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La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

27/08/2021

Le ricerche del professor Shogo Nagaoka

Questa settimana, Andrea Brattelli ricorda il terribile mese di agosto del 1945 e delle bombe atomiche che dilaniarono il Giappone. In particolare, Andrea ci porta a Hiroshima e parla di un geologo, il professor Shogo Nagaoka, che attraverso lo studio delle rocce indagò le manifestazioni radioattive dell'esplosione che colpì Hiroshima. A lui si deve l'apertura, nel 1949, della prima esposizione pubblica dei materiali residui dell'esplosione. Nel 1955 venne aperto un museo dedicato, l'Hiroshima Peace Memorial Museum con Shogo Nagaoka come primo direttore, con la collaborazione dei residenti di Hiroshima nella raccolta dei materiali. Il memoriale è stato più volte ampliato e rinnovato nel corso degli anni ed è ora Patrimonio dell'umanità UNESCO.


Shogo Nagaoka è stato il fondatore del Museo di Hiroshima in cui sono depositati oggetti e rocce di vario genere che si rovinarono o bruciarono del tutto o parzialmente dal momento in cui furono scaraventati dell'esplosione della bomba atomica lontano dalle abitazioni, estraniati per sempre dalla quotidianità, via dalle vite dei loro proprietari.

Dato il caos generato dalla violenta esplosione, considerata la novità sulla tipologia di attacco militare e l'inconsapevolezza delle persone in materia di nucleare, dovuta all'oscurantismo adottato dalle nazioni che lavoravano ai progetti atomici, i giapponesi erano allo sbando.

Il geologo Shogo Nagaoka, inviato il 7 agosto a Hiroshima, designato dal Direttivo di una Task Force per comprendere l'entità dei danni e le conseguenze di un attacco atomico, si accorse subito che tra le precauzioni da prendere vi era quella di iniziare a sfollare le persone via dalle zone contaminate, separandole dai loro oggetti radioattivi, impedendo loro di ingerire cibi e acque contaminate.

Lo scienziato infatti, sedendosi per riposare qualche minuto dal viaggio fino a Hiroshima, notò di non sentirsi bene. La pietra su cui si era adagiato presso il Santuario di Gakoku era diventata radioattiva.
Egli calcolò quindi l'ipocentro, ovvero la proiezione verticale, sulla superficie della Terra, del punto in cui era avvenuta la detonazione in atmosfera. Lo fece misurando le dimensioni del raggio di superficie nella quale delle persone investite dall'esplosione era rimasta solo polvere sul terreno. Il raggio era di due chilometri.*

Nelle rocce e pietre da costruzione, Shogo Nagaoka riscontrò concentrazioni specifiche di isotopi radioattivi di 226Ra, 232Th. Le concentrazioni di attività di 232Th, 226Ra e 40K nei campioni di tufo, riolite e quarzo selezionati variavano rispettivamente da 18 a 178, da 6 a 160 e da 556 a 1539 Bq kg-1. Fu riscontrato del cobalto-60 in pietre per affilare con forte presenza di zolfo (Enshou 烟硝 - traduzione "Gunpowder") e nei leganti di varie pietre per affilare (feldspati) e materiali da costruzione.

I suoi studi sulla radioattività servirono, come quelli compiuti da Rutherford, a determinare anche l'età delle rocce. Tutt'oggi si stima il tempo trascorso da quando queste subirono l'ultima trasformazione chimica. Si determinano le quantità relative di un isotopo radioattivo a lunga vita e del prodotto finale stabile nella catena di disintegrazione, che sono presenti in un campione. 

Un approccio più raffinato è fornito dal confronto tra il contenuto di elio nella roccia e la presenza di uranio nella stessa. In ciascuna disintegrazione alfa nella catena di decadimento si produce un nucleo di elio, e, se si è sicuri che l'elio non è sfuggito dall'interno della roccia, si può stimare quanti atomi di uranio si sono disintegrati da quando si è formata la roccia. Le rocce più antiche che compongono la crosta terrestre hanno circa 3x10^9 anni. Si tratta comunque di un limite inferiore dell'età della Terra, perché in passato la crosta ha subito molte mutazioni chimiche.

