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La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

30/04/2021

Theodore Dreiser, Nostra sorella Carrie (1900)

Andrea Brattelli ci parla del romanzo d'esordio di Theodore Dreiser, pubblicato nel 1900 (in Italia arrivò solo nel 1951). Titolo importante nel panorama del realismo americano, all'epoca fu giudicato immorale e fortemente osteggiato.


Fu Dreiser stesso, figura tra le più rappresentative e controverse del Naturalismo Americano, scrittore fecondo, a indicare quali fossero gli scopi che si era prefissato con questo romanzo, Nostra sorella Carrie.

Il libro in questione non vuole essere un saggio, bensì un quadro delle condizioni della società dipinto con precisione e, al contempo, semplicità: ciò sembra un ossimoro, ma quest’ultimo è l’unica figura retorica che rappresenti al meglio le contraddizioni dei primi del '900. 

L’impegno profuso nel forgiare quest’opera, l’ambizione dello storico, lo sforzo di documentarsi fissando concretamente luoghi e atmosfere affinché rimangano impresse per sempre nella memoria del lettore, sono qualità che fanno sì che lo scritto rappresenti una tappa fondamentale della narrativa americana. 

Ciò che descrive Dreiser nel romanzo è quasi tutto vissuto in prima persona: la storia di Carrie ricalca quella di sua sorella Emma; le delusioni di colui che dalla campagna si sposta in città per trovare lavoro sono le stesse provate da lui in gioventù.

Con metodo scientifico, con un approccio puramente fisico, tipico del Naturalismo, lo scrittore ha saputo risalire dal particolare al generale, all’universale; seppe fare di questa risma di esperienze private una parabola della vita americana, il ritratto cupo e possente di un’epoca solcata da tragedie e mitizzata.

La struttura del libro è alquanto rudimentale: rivela l’ingenuità del principiante (questo è il suo primo lavoro) e la sua poca cultura. I passi in cui l’autore si intromette a commentare delle scene e delle azioni sono rari esempi di cattivo gusto: cliché ottocenteschi e trite effusioni sentimentali mal contestualizzate. 

Le situazioni vengono accumulate come prodotti materiali che fanno capo alla speranza, spesso non delusa, che l’effetto di insieme giustifichi i dettagli. Il ritmo del romanzo pone le sue fondamenta sui contrappunti: desideri e frustrazioni, successi e sconfitte si alternano quasi a suggerire il carattere fluido e instabile dell’esperienza. 

Questa estrema semplicità, la qualità elementare del rapporto che Dreiser ha con la realtà sono talvolta assai efficaci nell’esprimere l’essenza di un mondo informe, convulso e in continua trasformazione. La vita non ha struttura e direzione, non sceglie Lei per Noi.

L’autore individua i personaggi del racconto prima di tutto dall’esterno, dai modi, dai gesti e dall’abbigliamento. L’ aspetto psicologico è invece trascurato. Le azioni dei nostri eroi sono dettate dalle circostanze e non hanno una chiara coscienza delle proprie possibilità. 

Dreiser non li giudica né riconduce se stesso verso qualche impegno sociale: non ha alternative da proporre, non vuole dimostrare alcuna tesi. L’ascesa di Carrie, il suo insaziabile desiderio di emergere, è energia e forza vitale allo stato puro.

26/04/2021

Il nucleare sovietico

In occasione dell'anniversario del disastro di Černobyl', Andrea Brattelli ci parla del nucleare sovietico.

Bibliografia: Stalin sconosciuto, Il Primo Cerchio, Divisione Cancro, I racconti di Kolyma, scritti della giornalista Goleusova, dei fratelli Medved, documenti segreti CISE, appunti del professor Golovin, della dottoressa Guskova. I detenuti di Kolyma furono impiegati negli scavi per l'approvvigionamento di uranio dalle miniere e persero la vita a migliaia.



L'era Atomica Sovietica ebbe inizio il 27 Novembre del 1942. Il primo ingente quantitativo di uranio estratto nella regione del Tabosar fu classificato il codice (segretissimo) 2542SS.

