Seguici su https://quarantasettelibrocheparla.com/

La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

25/11/2022

Jake La Motta, Toro scatenato

Forse sembrerà un testo inadatto alla giornata contro la violenza sulle donne, invece credo che Toro scatenato, autobiografia di Jake La Motta portata sullo schermo da Robert De Niro nel film di Martin Scorsese, sia utile anche sotto questo aspetto. Il pugile di origine italiana ha avuto ben sette mogli, e le ha picchiate. La violenza non è educativa ma genera altra violenza: in questo senso, sì, la storia di questo straordinario pugile cresciuto in condizioni disagiate è a suo modo illuminante. Ce ne parla Andrea Brattelli.

"Quanto a De Niro, che cosa posso dire? Ero io, in quel film c'era il La Motta originale. Al cento per cento."



L’ adattamento cinematografico operato da Martin Scorsese del libro Toro scatenato, autobiografia di Jake La Motta, è la rappresentazione viscerale di uno degli individui più oscuri che abbia mai combattuto su un ring. Neppure Hollywood però è stata capace di mettere in scena tutto il materiale scioccante racchiuso nel suddetto romanzo, ovvero resoconti dettagliati della vita di un pugile afflitto da rabbia interiore e insicurezze, di un uomo la cui natura autodistruttiva ha rovinato l’esistenza di tutti.

Il suo lato oscuro però gli ha permesso di diventare non un semplice campione ma una leggenda che sopravvive allo scorrere del tempo. La sua sete di violenza e la sua rabbia sfrenata hanno definito il suo approccio vorticoso al combattimento all'interno del “quadrato”, mentre il suo ribollente odio per se stesso gli ha permesso di resistere ad alcune delle punizioni più brutali che un combattente abbia mai dovuto sopportare. "Ho combattuto come se non meritassi di vivere", aveva esclamato il campione in un'intervista del 1970 con Peter Heller. "Ho preso punizioni inutili quando stavo combattendo. Non me ne rendevo conto, ma, inconsciamente, stavo cercando di punirmi."

Anche se non giustifica le sue azioni violente al di fuori del ring, l’opera in questione ci pone una prospettiva sulle forze esterne che hanno plasmato il mostro: l'estrema povertà, il padre violento e la natura senza amore della sua educazione. "Colpiscili prima. Colpiscili forte con mani e piccone se ce ne è bisogno"; questo era l’insegnamento impartito dal padre per fargli capire come comportarsi con coloro che gli davano fastidio. Negli anni a venire, Jake usò solo la violenza come primo e unico modo per controllare ciò che lo circondava.

Un giorno arrivò quasi ad uccidere un allibratore durante una lite. Come molti altri crimini e atti atroci di La Motta, questo fatto in futuro trasmutò in uno dei tanti demoni che hanno torturato l’atleta per tutta la vita. La sua esistenza infestata dai ricordi passati e miserabile era ulteriormente gravata dal fatto che egli era praticamente incapace di esprimere i suoi veri pensieri e sentimenti con chiunque, tanto meno di pentirsi per gli atti che credeva lo rendessero un animale e al di là di ogni redenzione.

Ci suona quindi una barzelletta il fatto che il primo ad introdurre il giovane nel mondo del ring fu Padre Joseph, di cui nel film non si fa neppure un accenno. Il sacerdote rappresentò la figura paterna che Jake non aveva mai avuto; nonostante i numerosi sforzi accorati, anche il prete però non riuscì a penetrare l'armatura del pugile perché, quest’ultimo, non si fidava di nessuno.

Suo fratello lo tenne lontano dai guai e dalle grinfie della Mafia, che gestiva il racket delle scommesse clandestine in questo campo. Il campione dei pesi medi però, alla fine in galera ci entrò e gli unici pugni che diede, da allora in poi, scaturiti da un corpo stanco e in sovrappeso, furono quelli al muro della cella.

Raging Bull come libro fornisce tutti i dettagli sordidi e grafici che il film semplicemente non può fornire in una rappresentazione profondamente avvincente di una delle icone più celebri della boxe. L'effetto sul lettore potrebbe essere pura repulsione per la natura vile e brutale delle azioni di Jake: lo stupro, la violenza, la misoginia. Per coloro che scelgono di approfondire la psiche contorta di La Motta e, oserei dire, tentare di entrare in empatia con il suo tormento interiore, Toro scatenato li trascinerà lungo una delle strade più oscure verso un supplizio che probabilmente non hanno mai sperimentato.

