Alberto Moravia, preferisco lasciare le parole ad Andrea Brattelli che sa cogliere meglio di me l'universalità del messaggio di fondo della trilogia iniziata con Gli indifferenti (1929) che vedrà la conclusione nel 1978 con La vita interiore, col quale lo scrittore porterà all'estremo la sua spietata narrazione delle patologie borghesi.

"La vidi ridere, con quel suo riso un po’ infantile che le sollevava le labbra sui canini aguzzi: «Dentro non sono di nessuno. Dentro ci sono i polmoni, il cuore, il fegato, gli intestini. Che te ne faresti?»"



Sentiamo dire spesso che “il denaro non rende felici” e ciò sembra confermato da indagini scientifiche. I dati dimostrano infatti che le persone abbienti hanno meno probabilità di considerarsi spensierate rispetto a coloro che vivono in condizioni economiche meno favorevoli. Mentre scrivo queste frasi mi torna alla memoria il film La ricerca della felicità con Will Smith. Vi è una scena in cui il protagonista, ancora povero, camminando da solo per strada osserva i volti delle persone della media e alta borghesia americana e si rende conto di essere l’unico ad avere un viso severo e corrucciato: ciò gli fornisce la spinta per rimettersi in gioco e risolleverà le sorti della sua vita e di quella del suo figlioletto.

Ciò che ho appena espresso può sembrare una contraddizione con quanto riferito dai dati scientifici all’inizio della recensione ma non è così: il protagonista de La noia è triste perché le persone e gli avvenimenti gli passano accanto senza destare in lui alcuna emozione. Pensa che tutti indossino maschere che nascondono i veri volti e quindi il loro reale stato d’animo. La pittura non lo soddisfa più, la madre ricca comunque gli passa una rendita mensile, quindi non vi sono preoccupazioni impellenti; inciampare in una relazione sessuale inquietante sarà l’unico scossone alla monotonia della sua esistenza.

Quando idealmente si pensa alla “noia”, si trasfigura nella nostra mente anche una morte dei sensi i quali, non trovando alcuna realtà da abbracciare, ci restituiscono la visione di un mondo piatto che ci rende l’anima insensibile ad ogni turbamento. Ma quella descritta da Moravia è una tipologia di tedio che galoppa pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo verso l’alienazione.

Tornando al discorso dell’incontro del benestante Dino con Cecilia e alla loro relazione, possiamo affermare che c’è un non so che di genuino in questo rapporto puramente istintivo e vissuto momento per momento, spontaneità che lascia il posto a un umorismo nero a causa di un’analisi fredda, ossessiva dei rapporti, una disamina implacabile, straziante. Sembra di leggere il diario di un’entità aliena che descrive dallo spazio siderale ciò che accade sul nostro pianeta, scrutando tramite satelliti gli eventi che si succedono dopo tali incontri amorosi le cui regole di condotta sono avulse da qualsiasi norma precedentemente conosciuta, una trasformazione del banale in qualcosa di inalterabilmente strano. Questi artifici tengono salda l’attenzione del lettore nei confronti della narrazione.

La voce narrante del protagonista è fredda e nitida; alcuni dettagli profusi nei ragionamenti poco plausibili a loro volta mi sembrano eccessivi ma penso che il narratore li abbia scritti così di proposito per mostrare come un uomo senza pensieri può maturare più facilmente di altri ansie e pensieri intrusivi e ossessivi che portano a comportamenti non lucidi.

I romanzi che il grande scrittore italiano Alberto Moravia scrisse negli anni successivi alla seconda guerra mondiale rappresentano una straordinaria indagine sul comportamento umano in una società moderna ma, al contempo, frammentata. La noia, la storia di un artista fallito, di un figlio viziato di una ricca famiglia che si affeziona pericolosamente a una giovane modella, esamina le complesse relazioni tra denaro, sesso e mascolinità in pericolo. Questo studio potente e inquietante sulle patologie della vita borghese è uno dei capolavori di uno scrittore che, come osservò una volta Anthony Burgess, "cercava sempre di andare a fondo nell'imbroglio umano".

05/05/2023

Romano Bilenchi, Il gelo

Andrea Brattelli sceglie spesso titoli poco ordinari da recensire: stavolta propone Il gelo di Romano Bilenchi. Pubblicato nel 1982, è un romanzo che, scrive Geno Pampaloni nella prefazione, "vuole cogliere, nell'adolescenza, la situazione germinale dell'assedio cui l'uomo di oggi è sottoposto; gli interessa l'esperienza della solitudine, del non-comunicare (...). L'infanzia, l'età pre-ideologica, non è infatti idoleggiata come un mito; ma è l'anticipazione, la verifica, la semplificata verità di un modello "fatale" di rapporto con la realtà (natura e società)". Per chi lo desidera, è disponibile la lettura del libro su Ad alta voce, a questo link.