Il comitato per l'estrazione dell'uranio (GKO) era composto da:

1. Igor Kurcatov - Direttore dell'intero progetto

2. Molotov - Vicepresidente

3. 18 scienziati, chimici e fisici

4. 450 studenti

Primo approvvigionamento su cui lavorare: 4 tonnellate di pitcheblende con 40% di uranio.

Problemi iniziali: i giacimenti di uranio al confine tra Tadzikistan, la repubblica uzbeka e la repubblica di Kirghisa erano distanti 450 chilometri dall'impianto di arricchimento.

Il reale contenuto di uranio metallico era pari solo ad un decimo dell'1%: ciò stava a significare che per ogni tonnellata di concentrato di uranio al 40%, bisognava consegnare all'impianto circa 2000 tonnellate di minerale.

Fu costituito così il Kombinat n.6, un complesso di impianti unificato (firma di Stalin 15 Maggio 1945).

Il capo del progetto fu il colonnello (subito promosso a Generale di brigata) Boris Cirkov.

Alla fine del 1947 il Kombinat n.6 era composto da sette impianti di arricchimento dell'uranio riforniti da 18 miniere.

La forza lavoro era composta da 2295 prigionieri tra i quali vi erano ingegneri arrestati e deportati con accuse infondate. Per esigenze di costi la manodopera aveva così un costo molto basso/nullo. Data la mortalità alta si stima che il numero di prigionieri che lavorò in quelle miniere fu di oltre cinquantamila.

Alla fine del 1950 le miniere d'uranio dell'Asia Centrale stavano producendo l'80 % di tutto il materiale di uranio estratto in Unione Sovietica. I lavoratori/prigionieri morivano lavorando, in modo da tener segreto anche tutto ciò che era legato al programma nucleare sovietico.

Ai detenuti che già lavoravano in miniera si aggiunsero anche quelli del gulag di Kolyma perché nel 1946 proprio lì si erano scoperti altri giacimenti di uranio.





Come si otteneva, praticamente, l'uranio dalle rocce? (esempio impianto di Butugycag):

La tecnica era quella della centrifugazione: il materiale di uranio veniva triturato con enormi macine, trasformato in una pasta in sospensione acquosa e inviato alla centrifuga. Le particelle di materiale con una più alta concentrazione di uranio, che è la sostanza più pesante che si trovi sulla superficie terrestre, precipitano più rapidamente. Dopo vari riprocessamenti, il concentrato di uranio viene sottoposto ad essiccatura. In questo modo venivano estratti anche altri minerali (oro e nichel ad esempio).

Le bombe atomiche venivano costruite e custodite in un insediamento a 75 chilometri dalla cittadina di Arzamas (Arzamas 16).

Nel 1951-53 furono scoperti altri giacimenti di uranio in zone più accessibili: Ucraina (Krivorozsk), nella sponda orientale del Mar Caspio ecc.

Tratteremo ora i gulag nucleari che sono diversi dai gulag di uranio, dove veniva estratta la materia prima e di cui abbiamo parlato fino ad ora. Come accennato in precedenza, qui lavoravano detenuti in possesso di lauree in ingegneria, fisica e chimica; non vi erano reclusi privi di titoli di studio come nei gulag di uranio dove era necessario solo l'approvvigionamento di manodopera basso costo. A questi detenuti di alto profilo professionale venivano affiancati altri scienziati che lavoravano per il Governo.


Come si ottiene l'uranio per le bombe atomiche?

L'uranio naturale di deve separare negli isotopi 238 e 235. Solo l'isotopo 235, che costituisce appena lo 0,7% degli isotopi dell'uranio naturale è adatto per la produzione di un'arma nucleare.

Quando un neutrone colpisce il nucleo dell'uranio 235, ne provoca la scissione inducendo l'emissione di due, o a volte tre, neutroni liberi, e l'intero processo assume il carattere di una reazione a catena esplosiva in accelerazione. E' necessaria però una massa critica, perché in presenza di una piccola quantità di uranio, un gran numero di neutroni emessi dalla disintegrazione del nucleo sfuggono nello spazio circostante e non collidono con i nuovi nuclei.

Il modello della prima bomba all'uranio è quindi relativamente semplice: un'onda esplosiva viene usata per creare viene usata per creare una fusione istantanea di due o tre quantità "sub-critiche" di uranio 235 per produrre un'unica massa "critica" o "supercritica", che contiene nel suo centro una fonte di neutroni, un innesco.

