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La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

24/02/2023

Il declino della violenza (The Better Angels of Our Nature), di Steven Pinker

Come anticipato, torna Andrea Brattelli con la recensione di un volume tanto controverso come Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l'epoca più pacifica della storia (The Better Angels of Our Nature: Why Violence Has Declined) dello scienziato cognitivo Steven Pinker, che nel 2011 scrisse questo volume documentando come nel corso della storia la violenza sia diminuita nonostante l'opposta percezione a causa della comunicazione mediale.


Secondo l'Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (SIPRI), negli ultimi quindici anni le spese militari sono cresciute ogni anno e, mentre leggete questa mia umile recensione, si stanno combattendo circa venti guerre. Lungo tutto il XX secolo sono morte oltre 175 milioni di persone a causa di conflitti armati e altre otto milioni per atti di violenza di vario genere. Nonostante ciò lo psicologo di Harvard Steven Pinker sostiene nel suo saggio The better angels of our nature: why violence has declined che vi è stata una drastica riduzione della violenza nel mondo negli ultimi anni; il numero di vittime è in aumento ma anche quello delle nascite e la sopravvivenza nei primi anni di età dei nuovi nascituri è aumentata anche nelle zone più povere del globo: la situazione, quindi, non sarebbe poi così grave.

Se fino ad ora, a ragion veduta, avete pensato che io abbia snocciolato sin troppi numeri a scapito delle parole per arrivare ad analizzare la questione, aspettate che annoveri gli argomenti trattati in quest’opera di 800 pagine le quali possono sembrare tante (troppe) ma che in realtà sono ben poche affinché possano essere trattati approfonditamente temi così importanti; devo riconoscere che Steven Pinker ci è riuscito comunque molto bene.

Le domande che vengono poste (e che troveranno risposte, non sempre plausibili) sono, ad esempio, le seguenti.

Sussiste un legame tra il movimento per i diritti umani e la campagna per i diritti degli animali? Le tendenze aggressive sono ereditabili? Il declino della violenza in alcuni territori potrebbe essere attribuito al cambiamento genetico dovuto al mescolarsi con altre persone di altre nazionalità? In che modo l’intelligenza di un comandante è correlata al maggiore o minore numero di morti in battaglia e nelle guerre? Stiamo diventando più intelligenti? Un mondo più intelligente è un mondo migliore perché costituito da persone migliori?

Nel cercare risposte a questi quesiti dovremmo fare un tuffo nel passato, ristudiando la storia alla luce delle nuove scoperte scientifiche che ci vengono fornite per contestualizzare e analizzare meglio alcuni avvenimenti del secolo scorso. Dovremo attingere alla psicologia, alle scienze cognitive, all’economia e alla sociologia.

La tendenza a migliorare le tecnologie di supporto all’agricoltura, l’ascesa della democrazia e le leggi promulgate a favore dei diritti delle donne, degli omosessuali, dei bambini e degli animali hanno avuto la loro parte di merito nel ridurre la tortura, la schiavitù e le esecuzioni sommarie ed istituzionalizzate.

Lo studioso riconosce che la nostra esperienza immediata di persone comuni potrebbe smentire questi fatti; alcuni lo definirebbero un ciarlatano. Eppure la ricchezza di dati che egli presenta a noi lettori non può essere ignorata a meno che non si voglia considerare la matematica un’opinione; vero è che i numeri andrebbero contestualizzati, ma su questo ci torneremo più avanti, con una mia considerazione.

Il problema in questi casi è il processo psicologico che sta dietro al bias di conferma che talvolta, nel libro, rappresenta anche il tallone di Achille del professor Pinker. La gente presta, sostanzialmente, più attenzione ai fatti che corrispondono alle loro convinzioni invece che a quelli che vanno a minare le loro certezze.

In due lunghi capitoli lo scienziato descrive i processi psicologici che rendono noi umani, a seconda delle situazioni, bellicosi oppure pacifici. Il nostro lato oscuro è influenzato da un retaggio primitivo, da una propensione alla predazione e al dominio del territorio. Questo aspetto negativo del nostro animo è comunque mitigato, o dovrebbe esserlo, dall’autocontrollo che è frutto della nostra evoluzione e della nostra capacità innata di cooperare all’interno di una comunità.