18/11/2022

Lolita di Vladimir Nabokov

Andrea Brattelli stavolta ci parla di un libro che non ha bisogno di presentazioni talmente è controverso, pur rientrando tra i capolavori della letteratura: Lolita di Vladimir Nabokov, storia di un pedofilo che nutre una morbosa passione per una ragazzina dodicenne. Alle riflessioni di Andrea che condivido pienamente aggiungo che troppo spesso la mancanza di empatia verso le donne molestate arriva da altre donne, e che molte molestie non vengono riconosciute come tali ma considerate complimenti: pensiamo al catcalling, al gesto della mano morta ecc.; analogamente, l'abuso di minori stenta spesso a essere riconosciuto.

Lolita di Nabokov racconta una storia declinata alla passione amorosa distruttiva tra un adulto e una ragazzina adolescente. Il rispettabile protagonista è davvero innamorato oppure è posseduto da una voglia insana che cerca di giustificare con una prosa sublime?

Si corre il rischio, in qualità di lettori , di essere ingannati come Lolita da Humbert.

Di sicuro l’opera non può essere annoverata tra i “romanzi rosa”: non è una tenera storia d’amore; piuttosto, per certi versi, assume le caratteristiche di un giallo in cui il movente è passionale. Il quarantenne infatti progetterà in maniera strategica l’uccisione della madre della fanciulla per avere campo libero con quest’ultima.

Ci si accorge lentamente che la prosa a tratti confusionaria non rispecchia una cattiva traduzione dello scritto dalla lingua originale o incapacità stilistiche da parte dell’autore, così come non si mira ad analizzare dal punto di vista freudiano la mente di una persona evidentemente malata; semplicemente in questo modo il narratore ci mostra come Humbert sia opportunamente equivoco per evitare di rendere evidente la sua passione spregiudicata e approfittatrice nei confronti della minorenne fingendo di esserne innamorato, per strappare in questo modo alla comunità una nota di biasimo piuttosto che di orrore.

Sono rimasto stupito come una storia di abusi su minori grazie a uno stile narrativo scherzoso possa passare come un racconto quasi normale. Gli intenti dell’uomo sono chiari sin dall’inizio ma durante lo sviluppo della trama si patteggia per lui e con lui: egli sembrerà un genio incompreso e ci sentiremo sinceramente dispiaciuti per lui, alla fine.

Lo stupore, in seguito, ha lasciato lo spazio in me per una riflessione che si basa sull’analisi di fatti contemporanei. Il motivo per cui non sembra che sia così grave che un adulto desideri carnalmente una minorenne è lo stesso per cui di solito, ancora oggi, tendiamo a incolpare le donne vittime di abusi sessuali e, di conseguenza, loro non denunciano gli stupri.

Penso infatti che, in definitiva, la mancanza di empatia per le donne spieghi perché le persone tendono a incolpare le vittime, oltre al fatto che, parallelamente, vi è maggiore empatia per i molestatori uomini.

Statisticamente i resoconti sulle molestie sessuali si concentrano ancora troppo spesso sul punto di vista degli aggressori uomini e sul potenziale danno alla loro vita che può provocare una denuncia per violenza. Dunque tutti, inclusi gli uomini, dovrebbero essere consapevoli che la loro empatia nei confronti dell’aggressore può aumentare la probabilità di incolpare le donne. E questa situazione continua ancor oggi a rendere molto difficile, per le donne molestate sessualmente, farsi avanti a denunciare e riuscire a ottenere una giustizia vera e propria.

11/11/2022

Il tamburo di latta di Gunter Grass

Andrea Brattelli alle prese con Il tamburo di latta, capolavoro geniale e grottesco che attraverso un "uomo piccolo" racconta la grande tragedia nazista e lo fa in modo grottesco, a partire dalla scelta del manicomio. Dalle quattro gonne della nonna di Oskar al racconto dell'assalto al Palazzo delle Poste, Gunter Grass intreccia la denuncia sociale con la narrazione di una tragedia personale e familiare.