I calcoli dimostrano che la "massa critica" di uranio 235 corrisponde grossomodo a 25-40 chilogrammi. Per isolare questa quantità di uranio 235, fu inventato un processo di diffusione gassosa all'esafluoruro di uranio. Ai tempi il procedimento comportava la perdita di tato gas; era necessario quindi disporre di diverse tonnellate di uranio puro.

La massa critica del plutonio invece è molto inferiore. Il plutonio però si produce con un processo più complesso che comporta la disintegrazione controllata dell'uranio 235 in un reattore. I neutroni che vengono emessi sono "assorbiti" nel nucleo di uranio 238 formando, mediante la comparsa di plutonio 239 in una reazione intermedia, il nucleo di plutonio 239 con una "screziatura" di plutonio 240. Per avviare una reazione a catena, un reattore industriale che impieghi la grafite come moderatore di neutroni richiederebbe come minimo circa 150 tonnellate di uranio naturale.

Nonostante ciò Kurcatov decise di iniziare il programma armi nucleari sovietico con una bomba al plutonio piuttosto che all'uranio. A causa della carenza di uranio, questa sembrava l'approccio migliore. Quando l'uranio "esaurito" viene scaricato dal reattore, il contenuto di uranio 235 (dopo l'isolamento del plutonio) è appena lievemente più basso che all'inizio del processo, con una riduzione dallo 0.71% allo 0.69%.

Tale uranio quindi, una volta rigenerato in un impianto radiochimico, può ancora servire per materia grezza per le bombe all'uranio. L'uranio rigenerato però contiene molti contaminati radioattivi e quindi la lavorazione per le bombe è molto più pericolosa. Un impianto del genere si trovava a Verch - Nejvinsk, nella regione di Sverdlovsk.



Già nel 1951 erano 2098 i lavoratori ai quali fu diagnosticato avvelenamento da radiazioni e che morirono di patologie legate ad esse.
Circa 124.000 persone che vivevano presso il fiume Teca vennero contaminate dall'inquinamento radioattivo.

Il primo incidente grave a Celjabinsk-40 avvenne nel 1949. Numero di vittime: sconosciuto.

Circa 150 tonnellate di uranio erano state caricate nel primo reattore industriale. L'8 giugno 1948 questo fu portato in fase critica e il 22 giugno raggiunse la potenza prevista di centomila chilowatt. I reattori destinati alla produzione di plutonio erano di fabbricazione più semplice di quelli realizzati per produrre elettricità.

Nei reattori destinati alla produzione di energia la formazione del vapore avviene in condizioni di alta pressione, mentre i reattori militari hanno bisogno solo di acqua per raffreddare i blocchi di uranio. Le piccole sbarre cilindriche di uranio, 37 millimetri di diametro e 102,5 millimetri di altezza, sono coperte da un sottile rivestimento di alluminio. Vengono caricate in tubi di alluminio che hanno diametro interno di poco superiore ai 40 mm e un'altezza di circa 10 metri. Questi, a loro volta, vengono incamiciati con la grafite. La funzione della grafite è quella di rallentare i neutroni durante la reazione a catena ma un processo simile si ha solo in condizioni asciutte.

La reazione a catena della fissione dell'uranio 235 ha inizio quando il reattore è stato caricato con circa centocinquanta tonnellate di uranio naturale. L'acqua che circola all'interno dei tubi di alluminio evita il surriscaldamento dei blocchi di uranio in seguito al processo di fissione o all'accumulo di radionuclidi ad alta temperatura.

Ai tempi c'erano nel reattore Celjabinsk 1124 tubi nel primo reattore, contenenti circa 40.000 blocchi di uranio. Durante la reazione a catena della fissione dell'uranio 235 i neutroni, rallentati dalla grafite, generano plutonio 239 dall'uranio 238.

A seconda delle condizioni operative del reattore, il processo di accumulazione del plutonio può protrarsi per oltre un anno.

La configurazione del reattore permette di scaricare i blocchi di uranio dai tubi di alluminio in una cisterna d'acqua sottostante. Dopo l'immersione in acqua per alcune settimane i blocchi possono essere trasferiti nell'impianto radiochimico.