L'evoluzione, sostanzialmente, ha modellato il design di base del nostro cervello e quindi le nostre facoltà cognitive ed emotive. Le circostanze, ovvero se siamo felici o meno di ciò che abbiamo e degli obiettivi raggiunti, unite agli input culturali, determinano le nostre azioni.

Tornando all’antichità, nel volume sono riportati dettagli espliciti ed inquietanti concernenti la condizione delle vittime causate dalle battaglie condotte dagli scimpanzé tra i loro simili, da tempo ritenuti, nel mondo animale, i nostri parenti più prossimi a livello genetico, coloro che forse assomigliano di più ai nostri antenati pur non potendo definirli umani.

Infatti quando gli archeologi scavano portando alla luce antiche tombe, scoprono anche che molte delle persone che giacciono in quei cimiteri sono state chiaramente assassinate, e che i loro scheletri riportano danni causati da morti violente. Lo scrittore quindi sfata completamente l'idea romantica che i nostri avi vivessero in armonia con la natura e tra loro. È una visione eccessivamente rosea del passato che si basa sulla nostra ignoranza: non comprendiamo i progressi che abbiamo raggiunto.

Abbiamo iniziato a smettere di assassinare persone per motivi che oggi definiremmo futili quando abbiamo cominciato a stabilirci in comunità agricole stabili, smettendo di migrare. Dopo l’Illuminismo le forme di governo dei vari paesi iniziarono a diventare meno repressive e, nei restanti due terzi di secolo dopo la Seconda Guerra Mondiale, molte nazioni hanno iniziato a promulgare leggi a favore dei diritti umani.

Riprendendo il caso degli scimpanzé infatti, ciò che Pinker non scrive ma che è stato già studiato, è che le loro comunità hanno iniziato ad espandersi negli anni in cui il clima favorevole ha favorito la crescita di vegetazione e alberi da frutto e, di conseguenza, vi è stata una maggiore quantità di cibo di cui saziarsi. La crescita di numero di individui all’interno dei loro primitivi villaggi ha fatto però esplodere gli episodi di aggressività per la contesa del territorio, degli approvvigionamenti e delle femmine.

Queste uccisioni ugandesi hanno scatenato, sui media internazionali, interpretazioni di “guerre civili primordiali”, ma il termine guerra è una terminologia antropomorfizzante su cui pesano le vicende storiche e culturali che hanno da sempre plasmato aggressività e vicende belliche nella specie umana, e l'ostilità fino all’uccisione tra scimpanzé, mai osservata nei decenni passati, porta a questioni concernenti l'interpretazione di "fare la guerra".

La guerra è la più importante costante della storia della nostra specie, senza la guerra vi sarebbe stagnazione, non ci sarebbe evoluzione, ecco perché l'idea fantasiosa di pace trova i limiti nella realtà e nelle dinamiche naturali che già sappiamo hanno bisogno di conflitto e lotta per evolversi e permettere la vitalità.

Il famoso psichiatra, etologo e premio Nobel Konrad Lorenz già nel 1963 con il suo discusso libro, L'aggressività. Il cosiddetto male, aveva già proposto una lettura evoluzionistica della guerra. Purtroppo in un periodo dove il politicamente corretto cresce con quotidianità queste nuove domande sono relegate, anche in ambito mediatico, ad essere ignorate, censurate o derise.

Tornando al discorso iniziale sui dati “opinabili”, sarebbe bene ricordare che i dati vanno contestualizzati. Essi infatti inseriti in un contesto assumono un preciso significato e si trasformano in informazioni. Le informazioni a loro volta, connesse una all’altra, ci danno conoscenze. I frame sono invece tutte le possibili interpretazioni delle conoscenze. Per essere più espliciti, sempre in riferimento a questo libro, lo scrittore pone sotto esame quasi sempre dei numeri relativi anziché i numeri assoluti nella valutazione della violenza umana. Ma perché dovremmo accontentarci solo di una diminuzione relativa? Secondo questa logica, quando raggiungeremo una popolazione mondiale di nove miliardi nel 2050, Pinker sarà plausibilmente soddisfatto se solo due milioni di persone saranno uccise in guerra quell'anno, sue testuali affermazioni.