I giapponesi studiarono in questo modo anche le meteoriti, che hanno un'età di circa 4,6x10^9 anni. Esse si sono cristallizzate nello stesso periodo di tempo in cui si sono formati gli altri corpi del sistema solare.

Shogo Nagaoka si occupò anche dello studio di varie trinititi, ovvero dei residui vetrosi creati dalla fusione di silicio e feldspati saldati dal calore in seguito alla violenta esplosione della bomba. La sabbia risucchiata all'interno della palla di fuoco, durante la deflagrazione, si trasforma in vetro liquido, piove dall'alto verso il basso e una volta che ha toccato terra dopo un lasso di tempo ridiventa solida.* 

*Dalla sua analisi si può notare che la metà dell'energia si consumò nell'innescare una potentissima onda di pressione, un vento cinque volte più intenso di quello che si può originare in un violento uragano, che a velocità supersonica (oltre 1500 km/h) si allontanò dall'ipocentro (così è chiamato, usando una terminologia sismica, il punto sulla superficie terrestre collocato sulla verticale del punto dell'esplosione) spazzando via ogni cosa per circa due chilometri e lasciando il vuoto nella sua scia. 

L'impressionante velocità di questo vento caldissimo era ancora 1000 km/h a 500 metri dall'ipocentro, e 300 km/h a un chilometro e mezzo. Agli effetti distruttivi di questa onda d'urto diretta vennero poi a sommarsi quelli dovuti al ritorno dell'aria che, dopo lo svuotamento iniziale della zona, si precipitò indietro, rifluendo verso il centro dell'esplosione e abbattendo ciò che miracolosamente era rimasto ancora in piedi. Vennero in tal modo rasi al suolo 12 km2 della città e si stimò in circa l'80% il grado di distruzione delle costruzioni.

La seconda manifestazione dell'energia sviluppatasi nell'esplosione fu il calore. La temperatura più alta al suolo fu raggiunta proprio sotto il punto di esplosione, dove si stima abbia superato l'impressionante valore di 3900 gradi centigradi. L'enorme calore fu in grado di sciogliere le tegole in ceramica delle case entro un raggio di 500 metri dall'ipocentro. Gli abitanti di Hiroshima che si trovavano entro un raggio di 2 chilometri dal centro dell'esplosione ebbero i vestiti letteralmente bruciati dalla vampata.

Ma la componente più subdola (sia perché invisibile, sia perché quasi totalmente sconosciuta) fu il restante 15%, vale a dire l'energia racchiusa nelle radiazioni. Nell'esplosione, infatti, si originarono radiazioni Alfa, Beta, Gamma e di tipo neutronico, e se le componenti Alfa (nuclei di elio) e Beta (elettroni o positroni emessi dai nuclei radioattivi) vennero assorbite dall'aria e non raggiunsero il terreno, non così fu per le radiazioni Gamma (radiazione elettromagnetica) ed i neutroni, che seminarono tra la popolazione il loro carico di morte.

E se l'effetto dell'onda d'urto e del calore provocò in pochi istanti 70.000 vittime, ben 130.000 saranno coloro che, per anni e anni ancora dopo l'esplosione, moriranno tra atroci sofferenze a causa delle conseguenze delle radiazioni.

20/08/2021

Il giorno della locusta di Nathanael West

Ancora una volta, Andrea Brattelli rispolvera un nome che pur avendo avuto un forte impatto sulla storia della letteratura non viene menzionato spesso tra i grandi: in questo caso si tratta di Nathanael West (vero nome Nathan Weinstein, 1903-1940), figlio di ebrei russi emigrati negli Stati Uniti alla fine dell'Ottocento. West scrisse solo quattro romanzi prima di morire a 37 anni, insieme alla moglie, per non essersi fermato a un semaforo. In questo suo ultimo libro, Il giorno della locusta (1939), feroce satira della Hollywood anni Trenta tutta lustrini e vuoto interiore, emerge la grande conoscenza che West, anche sceneggiatore (sua la scrittura de Il sospetto di Alfred Hitchcock), aveva del mondo del cinema. West fu ammirato da W. H. Auden, Francis Scott Fitzgerald (che definì Il giorno della locusta «Il più bel romanzo mai scritto su Hollywood») e Dorothy Parker e venne considerato un innovatore del linguaggio; in Italia fu tradotto da grandi autori come Carlo Fruttero. Curiosità: Matt Groening chiamò Homer Simpson proprio in onore di uno dei personaggi de Il giorno della locusta. Il romanzo è diventato anche un film diretto da John Schlesinger, nel 1975.
 