Quando si utilizza l'alluminio per questo tipo di reattori, questi deve essere innanzitutto anodizzato altrimenti, come accadde, si rovina e l'acqua iniziò a bagnare la grafite.

L'impianto fu spento ma si decise di cercare di salvare l'uranio ancora utilizzabile e le camicie di alluminio ancora intatte.

Le radiazioni scaturite da queste manovre portarono alla morte di molti operai e dirigenti del progetto nucleare sovietico che dovevano sovraintendere alle operazioni. Lo stesso Kurcatov morì. Il numero di morti, si pensa, fu lo stesso di quelli degli abitanti di Černobyl'.

23/04/2021

Libero Bigiaretti, Il Congresso

Anche questa settimana Andrea Brattelli ci parla di un libro dimenticato. L'autore è Libero Bigiaretti (1905-1993), scrittore poeta e traduttore che "si è fatto da solo".



Il Congresso si potrebbe definire la biografia di una generazione, il romanzo centrale di tutta la produzione di Bigiaretti.

La storia sentimentale, che forse evolverà in grande amore, tra una donna ed un uomo entrambi di successo, al cospetto di una Italia trainata negli anni '60 da grandi industrie del Nord, non ha in sé nulla di particolarmente connotante.

La novità del racconto sussiste nell’aver fatto confluire ad un solo esito saggistico, d’impossibilità o di “impasse” psicologica, due registri di per sé tanto divergenti: quello pubblico e quello privato.

Non ci interessa di sapere fino a che limite l’autore possa o voglia riconoscersi nella cartella personale del suo alto funzionario d’azienda; forse poco, forse per niente; ma, d’altra parte, vi si identifica quasi in accezione esistenziale – civile, nel senso di un’autobiografia e di un destino “generali” che, in quanto tali, non possono non essere anche strettamente privati.

E infatti quel dirigente d’azienda ha partecipato sotto al fascismo all’esperienza fascista dei “Littoriali”, ha creduto totalmente e totalitariamente (è il caso di scriverlo) alla letteratura come vita e, divenuto comunista, ha ceduto alla cultura industriale.

Egli ormai non crede più in nulla e men che meno alla sua ambigua professione di sociologo intermediario tra l’imprenditore e l’operaio: in nome di cosa? Di due culture estranee tra loro?

L’uomo nuovo tanto agognato non è nato e rimane quello antico stratificato in fallimenti.

L’intervento al congresso del protagonista maschile sarà un lucido atto d’accusa contro quel paternalismo industriale che pur gli consente una vita agiatissima; ma è un impulso d’amore che lo spinge a quel passo, per distinguersi agli occhi della donna che ha incontrato (anche lei dirigente aziendale), con la certezza che la suggestione di un atteggiamento anticonformista farà breccia nel suo cuore.

Il merito di Bigiaretti sta nel non lasciar tregua al personaggio, nel non sovrapporre mai un’autobiografia personale e intenerita alla propria intenzione critica. L’astuzia del gioco psicologico è tutta nel sorprendere il protagonista negli attimi di una sincerità sterile che non lascia alla pietà. Ne risulta un impasto narrativo assai mobile secondo il quale lo scatto di registro tra la voce dell’uomo disilluso e ormai “senza qualità”, che è lo scrittore stesso alla luce della propria vicenda storica, e la voce del cinico e del calcolatore che è il protagonista del libro, istituisce un discorso che, pur apparendo calmo e perfino neutro da un punto di vista stilistico, produce un esito nuovo proprio sul piano letterario in nome di un’eccezionale capacità di aderire (con la confessione) e di rifiutarsi (con l’accusa) ai termini di una narrativa autobiografica.


20/04/2021

Bella figura di Yasmina Reza

"Sapete perché si fanno tintinnare le coppe? Perché, al tempo in cui non sl faceva niente con moderazione, le persone risolvevano i loro problemi avvelenandosi. Dunque, per precauzione, quando uno t’invitava e ti serviva del vino, tu sbattevi il calice contro il suo — all’epoca erano di metallo — sperando che qualche goccia svolazzasse passando dall’uno all’altro. Dopo, vi guardavate negli occhi e tu aspettavi che lui bevesse per primo."