Viviamo in un'epoca in cui tutte le regole vengono riscritte in modo molto veloce e in cui un manipolo di persone accecate da folli ideologie (quindi non stiamo menzionando interi eserciti) può causare ingenti danni con bombe nucleari “sporche”. Cosa accade quando si mettono armi di distruzione di massa nelle mani di persone moderne che per molti versi vivono ancora primitivamente, senza rispettare neppure le donne del loro stesso paese che hanno dato i natali ai loro stessi figli? Questo Pinker non lo scrive perché mancano dei dati che ci sarebbero stati se lo stesso scienziato non fosse stato egli stesso vittima del bias cognitivo che non gli ha reso facile la distinzione tra indagine qualitativa ed indagine quantitativa (i primitivi, ad esempio, erano soliti risolvere gli alterchi tra di loro con la clava ma secoli di uso di clave tra interi villaggi non hanno mai causato un numero di morti pari a quelli che ci potrebbero essere in una frazione di secondo a causa dell’uso di un’arma nucleare di piccole dimensioni da parte di pochi estremisti).

21/02/2023

Teppa. Storie del conflitto giovanile dal Rinascimento ai giorni nostri, di Valerio Marchi

Di Teppa avevo già parlato nel 2015 nel mio vecchio blog su Tumblr, Rejected Frogs. Con lo stesso nickname si trova ancora la mia recensione su qualche sito e ho deciso di riproporla e ampliarla qui, perché ho letto nuovamente alcune parti del libro di recente e continuo a ritenerlo valido, oltre che originale e interessante. 


Si tratta di una riedizione Red Star Press, con introduzione di Wu Ming 5, di un volume del 1997 del sociologo Valerio Marchi che illustra in modo sintetico - ma completo a sufficienza - il fenomeno del teppismo, dimostrandone la complessità e anche che non ha una data di origine, e nemmeno se ne prevede una fine.

Non soffermandosi su una categoria specifica come altri testi di Marchi (i musicisti di estrema destra di Nazi-rock e le tifoserie di Il derby del bambino morto), Teppa è un libro che può piacere a tutte le persone che abbiano interesse a comprendere sia la continuità del rifiuto organico all'omologazione, in tutte le sue ramificazioni, sia le manipolazioni appositamente orchestrate dalla cultura dominante e dai media per creare ondate di "moral panic", strumentalizzando le ribellioni giovanili.

Marchi, che ha studiato varie sottoculture dall'interno, offre qui una panoramica della teppa a partire dai "putti" del Cinquecento alle compagnie di vagabondi seicentesche, passando poi alle bande parigine del periodo successivo alla rivoluzione francese; inoltre nelle sue pagine facciamo la conoscenza dei Victorian Boys, dei coatti, dei Teddy Boys, degli hooligans e delle cosiddette baby gang.

Da un punto di vista storico sono poi molto apprezzabili i riferimenti (con citazioni ridotte al minimo indispensabile) ad alcuni episodi poco conosciuti della storia moderna, come lo sterminio dei gatti raccontato da Robert Darnton. Secondo me, Teppa è un libro da leggere assolutamente.

17/02/2023

Amitav Ghosh, La grande cecità

Storie, storia e politica sono le tre parti nelle quali è suddiviso questo libro del grande scrittore indiano Amitav Ghosh pubblicato nel 2016 e giunto in Italia l'anno successivo. Perché la letteratura con elementi fantastici non viene considerata al pari della "letteratura seria", si chiede l'autore? E soprattutto, perché la letteratura "seria" ha censurato la narrazione del cambiamento climatico che da almeno 70 anni (le prime misurazioni risalgono almeno alla metà del XX secolo) stravolgono il nostro pianeta? La Natura è infatti apparsa e tuttora appare spesso in letteratura, ma gli eventi climatici del nostro tempo non rientrano nella categoria "natura elegiaca e romantica".