Prima di accingermi a recensire Il tamburo di latta, data la complessità del romanzo, propongo un elenco dei personaggi principali:

 Oskar (protagonista)

 Anna Bronski (nonna)

 Joseph Koljaiczek (nonno)

 Jan Bronski – cugino e amante di Anges Koljaiczek (madre di Oskar)

 Alfred Matzerath (padre di Oskar)

 Maria Truczinski (seconda moglie del padre e primo amore di Oskar)

 Kurt (fratellastro o, forse, figlio di Oskar – quest’ultima ipotesi è improbabile)

 Il Clown

 Roswitha Raguna (Nana)

 Sigismund Markus (proprietario di un negozio di giocattoli)

 Fajngold (mercante ebreo)


Quest’opera è la prima della trilogia di Danzica che comprende anche Gatto e topo e Anni di cani ed è ambientato nel suddetto distretto urbano durante la Seconda Guerra Mondiale (prima, durante e dopo di essa).

Come tutte le famiglie borghesi del periodo anche quella del protagonista Oskar Matzerath, che narra gli eventi in prima persona, sta subendo gli effetti nefasti del nazionalsocialismo e della guerra.

Il suddetto ragazzo, ormai trentenne, è in un sanatorio; ha le prospettive di vita di un bambino e si sente represso nel suo corpo adulto. Si rifiuta di crescere per protesta contro i tempi che corrono. Osserva intorno a se persone rese seguaci dal regime per pura ignoranza e vittime deluse dalle politiche economiche e sociali.

Quando sin dall’inizio del componimento si mostrano le abitudini della nonna, si descrive il suo odorare leggermente di rancido, si compie una demarcazione netta tra ciò che vi era prima, il sapore delle tradizioni e ciò che si staglia all’orizzonte: l’evoluzione secolare, il mondo agricolo e industriale, il tradizionale e il cosmopolita, il feudale e il postmoderno. Il quadro generale che viene dipinto e che scaturisce dalla mente malata del giovane è sostanzialmente grottesco; si avvicendano scene crudeli, talvolta disgustose miste a immagini poetiche. 

Egli non è un personaggio ben definito ma posso affermare con sicurezza che è una canaglia, che si dimostra in maniera sovente malvagio. Il suo infantilismo è un modo per manipolare le persone più adulte della sua famiglia e cela la sua ignavia. Per questo motivo viene ignorato, e il tamburo è il mezzo con cui prova ad affermare la sua esistenza scandendo a colpi di bacchetta i suoi cambiamenti di umore.

Con il suo strumento di latta, regalatogli al suo terzo compleanno, trasforma in ritmo i pensieri che gli balenano nel cervello e le scene che i suoi occhi scrutano. Cerca, con il frastuono, di far scappare le angosce e di richiamare a sé i buoni propositi: tutte le sue riflessioni, le congetture frutto di lunghe meditazioni ballano insieme, in quei momenti, in un valzer infernale.

Alcune scene risultano assurde perché partorite dalla mente di un malato psichiatrico: i periodi che le descrivono risultano prolissi, non si capiscono e la scorrevolezza della lettura quindi ne risente. Il fatto che Oskar parli in prima persona non aiuta date le peculiarità del personaggio; è difficile immedesimarsi in lui.

Il romanzo in realtà non si può neppure definire tale: è piuttosto un collage di storie diverse popolate da molti personaggi le cui vicende si snodano nell’arco di tempo su più livelli. Lasciate che la scrittura e la narrazione vi colgano, tenetevi stretto il foglietto con i nomi appuntati che vi ho segnalato all’inizio di questa mia recensione (non so bene se definirla così questa volta) e fregatevene, letteralmente, di tutte le comparse che si avvicenderanno; non dovete necessariamente ricordarvi tutto di loro, non sono essenziali nella comprensione delle dinamiche del racconto.

Allegorie e simbolismi suscitano stupore e penso che Gunter Grass abbia meritato il Nobel perché è riuscito molto bene nel mistificare il male, non per volontà politica ma per licenza poetica, per ammettere tramite un testo letterario le proprie colpe in un periodo che lo ha visto protagonista. Ciò che a volte leggendo ci suscita un sorriso seppur aspro o amaro in realtà dovrebbe provocarci un copioso lacrimare. Nel mondo di allora inconsapevoli persone auto referenziatisi illuminate erano chine nello scrutare da un ideale spioncino* le vicissitudini degli altri mentre un governo scellerato dietro di loro compiva delitti … il popolo non immaginerà che da quella fessura altri osserveranno altri esseri umani morire.

* Se leggerete il libro dopo questa mia recensione mi direte il perché dell’uso di questa metafora, in base a quale avvenimento descritto nell’opera l’ho scelta.