«Quello che mi interessa è osservare la musica dei comportamenti, e riprodurla» ha affermato Yasmina Reza. E in questo Bella figura (nato direttamente per il teatro e poi pubblicato in Italia nel 2019), di musica ce n’è tanta.


Siamo nel parcheggio di un locale, dove una donna accusa l’amante di aver scelto per il loro incontro un ristorante che gli è stato suggerito proprio dalla moglie. Rimproverandogli il cattivo gusto di un tale comportamento, lo spinge a cambiare posto; ma lui, facendo manovra, investe un’anziana. L’incidente non è serio, tanto che la signora si rimette in piedi senza problemi; ma si trova lì con il figlio e la nuora che è una cara amica della moglie del traditore…


Questo brillante spunto iniziale dà la possibilità a Reza di mostrarci l’impegno dei personaggi nel cercare di fare “bella figura”, mantenendo le buone maniere anche in una situazione che non è uguale per tutti: a seconda di chi la osserva appare infatti comica, sgradevole o catartica. Come già accadeva in Il dio del massacro, il pezzo forte della storia è rappresentato dalle conversazioni dove l’ipocrisia si scontra con le frecciatine. L’unico personaggio realmente positivo è quello dell’anziana signora, mentre gli altri - tutti insoddisfatti, per motivi diversi - si fanno prendere dalle nevrosi. 


Il vero protagonista di questo dramma teatrale non è però tanto l'ipocrisia o la falsità del contegno che ci imponiamo per darci un tono con gli altri - chiunque di noi può ritrovarsi nei panni dei vari protagonisti: un piccolo imprenditore sull'orlo del fallimento, una donna carismatica e intelligente relegata al ruolo dell'amante, un uomo che vorrebbe ma non può e la bacchettona di turno - quanto l'amara verità sull'insoddisfazione che nascondiamo a noi stessi tutti i giorni in una routine che ci castra ma dalla quale non riusciamo a smarcarci, per convenienza o per la paura di ritrovarci ancora più soli.

16/04/2021

Edward Dahlberg, Le acque del Flegetonte

Nella recensione di questa settimana, Andrea Brattelli ci fa riscoprire un libro autobiografico di Edward Dahlberg: The confessions of E. D. (1971), pubblicato in Italia l'anno successivo con il titolo Le acque del Flegetonte. Dahlberg è uno scrittore statunitense nato nel 1900 e cresciuto in orfanotrofio, affermatosi negli anni Trenta ma tradotto in italiano solo nel 1967; le sue opere erano sempre al confine tra narrativa e autobiografia.



Quando nel 1963 Edward Dahlberg pubblicò la sua rovente autobiografia Because I Was Flesh la critica americana rivalutò, seppur tardivamente, questo scrittore. 

Egli fu allevato con fatica a Kansas City dalla madre barbiera la quale fondò, nel primo decennio del XX secolo, lo “Star Lady Barbershop” situato nell’ottava strada ad est, in un quartiere brulicante di truffatori, predicatori vaganti, prostitute ma frequentato anche da onesti commercianti.

Le fatiche patite durante l’infanzia l’autore le rivela da adulto, nel suo volto solcato da Lazzaro e possono scorgersi le sofferenze scrutando i suoi occhi, metafora di turbolenze dello spirito.

Al Realismo Sociale delle sue prime opere, che mira a richiamare l'attenzione sulle reali condizioni socio-politiche della classe operaia come mezzo per criticare le strutture di potere dietro queste limitazioni e che rivela le tensioni tra una forza egemonica e oppressiva e le sue vittime (schiavi neri), Dahlberg con questo scritto antepone ai suddetti temi una prosa ritmica, grandiosamente barocca, lampeggiante di metafore e di riferimenti biblici.

Tutto ciò si rivela praticamente tramite la descrizione del paesaggio: la crescita economica robusta dopo la Guerra, quando si comprese che il Kansas tramite la ferrovia era diventato un punto centrale per lo scambio merci; il bestiame, il grano, il legname, parti di rotaie. Le vestigia del boom e della speculazione edilizia del 1880 si osservano ancora oggi: forme colossali e massicce; alterazioni delle proporzioni, forme plastiche, predilezione per le linee ricurve, le composizioni spaziali complesse, il sapiente uso della luce naturale.