In un clima di austerità creatosi a seguito della Grande Depressione all’inizio del XX secolo in America, l’uscita di questo libro sembra l’ultimo baluardo possibile per avere un po' di conforto e di evasione dai problemi.

Scritto in un linguaggio ricco di inventiva che non viene reso bene nella traduzione italiana se non nelle ultime pagine che magistralmente vengono messe in scena anche nel film tratto dall’opera letteraria, le peculiarità dei personaggi vengono sottolineate da gesti e atteggiamenti dai caratteri farseschi.

Proprio per questo motivo i protagonisti sono in antitesi con la tipologia di scrittura del romanzo ed è compito del lettore capirne la psiche.

Questo meccanismo porta ad immedesimarsi nelle situazioni e nelle scene: siamo spettatori inermi che osservano cercando di non farsi pestare i piedi da persone, comparse dei film e attori di bassa lega vuoti nell’animo come i set abbandonati dopo le scene che si agitano per tutta la narrazione. Voci stridule ci rimbombano nella testa; ci accarezziamo la fronte e il nostro sguardo, coperto dalla nostra mano, per un momento non penetra più lo spazio circostante, come quando distogliamo l’attenzione da un film dell’orrore per non guardare certe scene che ci incutono terrore. L’immaginazione comunque fa il suo corso fino ad arrivare alla catarsi.

I miei riferimenti non sono un caso, infatti West sceglie la Hollywood del 1939 come ambientazione per il suo scritto, quando i lungometraggi venivano girati per essere mostrati al grande pubblico che voleva sfuggire alla realtà e circhi di pagliacci grotteschi e cowboy ballavano e galoppavano su un paese deperito.

I sogni è in questa città che vanno a morire, con un tocco di glamour in un paesaggio sfarzoso descritto senza fronzoli.

Le pallide imitazioni offerte dalle varie maschere di Hollywood sono rese ancora più ceree dalle guance incipriate che nascondono il pallore dovuto allo stress che si prova nell’essere risucchiati da una fiorente industria cinematografica.

Noi lettori invece assorbiamo i prodotti di una società che ha generato i propri personaggi grotteschi e causato un doppio processo di alienazione, il nostro e il loro, alla luce del bagliore verde dei biglietti da un dollaro.

Mentre il romanzo raggiunge la sua frenetica fine, il protagonista si ritrova fuori dal Persian Palace Theatre, ore prima della proiezione di un film che presto uscirà nelle sale. Un pensiero gli balena nel cervello come un’epifania e con un riso sardonico tanto quanto le riflessioni di Coleridge sulla creatività predice e scandisce una frase: "Alla vista degli eroi e delle eroine, la folla diventerebbe demoniaca."

17/08/2021

Non morire di Anne Boyer

Non morire di Anne Boyer (nata a Topeka nel 1973), Premio Pulitzer 2020, è un racconto sulla non-morte della scrittrice. Che è anche poetessa: e si percepisce, ad esempio quando parla del letto come di un luogo di amore e di riposo ma che richiama anche un'idea di morte, citando John Donne.


Il titolo originale, The Undying: Pain, Vulnerability, Mortality, Medicine, Art, Time, Dreams, Data, Exhaustion, Cancer, and Care, è un indice dei contenuti di questo libro che è allo stesso tempo un diario, una riflessione sul sistema sanitario statunitense e un manuale di letteratura sul cancro.

Non mancano infatti riflessioni tratte da pagine di grandi scrittori: figura ricorrente, la prima a essere citata, è quella di Susan Sontag, che fu colpita dal cancro in tre momenti diversi e morì a causa di questo male, descrivendolo in modo incredibilmente acuto nel libro Malattia come metafora (1977).