Per quanto riguarda il primo punto, avevo già parlato del pregiudizio sulla letteratura fantastica nella recensione dell'antologia Le scrittrici della notte, curata da Loredana Lipperini. Per fortuna l'enorme successo di Margaret Atwood sta finalmente contribuendo a cambiare le cose, ma Ghosh ricorda che questo pregiudizio non è sempre esistito, tanto che all'epoca della pubblicazione del Frankenstein di Mary Shelley anche Sir Walter Scott lo accolse positivamente. E allora che cosa è accaduto nel frattempo? La rivoluzione industriale e l'imperialismo.

Le grandi catastrofi sono sempre esistite: Pompei ne è un esempio tristemente famoso. Ma che cosa contraddistingue gli eventi climatici del nostro tempo, si chiede Ghosh? L'improbabilità. Per questo non risulta semplice collocarli all'interno di una narrazione non fantastica (mentre è invece molto più naturale l'aggancio all'interno di una poesia). Eppure gli eventi che accadono nei romanzi surrealisti o del realismo magico non sono surreali né magici: sono spaventosamente reali.

Molto interessante la connessione delineata da Ghosh tra spaesante e perturbante. L'improbabile ci mette in contatto con il non-umano, con la consapevolezza che ci sono fattori esterni in grado di incidere su di noi in modo inatteso, come se l'essere umano fosse manovrato da una forza invisibile. Ma mentre il perturbante in letteratura ha spesso un aspetto umano (ne sono un esempio gli spettri), lo spaesante in natura no. Eppure il contatto tra gli eventi climatici del nostro tempo e l'essere umano c'è, dal momento che quest'ultimo ne è almeno in parte la causa.

Ghosh prende ad esempio la tendenza sviluppatasi a partire dal Seicento di costruire direttamente sul mare/sull'oceano: una fiducia nella "regolarità borghese" che ha preso piede in netto contrasto con l'esperienza dei millenni precedenti che avevano insegnato a cercare luoghi meno esposti alla furia potenziale degli elementi, come se prima di allora l'idea di un evento climatico improbabile fosse universalmente accettata. Nel XVII secolo gli eventi catastrofici esistevano già, ma solo negli ultimi decenni tali cataclismi hanno iniziato a moltiplicarsi: ad esempio i cicloni. Eppure, si continua a evacuare a catastrofe già avvenuta, come se mancasse la cultura necessaria a prevenire al minimo il rischio di simili disgrazie.

Nel 1816 avvenne la famosa eruzione del Tambora che provocò "un anno senza estate": proprio nello stesso anno fu composto Frankenstein. All'epoca era frequente l'interesse della narrativa per le scienze e viceversa. Ma in seguito prese piede la necessità borghese di separare Natura e Cultura (mentre la poesia ha continuato a opporre resistenza). Non mancano le eccezioni, e l'auspicio è che si torni a una comunione che indicherebbe una maggiore consapevolezza di quanto sia importante una visione d'insieme.

Ghosh analizza le cause della situazione attuale: il principale colpevole non è il capitalismo ma l'imperialismo, che ha portato allo sfruttamento di qualunque tipo di risorsa fossile presente sul pianeta. Oggi nella crisi climatica è l'Asia ad avere la parte principale, ma occorre ricordare che ciò dipende dall'alta densità e dall'elevato numero di abitanti; inoltre le potenze asiatiche sono tuttora emergenti dopo secoli di oppressione e controllo da parte delle potenze occidentali che le hanno sfruttate impedendo loro uno sviluppo più regolare, come avvenne ad esempio per la cantieristica navale indiana soffocata dall'Inghilterra. Molto interessante l'approfondimento sulla modernità che non fu prerogativa europea ma globale: è appurato ad esempio che la Cina conosceva i combustibili fossili già mille anni fa e che la Birmania possedeva il petrolio già prima delle guerre con l'Inghilterra, eppure la narrazione eurocentrica fa risalire la prima trivellazione al 1859, in Pennsylvania.