Questo libro autobiografico mostra i rapporti di amore e diffidenza verso i classici che tramite una tessitura fittissima di citazioni sono tenuti insieme come in un “collage”. Continui rimandi ironici ed autoironici, teneri e furenti, fanno convivere Ben Johnson, Plotino, Tolstoj, Ovidio, Rousseau, Baudelaire, Chaucer.

I virtuosismi stilistici vengono spruzzati letteralmente sulle pagine bianche come colori misti su tela e il tutto, a volte, durante la lettura, risulta stucchevole.

Sembra che Edward volesse dimostrare che, nonostante le fatiche per studiare, il suo sapere e la sua conoscenza della letteratura fossero simili a quelle di Anderson, Caldwell, Dos Passos, Hemingway, Lawrence dai quali però ricevette parziali stroncature. Questo “mobbing” ante litteram pare riflettersi nel suo modo di scrivere a tratti eccessivamente virtuoso che genera solitudine ismaelica come se il suo battere a macchina avesse creato un deserto tutto intorno; sussulti generati pigiando i tasti talmente violentemente da sgretolare il mondo creato nella sua mente.

I suoi tentativi di "punzecchiare" i suoi nemici, reali o immaginari, fanno sembrare Dahlberg troppo ostile e rancoroso, schiavo delle rimostranze che ha nutrito nel corso degli anni, annotate come il padrone di una miniera che minuziosamente ne chiosa i profitti.

Edward è uno scrittore potente ma rappresenta, credo, la fine di qualcosa, non un inizio. In particolare, rappresenta la fine di quella tendenza letteraria moderna a eludere le responsabilità della storia nell'interesse di mitizzare ogni esperienza. 

Nel suo saggio su Il mito e la casa del potere (The Myth and the Powerhouse, 1965), Philip Rahv discute del modo in cui il mito promette soprattutto di guarire le ferite del tempo e questa è una descrizione abbastanza esatta del motivo centrale di altri scritti di Dahlberg. L'ironia consiste, ovviamente, nel fatto che in tutte le sue violente denunce di scrittori moderni, Egli si è fermamente rifiutato di riconoscere la sua essenziale affinità con la tradizione di cui è uno degli ultimi ornamenti eroici.

Leggere Dahlberg è un'esperienza di canottaggio dura, da non prendere alla leggera: si preoccupa non solo del mondo in generale, ma - con la massima veemenza - di se stesso.

09/04/2021

Emilio Lussu, Un anno sull'altipiano

Oggi Andrea Brattelli ci parla di Un anno sull'altipiano di Emilio Lussu: un libro ben diverso da altri che normalmente gli vengono accostati, come accade ad esempio con i testi di Remarque; vediamo perché.


Leggendo questo libro sembra di sentire ancora il battere dei tasti della macchina da scrivere, pigiati freneticamente dalle dita dell’Ufficiale di Fanteria Emilio Lussu, mentre viene incalzato a gran voce e con insistenza da Gaetano Salvemini, che gli chiede di spalancare la porta dei ricordi per portare a compimento e fargli trovare sulla scrivania in ciliegio un classico della letteratura di guerra, che trasudi di fatica nell’essere redatto, mostri gli stenti dei soldati in guerra e, al contempo, riveli le ragioni etico – politiche del conflitto, dei nodi che comporteranno in futuro il crollo dello zarismo, l’intervento statunitense negli affari europei, la nascita del nazismo e del fascismo.

Non è facile per un reduce mettere in scena tutti questi temi: l’unico modo per riuscirci è affidarsi al sarcasmo e ad una narrazione molto diretta, senza alcuna sicumera perché l’orrore della guerra si fa strada nell’animo di chiunque e fornisce nelle mani di tutti un regolo calcolatore  per misurare l’orrore; non risparmia neppure i Generali e i Colonnelli la cui morte in seguito a colpi di arma da fuoco non ha nulla di pietoso o romantico perché seppure ci si è arruolati con convinzione e per degli ideali, affrontando con ardore il pericolo,  la paura dei combattimenti e degli scontri ha disegnato un ghigno indelebile sul volto dei caduti.