04/11/2022

Pet Sematary di Stephen King

Concludo questa prima settimana di novembre con un nuovo contributo di Andrea Brattelli che, pochi giorni dopo la Commemorazione dei Defunti, ci regala questa bella recensione di uno dei romanzi più profondi di Stephen King: Pet Sematary. Le analogie con il soggetto di Zeder di Pupi Avati (che però uscì negli stati Uniti solo nel 1984, mentre la prima edizione italiana del libro di King è del 1985) sono evidenti e il mistero che avvolge questa similitudine contribuisce a rendere ancora più affascinante l'idea di un terreno che ha la facoltà di far risorgere chi vi viene seppellito.



Talvolta il dolore causato dalla perdita di un famigliare può occupare gran parte della nostra esistenza. Le malattie possono annientare la mente e il fisico del malato tanto che, quando passa a miglior vita, per coloro che gli sono stati accanto ciò rappresenta un sollievo. Ma di coloro che rimangono vivi a contemplare le macerie del tempo impiegato nel cercare di salvare la persona amata cosa ne resta?

Le nostre anime e i nostri pensieri non è detto che in qualche modo sopravvivano all'esperienza della morte: potrebbero anche non farlo. La fede che cerca di spingerci nel vedere un futuro migliore e il ricordo di ciò che ci è capitato non sono la stessa cosa e cozzano addirittura.

Quando il protagonista della vicenda, il Dottor Louis Creed si trasferisce per lavoro dalla città di Chicago in una zona rurale del Maine insieme alla sua famiglia, non immagina che diventerà un novello Dr. Frankenstein. Egli è il personaggio con cui Stephen King si consuma, più che con gli altri, nello scavargli nell’animo, per fargli uscire fuori tutta la sua parte grottesca dato che, di scelte sbagliate, il nostro “eroe” ne compirà eccome...

La tranquillità della loro dimora in campagna è messa a dura prova dal rumore dei camion che sfrecciano sull’autostrada; enormi vagoni e cisterne su ruote che consumano asfalto, gomme, pazienza degli abitanti del luogo e vite di animali che riposano in un cimitero approntato alla meglio dai loro piccoli padroni (sbagliano anche a scrivere: Sematary invece di Cemetery) lì nei pressi, ma non per questo meno spettrale ed inquietante.

L’utilizzo dei bambini nei film e libri horror è un “tòpos” che funziona sempre. Qui ci verrà descritto un pargolo pallido il cui volto è solcato da venature nerofumo, le unghie non tagliate e i capelli appiccicati alla fronte; alla luce del sole appare per quello che è: malato, affamato e trascurato perché l’amore di un genitore non arriva, per quanto disperato sia, dove la morte lo ha condotto. Cosa si potrà mai fare per lui? Da dove iniziare?

Come l’autore ci fa abituare con parsimonia a tutto ciò che avverrà nella seconda parte del romanzo, descrivendo inizialmente luoghi, personaggi e tristi vicende famigliari passate (con l’utilizzo di flashback) che condizioneranno le scelte delle persone nel presente, anche io, nel mio piccolo, ho raccontato in poche righe la parte iniziale della trama per cercare di persuadere la mente di tutti coloro che ancora non hanno letto il libro e neppure visto il film del 1989 nel capire dove si andrà a parare.

Nella seconda parte dell’opera è il vicino di casa Jud a rubare la scena. Introdotto sin dall’inizio con un buon mix di formule base presenti in tutti gli horror, con ritmi e toni giusti, senza sbavature, egli è l’uomo del luogo, il locale per eccellenza, che filma tutto con i suoi occhi penetranti come una cinepresa che mostra a tutti noi, attraverso il filmato, quanto sia pericoloso avere una villa ed una famiglia con bambini piccoli vicino ad una strada trafficata dove non vige il rispetto per le regole... e non capiamo perché nessuno se ne accorga. Sarà questa disattenzione palese da parte del narratore l’unico difetto del romanzo?

Forse ci viene fatto notare tutto ciò perché propinarci dinanzi lo sguardo un insieme di cose sbagliate ci farà protendere istintivamente a pensare che sicuramente tante fatalità incorreranno durante lo svolgersi della vicenda e ci sarà dolore dove non lo vorremmo e una parte di noi, la più recondita, verrà colta dal panico.

Le storie che ci spaventano ci pongono degli insegnamenti su noi stessi. Forse non sempre questo genere di lezioni sono edificanti, ma penso che in questo caso lo siano; proviamo paura per le cose che ci stanno a cuore.