Le problematiche legate al clima sono numerose: da una parte l'innalzamento degli oceani, dall'altra l'abbassamento dei territori sui delta dei fiumi. La cause sono anche geologiche, ma in parte antropiche: le massicce trivellazioni e la costruzione di dighe aumentano il rischio naturale. Altre criticità sono costituite dalla siccità, dalla desertificazione di aree sempre più vaste, dal ritiro dei ghiacciai e dalle conseguenti inondazioni. Attualmente, riflette Ghosh, Bangladesh e Vietnam sono le zone maggiormente a rischio in rapporto alla posizione e alla quantità di persone che dovrebbe emigrare. 

La politica non è in grado di affrontare la situazione in modo uniforme a livello globale e l'emergenza, diventata una "questione morale", si affronta individualmente, mentre i governi con le loro politiche green che hanno molto di facciata e poca sostanza progettano, di fatto, la conservazione dello stile di vita attuale: per invertire la tendenza sarebbe infatti necessaria una riduzione del 90% delle emissioni degli Stati Uniti. Ghosh conclude con un messaggio di speranza, ricordando la crescente sensibilità riguardante il cambiamento climatico anche da parte di numerosi esponenti religiosi; ma i tempi sono ormai ristretti.

"Il denaro scorre verso il guadagno a breve termine", scrive il geologo David Archer, "e verso lo sfruttamento eccessivo di risorse comuni non regolate. Queste tendenze sono come la mano invisibile del fato che nelle tragedie greche guida l'eroe verso l'inevitabile catastrofe". Ed è in effetti questa l'essenza dell'odierna cecità del genere umano.

10/02/2023

La cripta dei Cappuccini di Joseph Roth

Questa settimana, Andrea Brattelli ha scelto Joseph Roth, scrittore nato nell'odierna Ucraina da genitori ebrei e conteso in morte dai cattolici. Il padre soffriva di problemi psichiatrici (così come ne soffrirà la moglie di Joseph, che perirà per mano dei nazisti), la madre morì di cancro ancora giovane. Nei suoi numerosi spostamenti, Roth manifestò tremenda gelosia per le compagne e morì a soli 44 anni per una malattia aggravata dall'alcolismo e dai continui problemi finanziari. Dal punto di vista delle opere, fu particolarmente segnato dalla morte dell'imperatore Francesco Giuseppe e viene ricordato come il cantore funebre dell'impero asburgico. Personalmente consiglio anche La leggenda del santo bevitore, pubblicato postumo.

«Voglio visitare il sarcofago del mio imperatore Francesco Giuseppe» risposi.
«Dio la benedica!» disse il frate, e fece sopra di me il segno della croce.
 


Il lamento di Roth per la perdita dell’impero austro-ungarico si traduce in una storia scritta su più livelli, a volte anche incoerente (non penso per esigenze o virtuosismi stilistici, piuttosto perché lo scrittore era un alcolizzato cronico). Si denota comunque bene il contrasto pre e post Prima Guerra Mondiale, del mondo deludente che il protagonista, Franz Trotta, si è lasciato alla spalle, non avendo più uno scopo per viverci, e quello in cui sta entrando, metaforicamente parlando. 

Incapsulato in un ideale di “nobiltà eroica” cerca di proiettarsi nel futuro ma scivolerà verso l’inevitabile. Egli è comunque più fortunato di altri, non ha perso tutto, qualcosa è riuscito a salvare ma comunque è rimasto inerme dinanzi al soccombere della società; cerca di arrabattarsi per ottenere una riconciliazione almeno momentanea con le persone che lo circondano e la quotidianità in generale. Non riuscirà a ribaltare la situazione e distribuirà amarezza da un paniere ancora caldo. Potremmo, noi lettori, biasimarlo, perché tutti sappiamo quanto siano stati deleteri per le persone gli anni tra le due guerre; non c’è tempo, in questi frangenti, di rivangare un passato svanito in una brezza primaverile come l’udito della madre del nostro personaggio principale.

A seguito di taluni cambiamenti c’è chi, come Francesco Ferdinando, riuscì a mandare suo figlio in Francia per proteggerlo, altri finirono in Siberia costretti ai lavori forzati...