Anne Boyer scopre, una settimana dopo il quarantunesimo compleanno, di avere un cancro al seno altamente aggressivo: triplo negativo. La scrittrice sottolinea la particolarità del cancro alla mammella rispetto ad altri tipi di tumore: è femminile, deforma il corpo, attacca una parte legata all’estetica e all’identità, così come i capelli che se ne vanno con la chemio. Anche il personale delle strutture ospedaliere e dei padiglioni (che sono "luoghi di transito" letterale e metaforico) è spesso femminile, a replicare il lavoro di cura spesso invisibile svolto tra le mura domestiche. Le altre donne malate sono da invidiare (se stanno meglio) o da temere quando peggiorano.

Un altro aspetto è quello della malattia largamente mediata dal digitale: a iniziare dall’autodiagnosi e dalla ricerca dei dati relativi alla sopravvivenza; e poi gli esami stessi, nei quali la paziente viene sottoposta a scansioni e “letta” dalle macchine; e ancora il web dei falsi malati, di quelli che “il cancro è un’invenzione di Big Pharma”, dei sostenitori di improbabili terapie alternative che si pentono (agghiaccianti i commenti sotto i video delle persone decedute) e dei feticisti del cancro.

Boyer pone poi l’accento sull’industria sanitaria statunitense privata, con polizze che spesso non coprono le terapie necessarie. La chemioterapia, che debilita tanto il cancro quanto la persona nel quale il male si è generato, si addentra nel corpo tramite il port, dove però si infiltra anche la trita retorica del think positive nel tentativo di camuffare il dolore (anche attraverso il trucco, le parrucche e gli abiti sgargianti) e quella ancora più triste della “guerra da vincere”, quasi a farne una responsabilità personale in caso di morte. La retorica del “f***ulo il cancro” è sbagliata, perché il cancro è parte del corpo. L’atteggiamento è tutto? Provate a dirlo a chi ha l’ebola, provoca Boyer.

Questo libro, che mi pare tradotto in modo davvero rimarchevole da Viola Di Grado, è anche un insieme di sigle, termini e diagnosi; ma è soprattutto una prosa che colpisce l’immaginazione anche con immagini inaspettatamente poetiche. La storia della malattia non è la storia della medicina: è la storia del mondo, dice Boyer. Rifiutare la chemioterapia significa morte certa; farla è sentirsi morire ma, spesso, riuscire a vivere, anche se mai completamente risanate. E nel frattempo, infragilite e trasformate, bisogna trovare la forza per tornare a lavorare.

Concludo dicendo che sarebbe difficile trovare una parte “preferita”, tra queste pagine tutte coinvolgenti. Il concetto più interessante è forse quello della malattia come rivoluzione. Mentre l’idea più struggente e poetica al tempo stesso è quella legata al tempio delle lacrime di Giulietta Masina: un “luogo di pianto pubblico… dove tutti i bisognosi di lacrime potessero riunirsi e piangere in buona compagnia e con un equipaggiamento adeguato”, che Boyer aveva sognato di creare prima di ammalarsi.

Boyer vuole lasciare anche un messaggio di speranza: la sofferenza non è (o meglio, non lo è necessariamente) il contrario della bellezza. E se, parafrasando Emmanuel Lévinas, la sofferenza è inutile, Boyer ci ricorda che è quanto si dice anche della poesia. Dunque, ci può essere poesia anche nel dolore.

13/08/2021

William Golding, Il Signore delle Mosche

Con Il signore delle mosche (scritto nel 1952, pubblicato nel 1954 e diventato un successo grazie all'edizione statunitense), l'inglese William Golding - futuro premio Nobel - esordisce nella letteratura con una storia che, ispirata dal clima di terrore della Guerra Fredda, sarà alla base di adattamenti cinematografici e di numerosi omaggi e saccheggiamenti, al cinema e in letteratura. Ecco la recensione di Andrea Brattelli.




Nel 1954, ovvero in piena Guerra Fredda, William Golding scrive Il Signore delle Mosche partorendolo dalle viscere della Seconda Guerra Mondiale.