Probabilmente è sbagliato credere che ci possa essere un limite all'orrore che la mente umana può sperimentare. Al contrario sembra che, in talune occasioni, esponenzialmente l'oscurità cali sempre più in profondità: per quanto poco si voglia ammetterlo, l'esperienza umana tende, in molti modi, a sostenere l'idea che quando l'incubo diventa abbastanza cupo l'orrore genera orrore, un male casuale genera altri mali, spesso più deliberati, fino a quando finalmente l'oscurità sembra coprire tutto e ciò ci dona una sensazione di pace scaturita dal cervello stremato. La domanda più terrificante di tutte potrebbe essere questa: quanto stress la mente umana può sopportare e mantenere, tuttavia, ancora una sanità mentale inesorabilmente sveglia?

01/11/2022

Le scrittrici della notte, a cura di Loredana Lipperini

Ogni tanto torno anch'io a scrivere e oggi, per la ricorrenza di Ognissanti, ho pensato di parlarvi di un'antologia uscita circa un anno fa per Il Saggiatore: Le scrittrici della notte, curata da Loredana Lipperini.

La scrittrice e conduttrice riesuma (letteralmente!) dal passato letterario alcune scrittrici italiane più o meno conosciute e ne svela le sfumature più inquietanti, in un’antologia che dà lustro a un genere, quello fantastico, che meriterebbe maggiore considerazione da chi lo vede come qualcosa di secondario o come “valvola di sfogo eccezionale” di grandi letterati, perdonabile solo se di contenuto considerato intellettuale; e lo fa scardinando allo stesso tempo il pregiudizio sulla cosiddetta “letteratura al femminile”: che non è (e non era) solo sospiri d’amore e rose rosse, ma anche rantoli e crisantemi.

Nella prefazione, Lipperini ricorda: "C’è uno strano equivoco che, specie negli ultimi anni, coinvolge il romanzo: pretendere che la letteratura racconti la realtà. Tuttavia bisogna cercare, tramite il fantastico, forme di reincanto, tra cui il confronto, continuo, con il Male."

Non sono racconti horror in senso moderno e splatter quelli che si trovano nella raccolta, ma storie che hanno a che fare con visioni spettrali, sogni e percezioni, ossessioni, morte apparente: in una parola, con la paura dell’ignoto.

I nove racconti sono differenti per posizionamento cronologico e per contenuti, ma accomunati da tematiche macabre. Nell’antologia convivono la letteratura “nera” ottocentesca nelle varie sfumature del gotico di Carolina Invernizio e Marchesa Colombi e del folklore di Grazia Deledda e Matilde Serao; un racconto del 1931 di Paola Masino che risulta estremamente moderno, incentrato su una ragazza che ricostruisce la propria morte; la memoria ancestrale di Gilda Musa (1972); il fantastico immerso nella religiosità popolare di Anna Maria Ortese, la visionarietà di Chiara Palazzolo (2011); ma su tutti emerge il racconto di Paola Capriolo (2020), lento e ammaliante, che narra di un prigioniero dalla colpa misteriosa e di una melodia che diventa un’ossessione.

Perché leggere questo libro? Per assaporare qualcosa di diverso e per celebrare, come scrivevo in apertura, lo scardinamento del doppio pregiudizio sulla letteratura fantastica e sulla narrativa al femminile. Sono molto significative a tale proposito le parole di Ursula K.Le Guin (citate da Lipperini nella prefazione), che ricorda così il suo arrivo al college nel 1947:

“Con tono paterno, il preside del college informò noi ragazze che eravamo lì per imparare a vivere con grazia. Lo diceva a noi, una manciata di pazze intellettuali sgraziate piene di passione, avide di tutto ciò che il college poteva darci: e avremmo dovuto star lì per imparare le buone maniere, comportarci da signore, apparecchiare la tavola con gusto, versare il tè? Per fortuna il college ci ha dato una formazione eccellente, preparando almeno alcune di noi a capire come e quando rovesciare il tavolo e la caraffa del tè. E per quali motivi.”

Per quanto mi riguarda, questa antologia mi ha fatto conoscere Marchesa Colombi (pseudonimo di Maria Antonietta Torriani, protofemminista con Anna Maria Mozzoni e scrittrice rivalutata solo negli anni '70 grazie all'interesse di Natalia Ginzburg e Italo Calvino) e Gilda Musa, pioniera della fantascienza italiana; e mi ha fatto riscoprire la grandezza di Paola Masino, che ha condiviso con Massimo Bontempelli la vita, la scrittura e l'esilio negli anni del fascismo.