Ogni anno la solita storia, ci si ritrova ad annaspare in un marasma di libri catalogati non per genere ma secondo la dirittura di arrivo nelle varie competizioni, come se si trattasse di Formula Uno: “Premio Bancarella”, “Premio Strega”, “Premio Campiello” ecc.

Il gelo di Romano Bilenchi (scrittore nato a Siena nel 1909) con la snellezza delle sue scarse cento pagine compie ciò che decine di questi libri promossi nelle varie gare cercano di fare.

L’espediente narrativo, il MacGuffin di Hitchcockiana memoria del “coming of age” ha una lunga tradizione letteraria. Robin Crusoe ad esempio, con la sua ostinata e sfortunata tendenza a non seguire i consigli paterni penso sia il primo della saga. Tra altri del genere annoveriamo Huckleberry Finn e il più recente The Catcher in the Rye (it. Il giovane Holden).

Pubblicato nel 1982, quest’opera è il fiore della creazione di Bilenchi i cui petali accarezzano lo sconvolgimento emotivo dell’adolescenza, che sbocciano nell’età adulta e la influenzano positivamente o negativamente.

Il titolo è la sintesi del romanzo e si palesa sin dalla prima riga con questa frase:

“Il gelo del sospetto e dell'incomprensione si contrappose tra me e l'umanità
all’età di sedici anni, all'epoca dei miei esami di maturità".

L'arrivo e la transizione dall'infanzia all'età adulta è una forma di disillusione. Per il giovane protagonista si verifica nel momento in cui suo nonno muore. La sua adorazione per l’anziano si trasforma in disprezzo per il resto della sua famiglia, per come gestiscono sia il funerale, sia la memoria del defunto. Il patriarca era un narratore di storie e quindi appariva più antico dell’intera umanità agli occhi del ragazzino. I parenti invece lo consideravano un mentecatto affetto da demenza senile e ciò dispiaceva al fanciullo.

Il freddo, a seguito del lutto, entra così nel suo cuore e alla sua fervida immaginazione alimentata dai racconti del nonno si sostituiscono scetticismo e smarrimento; non riesce a elaborare la perdita.

Nella campagna rurale lo smarrimento del giovane, metaforicamente evidenziato dalle descrizioni delle sue passeggiate faticose, appesantite dal fardello dei pensieri, è mirabilmente descritto: sembra quasi di leggere un’opera di Faulkner. La natura selvaggia ricalca e simboleggia lo spirito impetuoso del ragazzo che passa dall’adolescenza all’età adulta, cercando di sopprimere quegli istinti primordiali in una Italia che ancora non ha svezzato i suoi connazionali e quindi non li ha resi capaci di parlare serenamente in famiglia di tali pulsioni. Erano anni in cui la “transitorietà” faceva da padrona, mutamenti che sono invece per natura eutocici* nella vita dell’essere umano, ma, in simili contesti, la sessualità rende tutto solo molto imbarazzante.

L'oscurità che ne deriva è in contrasto con il paesaggio pastorale e sembra che qualcuno ci costringa a svernare col gregge in una grotta in cui penetra solo la brezza invernale. Siamo come le comparse in questo romanzo: come i braccianti, con la testa china a zappare, non siamo autorizzati a godere il sole che accarezza i girasoli seppure sono talmente vicini da poterli sfiorare con le dita; siamo come le giovani massaie che vengono esiliate presso parenti lontani o costrette a farsi monache per non portare “le colpe” a casa e non finire in galera per aborti occultati. Tutto è infettato dal seme del sospetto e ci sembra assurdo che Bilenchi da ragazzo abbia dovuto subire tutto ciò perché anche la più fervida immaginazione di scrittore non può imbastire un resoconto così ben dettagliato della sopravvivenza nelle colline senesi di un tempo. Sarebbe logico pensare, quindi, che tutto ciò sia accaduto realmente o sia quantomeno ispirato a fatti genuini ed autentici. L’esilio emotivo che pervade il romanzo è l’amara conseguenza della Strapaesanità di allora e non una invenzione.


*eutòcico agg. [der. di eutocia] (pl. m. -ci). – In medicina, detto di parto che si svolge normalmente (Treccani)