In quest’opera i fatti e le vicende, i comportamenti dei partecipanti e delle comparse sono interpretati così sul vivo che sembrano stenografati al momento. Le riflessioni partorite ci pongono dinanzi ad un romanzo storico che poco ha a che vedere, secondo il mio parere, con altri libri di Barbusse, Remarque, Hemingway; piuttosto assomiglia, questo scritto, ad uno dei trattati del Prof. Mario Silvestri, il migliore tra gli storici della Prima Guerra Mondiale o di Panzini, Jahier, Saba, Ungaretti, Slataper.

Il caos generato dalla “Grande Guerra” genera un fallimento morale nell’animo del protagonista e coprotagonisti dell’opera.

La fresca e immediata aderenza ai fatti ci fa repentinamente correre con la mente ai massacri del Piave, del Grappa, dell’Isonzo lasciando aderire la nostra anima al vissuto ma senza offrirci una tesi ideologica.

Come un'epigrafe, questo simil diario colpisce nel segno e ci apparirà sempre memorabile.

02/04/2021

I racconti di Katherine Mansfield


Questa settimana Andrea Brattelli ci parla dei racconti della scrittrice neozelandese.
Si suol dire che per apprezzare scrittori russi come Čechov o Dostoevskij è imprescindibile aver provato “dolore” nella propria vita. La sofferenza ci aiuta a capire e quindi ci rende capaci di sviscerare tutti gli aspetti, le sfaccettature, di una immagine reale, seppur non viene messo in scena, dinanzi ai nostri occhi, nulla di particolare o originale. In sintesi questo è ciò che riesce ad evocare nella mente del lettore la Mansfield con i suoi brevi racconti: con la sua penna tratteggia interessanti, semplici e piacevoli aspetti della vita quotidiana conditi di un sano verismo.

La scrittrice neozelandese soffrì molto, anche a causa della tubercolosi che la condusse presto a “miglior vita”. Ispirata anche dallo scrittore russo Čechov, spronata dalla Woolf , iniziò a scrivere e pubblicare storie brevi.

La città ma, in modo particolare, la campagna vengono letteralmente dipinte come se Katherine avesse tra le mani un pennello, al posto di una stilografica, per dipingere ad acquerello. Le scene prendono vita e i personaggi brulicano immergendosi nel loro vivere quotidiano come nei quadri dei macchiaioli. La lettura dei suoi scritti infonde tranquillità ma vi è una sorta di apatia che impedisce all’atmosfera di farsi più frizzante, nonostante tra le pagine della raccolta sembra soffiare un vento primaverile che le anima.

Si nota palesemente come, durante la produzione, la mente della Mansfield vaghi a ritroso rimembrando gli orrori passati e ottenebrata dalla paura del presente: la scomparsa del fratello in guerra morto per dissanguamento, le ore passate in ospedale per curare la tubercolosi con rimedi all’epoca truci… Il cielo descritto nelle sue opere brevi è sempre coperto… Conclusioni di storie che non arrivano mai, come quando qualcuno interrompe il tuo lavoro di scrittore bruscamente, urlando che devi fuggire per evitare l’inferno…

La scrittrice quindi sembra ripiegare sulla leggerezza e non ha scritto storie complesse per essere poi migliorate a più riprese, dato che la sua salute precaria esige, durante la giornata, stili di vita che non contemplano il lusso della scrittura.
I discorsi dei personaggi sussurrano alle nostre orecchie, passando per gli occhi che leggono tra le righe e la nostra mente che metabolizza, passano quindi sì attraverso i nostri sensi ma sembrano sempre bisbigliati o giunti a noi come un racconto di chi è solito origliare dietro le porte auscultando il battito della quotidianità.

Sta a noi lettori capire che se la vita ha senso, questo fine non consiste e non coesiste con la felicità ma si deve far riferimento ad un qualcosa di più intelligente e grande.

Infine, per certi versi, Katherine Mansfield mi ricorda l’ermetica italiana Antonia Pozzi, con la sua prosa asciutta che conferisce peso alle immagini. La crisi di un’epoca si intreccia nelle loro tragedie personali che tracimano sommergendo la poetica stessa.