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16/04/2021

Edward Dahlberg, Le acque del Flegetonte

Nella recensione di questa settimana, Andrea Brattelli ci fa riscoprire un libro autobiografico di Edward Dahlberg: The confessions of E. D. (1971), pubblicato in Italia l'anno successivo con il titolo Le acque del Flegetonte. Dahlberg è uno scrittore statunitense nato nel 1900 e cresciuto in orfanotrofio, affermatosi negli anni Trenta ma tradotto in italiano solo nel 1967; le sue opere erano sempre al confine tra narrativa e autobiografia.



Quando nel 1963 Edward Dahlberg pubblicò la sua rovente autobiografia Because I Was Flesh la critica americana rivalutò, seppur tardivamente, questo scrittore. 

Egli fu allevato con fatica a Kansas City dalla madre barbiera la quale fondò, nel primo decennio del XX secolo, lo “Star Lady Barbershop” situato nell’ottava strada ad est, in un quartiere brulicante di truffatori, predicatori vaganti, prostitute ma frequentato anche da onesti commercianti.

Le fatiche patite durante l’infanzia l’autore le rivela da adulto, nel suo volto solcato da Lazzaro e possono scorgersi le sofferenze scrutando i suoi occhi, metafora di turbolenze dello spirito.

Al Realismo Sociale delle sue prime opere, che mira a richiamare l'attenzione sulle reali condizioni socio-politiche della classe operaia come mezzo per criticare le strutture di potere dietro queste limitazioni e che rivela le tensioni tra una forza egemonica e oppressiva e le sue vittime (schiavi neri), Dahlberg con questo scritto antepone ai suddetti temi una prosa ritmica, grandiosamente barocca, lampeggiante di metafore e di riferimenti biblici.

Tutto ciò si rivela praticamente tramite la descrizione del paesaggio: la crescita economica robusta dopo la Guerra, quando si comprese che il Kansas tramite la ferrovia era diventato un punto centrale per lo scambio merci; il bestiame, il grano, il legname, parti di rotaie. Le vestigia del boom e della speculazione edilizia del 1880 si osservano ancora oggi: forme colossali e massicce; alterazioni delle proporzioni, forme plastiche, predilezione per le linee ricurve, le composizioni spaziali complesse, il sapiente uso della luce naturale.

Questo libro autobiografico mostra i rapporti di amore e diffidenza verso i classici che tramite una tessitura fittissima di citazioni sono tenuti insieme come in un “collage”. Continui rimandi ironici ed autoironici, teneri e furenti, fanno convivere Ben Johnson, Plotino, Tolstoj, Ovidio, Rousseau, Baudelaire, Chaucer.

I virtuosismi stilistici vengono spruzzati letteralmente sulle pagine bianche come colori misti su tela e il tutto, a volte, durante la lettura, risulta stucchevole.

Sembra che Edward volesse dimostrare che, nonostante le fatiche per studiare, il suo sapere e la sua conoscenza della letteratura fossero simili a quelle di Anderson, Caldwell, Dos Passos, Hemingway, Lawrence dai quali però ricevette parziali stroncature. Questo “mobbing” ante litteram pare riflettersi nel suo modo di scrivere a tratti eccessivamente virtuoso che genera solitudine ismaelica come se il suo battere a macchina avesse creato un deserto tutto intorno; sussulti generati pigiando i tasti talmente violentemente da sgretolare il mondo creato nella sua mente.

I suoi tentativi di "punzecchiare" i suoi nemici, reali o immaginari, fanno sembrare Dahlberg troppo ostile e rancoroso, schiavo delle rimostranze che ha nutrito nel corso degli anni, annotate come il padrone di una miniera che minuziosamente ne chiosa i profitti.

Edward è uno scrittore potente ma rappresenta, credo, la fine di qualcosa, non un inizio. In particolare, rappresenta la fine di quella tendenza letteraria moderna a eludere le responsabilità della storia nell'interesse di mitizzare ogni esperienza. 

Nel suo saggio su Il mito e la casa del potere (The Myth and the Powerhouse, 1965), Philip Rahv discute del modo in cui il mito promette soprattutto di guarire le ferite del tempo e questa è una descrizione abbastanza esatta del motivo centrale di altri scritti di Dahlberg. L'ironia consiste, ovviamente, nel fatto che in tutte le sue violente denunce di scrittori moderni, Egli si è fermamente rifiutato di riconoscere la sua essenziale affinità con la tradizione di cui è uno degli ultimi ornamenti eroici.

Leggere Dahlberg è un'esperienza di canottaggio dura, da non prendere alla leggera: si preoccupa non solo del mondo in generale, ma - con la massima veemenza - di se stesso.

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