Le allegorie e il significativo simbolismo comprensibili facilmente da chiunque hanno reso quest’opera molto popolare perché ha permesso a tutti gli insegnanti di impartire lezioni ai ragazzi sui conflitti che ci potrebbero essere realmente in una qualsiasi civiltà.

Nel romanzo viene descritta l’organizzazione di una gerarchia tra ragazzi su di un’isola, dopo che questi sono scampati alla morte in seguito allo schianto del velivolo sul quale viaggiavano.

Inizia così, dopo l’incidente, la scioccante storia di sopravvivenza di questi adolescenti, che all’inizio sono molto felici di essere padroni di un’isola dove poter fare ciò che vogliono senza le ingerenze degli adulti.

Ralph, uno di loro, viene eletto all’unanimità leader e Piggy diventerà il suo braccio destro.

Nel loro nuovo habitat regna la pace, il caotico mondo degli adulti in cui gli impegni si susseguono non esiste più, ma Jack, un altro giovane, inizia a manifestare atteggiamenti di gelosia e a compiere cattiverie e qualcosa nella storia inizia a cambiare in maniera sinistra.

Per tutti i pochi mesi che i fanciulli sono sull’isola si mettono in discussione le decisioni e l’operato di Ralph, Piggy e Jack. Alla fine l’innocenza andrà perduta e la vita dei ragazzi non sarà più la stessa.

La storia di sopravvivenza è una metafora provocatoria e ritmata da varie azioni che ci insegna tre aspetti fondamentali della natura umana:

1. L’essere umano vuole essere libero dal sistema in cui si trova ma, necessariamente, per sua comodità e per prevalere su altri esseri come lui cercherà prima di creare ordine sociale e politico attraverso i governi, legislature e parlamenti e poi ad insidiarsi nei loro ranghi più alti.

2. Alla base del raggiungimento dei suoi fini l’uomo quasi sempre pone violenza e ferocia.

3. Quando non riesce in qualcosa, l’individuo depone le armi, si batte il petto dinanzi ad una divinità costruita ad arte a sua immagine e somiglianza (ma solo per convenienza), sperando così di risolvere finalmente i suoi problemi e assurgere alle sue smanie di grandezza, e poi inizia di nuovo con le sue abitudini di sempre.

Gli esseri umani adulti sopra descritti vengono considerati dai ragazzi come coloro che dissuadono i loro figli dall’inseguire i sogni perché per realizzarli bisogna affrontare le proprie paure e nulla poi fa più male di un desiderio non realizzato.

Nonostante la storia narrata sia semplice, durante la lettura di questo scritto non è facile definire bene chi sia il buono e il cattivo, ma la domanda in realtà non dovrebbe essere chi è il protagonista e chi è l’antagonista, bensì che cosa significhi essere immorale ed essere malvagio.

10/08/2021

Febbre di Jonathan Bazzi

Finalmente riprendo le mie recensioni. E lo faccio parlando di Febbre, del 2019.


Finalista al Premio Strega 2020, l’autobiografia di Jonathan Bazzi colpisce per la sua brutalità. 

Febbre è il racconto di un ragazzo balbuziente, emotivo e omosessuale che non è uguale a nessun altro.

Jonathan si trova suo malgrado a crescere in una città che non ama (Rozzano, chiamata Rozzangeles, il Bronx del Sud, descritta come la terra dei rapper e di poveri tamarri ai limiti della legalità) e con una famiglia tutto fuorché perfetta, ma che ama moltissimo.

L’amore, ma soprattutto la ricerca di esso, fa capolino da ogni singola riga: anzi è ancora più evidente nel susseguirsi di testimonianze di disagio che è l’adolescenza di Jonathan.

Un giorno del 2016 a Jonathan viene la febbre, poche linee ma costanti; una febbre che lo rende stanco, che gli fa venire i brividi quando esce per poi farlo sudare la notte.

La malattia, un tema classico della letteratura, trova qui un moderno aggiornamento con le inevitabili autodiagnosi trovate su Google: Jonathan si convince di avere una malattia incurabile ormai in fase terminale.

