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Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

20/08/2021

Il giorno della locusta di Nathanael West

Ancora una volta, Andrea Brattelli rispolvera un nome che pur avendo avuto un forte impatto sulla storia della letteratura non viene menzionato spesso tra i grandi: in questo caso si tratta di Nathanael West (vero nome Nathan Weinstein, 1903-1940), figlio di ebrei russi emigrati negli Stati Uniti alla fine dell'Ottocento. West scrisse solo quattro romanzi prima di morire a 37 anni, insieme alla moglie, per non essersi fermato a un semaforo. In questo suo ultimo libro, Il giorno della locusta (1939), feroce satira della Hollywood anni Trenta tutta lustrini e vuoto interiore, emerge la grande conoscenza che West, anche sceneggiatore (sua la scrittura de Il sospetto di Alfred Hitchcock), aveva del mondo del cinema. West fu ammirato da W. H. Auden, Francis Scott Fitzgerald (che definì Il giorno della locusta «Il più bel romanzo mai scritto su Hollywood») e Dorothy Parker e venne considerato un innovatore del linguaggio; in Italia fu tradotto da grandi autori come Carlo Fruttero. Curiosità: Matt Groening chiamò Homer Simpson proprio in onore di uno dei personaggi de Il giorno della locusta. Il romanzo è diventato anche un film diretto da John Schlesinger, nel 1975.
 


In un clima di austerità creatosi a seguito della Grande Depressione all’inizio del XX secolo in America, l’uscita di questo libro sembra l’ultimo baluardo possibile per avere un po' di conforto e di evasione dai problemi.

Scritto in un linguaggio ricco di inventiva che non viene reso bene nella traduzione italiana se non nelle ultime pagine che magistralmente vengono messe in scena anche nel film tratto dall’opera letteraria, le peculiarità dei personaggi vengono sottolineate da gesti e atteggiamenti dai caratteri farseschi.

Proprio per questo motivo i protagonisti sono in antitesi con la tipologia di scrittura del romanzo ed è compito del lettore capirne la psiche.

Questo meccanismo porta ad immedesimarsi nelle situazioni e nelle scene: siamo spettatori inermi che osservano cercando di non farsi pestare i piedi da persone, comparse dei film e attori di bassa lega vuoti nell’animo come i set abbandonati dopo le scene che si agitano per tutta la narrazione. Voci stridule ci rimbombano nella testa; ci accarezziamo la fronte e il nostro sguardo, coperto dalla nostra mano, per un momento non penetra più lo spazio circostante, come quando distogliamo l’attenzione da un film dell’orrore per non guardare certe scene che ci incutono terrore. L’immaginazione comunque fa il suo corso fino ad arrivare alla catarsi.

I miei riferimenti non sono un caso, infatti West sceglie la Hollywood del 1939 come ambientazione per il suo scritto, quando i lungometraggi venivano girati per essere mostrati al grande pubblico che voleva sfuggire alla realtà e circhi di pagliacci grotteschi e cowboy ballavano e galoppavano su un paese deperito.

I sogni è in questa città che vanno a morire, con un tocco di glamour in un paesaggio sfarzoso descritto senza fronzoli.

Le pallide imitazioni offerte dalle varie maschere di Hollywood sono rese ancora più ceree dalle guance incipriate che nascondono il pallore dovuto allo stress che si prova nell’essere risucchiati da una fiorente industria cinematografica.

Noi lettori invece assorbiamo i prodotti di una società che ha generato i propri personaggi grotteschi e causato un doppio processo di alienazione, il nostro e il loro, alla luce del bagliore verde dei biglietti da un dollaro.

Mentre il romanzo raggiunge la sua frenetica fine, il protagonista si ritrova fuori dal Persian Palace Theatre, ore prima della proiezione di un film che presto uscirà nelle sale. Un pensiero gli balena nel cervello come un’epifania e con un riso sardonico tanto quanto le riflessioni di Coleridge sulla creatività predice e scandisce una frase: "Alla vista degli eroi e delle eroine, la folla diventerebbe demoniaca."

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