A tal proposito, ho avuto il piacere di notare come Roth sia un maestro della modellazione delle scene in cui riesce a mostrare tutta l’acutezza dei personaggi protagonisti. Nella Marcia di Radetzky (che non è necessario leggere prima di questo romanzo) una sorta di inevitabilità a guisa di spirito guida accompagna le vicissitudini degli umani in preda a débâcle emotiva a causa della loro incapacità di adattarsi alla nuova realtà in netto contrasto con gli abitanti delle campagne, forgiati dalla vita rurale. In quest’opera invece è l’autore stesso che sistema come pedine le varie personalità e le lega come burattini ai fili del fato volta per volta.

In definitiva, a prescindere dai problemi di stesura che hanno minato la convincente trama di questo libro, posso affermare che La cripta dei Cappuccini sia simile al Grande Gatsby in quanto la storia e le persone che ne fanno parte sono una metafora onnicomprensiva di un mondo perduto e di sogni infranti.

03/02/2023

Jonathan Franzen, Crossroads

Lascio subito la parola (anzi: le parole) ad Andrea Brattelli che parla di un autore del quale ho iniziato due romanzi abbandonandoli subito. Vediamo se la recensione del mio socio divoratore di libri mi riporterà verso le "braccia" di Franzen, narratore e saggista.


Il nuovo romanzo di Jonathan Franzen, Crossroads, è il primo di una trilogia. Un tomo rievocativo degli anni ’70, dall’immagine in copertina dai colori caldi che rievocano ricordi di marzapane.

Nonostante la lunghezza, che potrebbe metaforicamente far concepire questo scritto, disquisendo geograficamente, al pari di una città molto vasta, la vera provincia dell'opera di Franzen è molto circoscritta. Il territorio è la famiglia, che si disintegra silenziosamente, e il suo interesse più divorante è il disagio esistenziale che si plasma al suo interno. Lo scrittore concede libertà ai suoi personaggi; una fiducia mal riposta che porterà ad una serie di cattivi eventi che strisceranno alla luce del sole come serpi su un prato.

L’opera è ambientata nella periferia di Chicago. Al centro ci sono gli Hildebrandt, un'altra delle famiglie apparentemente solide del Midwest, luogo ben conosciuto e studiato dal narratore, le cui fondamenta poggiano però su gusci d’uova.

Il tema preponderante è la religione. Nella narrativa di Franzen, le famiglie sono l’emblema del Credo che, sovente, si fonde con la superstizione e sono gli stessi componenti della famiglia ad offrire opzioni e metodi di salvezza fino alla nausea, all’apostasia.

Il titolo, Crossroads, si riferisce al nome di un gruppo giovanile popolare con sede in una chiesa locale, ma ha un secondo significato.

Conoscete la leggenda su Johnson? Incontrò il diavolo all'incrocio tra le autostrade 49 e 61 a Clarksdale, Mississippi, dove vendette la sua anima per diventare il miglior chitarrista di tutti i tempi. Per l’intero svolgersi della narrazione ognuno dei personaggi principali – Russ, sua moglie, Marion, e tre dei loro figli, Clem, Becky e Perry – soffrono di crisi di fede e di moralità. Si trovano ad un bivio e valutano ciò che il diavolo ha da offrire. Trafitti dalla bellezza del suono del blues sopprimono i loro desideri e ciò causa loro angoscia. Viene data a loro la possibilità di migliorare per molto tempo ma, alla fine, non fanno nulla, né per loro stessi né per gli altri.

Franzen infila l’ una dietro l’altra le loro storie usando le pagine del suo libro, arrotolandole a mo’ di cannocchiale e facendogli la punta in modo da scavare dentro le vicissitudini quotidiane che sono come affluenti di un fiume che sgorga dall’alta quota di cime di montagna coperte da nevi perenni.