La ricerca della verità diventa una comprensibile paranoia: gli esami del sangue rivelano che Jonathan è sieropositivo. Qui il romanzo racconta da vicino che cosa comporta una simile scoperta: la paura di morire, le crisi di ansia.

Ma questo libro non è solo un dramma: è anche un racconto di speranza; c’è una sorta di fatalismo che aiuta a raggiungere una inevitabile quanto matura accettazione della realtà, che non è più quella tragica degli anni Ottanta: oggi l’Hiv si può curare.

Febbre è un libro doppiamente importante quindi, sia per la vicenda umana di un ragazzo che trova una maggiore serenità grazie allo studio e all’affetto di coloro che lo circondano, sia perché può dare conforto ad altre persone nell'accettare con consapevolezza la propria malattia.

06/08/2021

Armance di Stendhal

Andrea Brattelli torna a parlare di Stendhal (qui la sua recensione dei Ricordi di egotismo), stavolta con il suo primo romanzo Armance, pubblicato anonimo nel 1827 e tradotto in italiano per la prima volta un secolo dopo. In questo romanzo viene toccato un dramma interiore in un modo volutamente non esplicito.




Armance è il primo dei romanzi di Stendhal. Si svolge all’epoca della Restaurazione, sotto il regno di Luigi XVIII. Il protagonista è Octave, dotto ventenne di nobile famiglia parigina, affascinante e generoso.

Egli ha tuttavia un carattere lunatico: si confida molto con la madre, preoccupata perché suo figlio preferisce vivere in solitudine e invece col padre è molto riservato e lo contempla mentre è seduto su un divanetto, mentre l’anziano è intento a rimuginare sulle fortune economiche poste in pericolo dalla Restaurazione. 

In quest’era particolare e nei confronti della società in cui vive il nostro pargolo mostra a volte un evidente disgusto, in altre occasioni contrizione e bontà verso persone che frequentano i salotti parigini.

Un giorno incontra, proprio in questi luoghi, una sua cugina, Armance, che gli mostra sincera amicizia e ammirazione. Lei è una povera esule russa e dal momento in cui Octave eredita una ingente somma di denaro iniziano una serie di equivoci amorosi.

In primo piano vengono quindi posti questi due esseri umani singolari, superiori al loro ambiente, in disaccordo tra le loro aspirazioni e la loro posizione nella società.

L’amore che nasce tra questi due esseri è una lotta complicata in se stessa e resa tale per sovrappiù da certi intrighi e da certi eventi accidentali.

Questo conflitto viene studiato con una sagacia sorprendente. Di primo acchito i caratteri possono dare una sensazione di inverosimiglianza che poi si rivela apparente: di pagina in pagina, essi finiscono per mettersi in luce, per affermarsi, per imporsi.

L’impotenza di Octave proietta una luce particolare sull’opera e sulla dissociazione fra sentimento amoroso e appagamento dei sensi.

Il suo difetto organico contrasta con la sua forza passionale così come la sua intelligenza contrasta con i rigidi schemi della casta: Octave e il barone Charlus descritto da Marcel Proust sono la stessa persona; sono la fine di un tipo di razza in uno dei salotti di un regime al suo tramonto.

Per affinità di tematica, chiudo con un riferimento al Bell'Antonio di Vitaliano Brancati che ispirò il film omonimo del 1960 diretto da Mauro Bolognini, con Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale.

Rispetto al romanzo (Brancati morì nel 1954, ma gli fu comunque attribuito il soggetto), la vicenda è spostata di una trentina d'anni, nella Catania dei primi anni sessanta. Le vicende del libro sono sintetizzate e talvolta omesse; inoltre viene sorvolata la critica antifascista presente nell'opera di Brancati e i fatti si svolgono più rapidamente. 

Il film utilizza il tema dell'impotenza sessuale come opposizione verso la mentalità che incarna nella virilità un valore assoluto o, più in generale, un dissenso verso una società che nasconde sotto il fanatismo politico e sessuale un vuoto profondo.

Un tema simile era quindi tabù nell'Ottocento e lo è altrettanto nella società dell'apparenza e del consumismo.