Lungo le strade della cittadina gli Hildebrandt si distribuiscono su di un piano ideale. Possiamo idealizzarli come punti che sta a noi unire, composti dalle loro esperienze che li fanno anche separare, che a volte non risaltano ai nostri occhi perché nascoste da loro a tutto il resto del mondo e tendono a meravigliare anche loro stessi che non sanno come relazionarsi con un cervello che non segue più i loro istinti.

Il tutto ci apparirà, alla fine, come un diagramma di Eulero Venn.

Il personaggio che apre il sipario e da cui tutto sfocia è Marion, la moglie di Russ.

Quando la incontriamo per la prima volta tra le pagine del romanzo è una rompiscatole, conscia della sua nullità, moglie di un pastore sovrappeso. All’inizio la si giudica e basta, ma poi il narratore inizia, in maniera metodica, a strappare via gli strati della sua vita passata e ad appiccicarli come un bambino di una tipica famiglia americana attacca al frigorifero il suo compito di spelling con il buon voto scritto in fondo per farlo vedere ai genitori; così siamo costretti anche noi a leggere ciò che ha portato questa donna a diventare un essere così imbarazzante per i suoi cari.

Russ, d’altro canto, nonostante i difetti, ha le spalle abbastanza larghe da poter portare il peso della famiglia da solo.

I tempi però stanno cambiando nella solida e rispettabile New Prospect, Illinois, travolta da un vortice di sesso, droga e musica folk nel Natale del 1971 mentre la guerra del Vietnam volge al termine. All'interno della chiesa della “Prima Riforma” i fedeli stanno tentando di uscire vivi da questa tempesta, cercando di trovare ai loro figli qualcosa da fare che li impegni duramente nella società. I riferimenti però non ci sono, gli spunti sono meramente ideali e anche noi lettori viviamo questa città come un “flusso continuo di coscienza”.

Jonathan Franzen rimane il nostro affidabile nocchiere , pastore vero del gregge vacillante composto dai protagonisti e personaggi dell’opera.

Ad un certo punto però anche la nostra guida capisce che la cosa migliore da fare per renderci tutti partecipi della narrazione è renderci autonomi facendoci ragionare diffondendo dubbi, tensioni, spingendoci a porci domande.

I capi dei movimenti “Hippy”, dispensatori di filosofie di vita, le cui frasi di propaganda urlate sono accompagnate da danze di carattere didascalico e performance improbabili, sono come il “proxy” per le generazione successive le quali, alla fine, lotteranno solo per i privilegi dei maschi bianchi... Un presagio del mondo social odierno, tutto ciò!

Contrapposta a questa realtà, vi è la sfortunata figura del pastore, un uomo verso cui Franzen prova un sadico piacere nel farlo nascere e abbatterlo qualche pagina dopo per poi riforgiarlo nuovamente. Russ si considera un progressista, un amico dei Navajo e dei ceti sociali meno protetti, un ponte comune tra le persone divise dalla disparità sociali. Scopriremo che è lui, alla fine, colui che insinua i dubbi nei nostri animi comportandosi come Amleto durante il suo famoso soliloquio. I ragazzi di Crossroads lo inquadrano invece diversamente: un persona noiosa ed inquadrata; "un uomo bianco con il suo Dio bianco", al limite della ped*filia nei suoi rapporti con l'adolescente problematica Sally Perkins.

Questo dramma domestico apre una finestra sulla politica, si piega al peso delle problematiche del conservatorismo e radicalismo come il grano si flette a causa del vento forte, si rilevano gli attriti nella società dovuti al cristianesimo avulso dall’attivismo sociale e alla destra guerrafondaia di Nixon la cui figura e le allusioni alla sua persona, tra l’altro, pervadono tutto il romanzo.

Flannery O'Connor a suo tempo parlò del "momento di grazia" che appare in molte delle sue storie, "un momento in cui qualcosa di speciale ci viene offerto ma, per vari motivi, di solito rifiutiamo questo dono". Il romanzo di Franzen è pieno di questi attimi. Si tratta di prove che la vita ci pone davanti, non troppo difficili da superare, che ci servono per maturare, ma che la maggior parte di noi teme di non superare. Meglio quindi l'autocommiserazione che, dopo aver letto questo romanzo, inseriremo tra i peccati capitali.