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La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

30/08/2022

Una visita al Bates Motel (2019), di Guido Vitiello

Terza ospitata per Riccardo Colella che qualche giorno fa, per il suo blog Il Cinenauta, ha scritto questo bel pezzo, che vi ripropongo, sul saggio Una visita al Bates Motel di Guido Vitiello, che indaga il famoso motel di Psycho tra arte e mito.


Ci sono libri che, già dal titolo, instillano una curiosità dalla quale pare impossibile scappare. Poi ci pensi e ti domandi: "ma in fin dei conti, perché farlo?". Così, quando t’imbatti in una copertina blu con su impressa una delle immagini cinematografiche più iconiche di sempre, lo capisci al volo che quel libro va comprato, anche se - in cuor tuo - speri di non ruzzolare in fondo all’ennesima fregatura in stile "vorrei ma non posso". Perché di libri che parlano di cinema e, nello specifico, di Psycho e Hitchcock ce ne sono a bizzeffe ma a quanti di noi è capitato di avventurarsi incautamente tra le pagine di qualche cosiddetto "saggio", solo per scoprire che, allo stesso modo e altrettanto saggiamente, avremmo fatto meglio a indirizzare altrove le nostre attenzioni? Fortunatamente, a darci una mano arriva Guido Vitiello col suo Una visita al Bates Motel, opera nella quale confluisce tutto quello che un saggio dovrebbe essere.

L’autore realizza un’analisi lucida, colta, approfondita e portata avanti con cognizione di causa, offrendo una chiave di lettura diversa e dando vita ad una vera e propria indagine che sviscera il film di Alfred Hitchcock del 1960, come mai prima d’ora. Di fatto, il libro ci guida attraverso la storia del motel e del film che l’ha reso celebre. Si parte da un "passo falso" commesso dalla produzione al momento di annunciarne il progetto, grazie al quale Psycho diventa Psyche. Un piccolo dettaglio, all’apparenza, ma grande abbastanza per destabilizzare la platea. Poi, scorrendo i fotogrammi del film, quella statuetta di Amore e Psiche di Canova che, ad un occhio poco attento, sembra messa lì per caso. Ed ancora, lo stesso regista a definire l’opera una "escursione del sesso metafisico". Nella migliore tradizione del giallo d’annata, tre indizi fanno una prova e Hitchcock sembra averne disseminati ovunque.

Giunti al punto focale della nostra indagine, viene da domandarsi se si tratti di abbagli, superficialità o semplice disattenzione. Com’è noto, il regista era un vecchio volpone e la cura maniacale con cui controllava il set, così come altrettanto maniacale era l’attenzione e la ricercatezza del dettaglio, lasciano ben intendere che difficilmente uno della sua caratura sarebbe potuto incappare in errori così grossolani. Inoltre, alcuni sapranno che Hitchcock era un grande appassionato di arte e se andiamo ad analizzare gli indizi di cui sopra, come ci insegna Vitiello, noteremo come essi non siano buttati lì per caso ma, anzi, seguano una ben delineata tratteggiatura che ci riporta a tre grandi miti greci legati da uno stesso filo conduttore: quello della discesa negli inferi e la conseguente resurrezione. Accostati a Psycho, ecco che Amore e Psiche, Orfeo ed Euridice e Demetra e Persefone non ci appaiono più così lontani.

Il tutto è velatamente suggerito dalle diverse sculture, opere d’arte e raffigurazioni pittoriche che troviamo nel film, ampiamente documentate dal ricco apparato iconografico del libro, tanto da rendere le location della pellicola simili a delle piccole gallerie d’arte. Ci ritroviamo, allora, su quell’arcinota collina. E quando Guido Vitiello sembra portarci lontani dal film di Hitchcock, verso quella che ha tutta l’aria di una vera e propria lezione di arte e filosofia, è proprio allora che, invece, si spalancano le sinistre porte del Bates Motel.

26/08/2022

Gli occhiali d'oro di Giorgio Bassani

Andrea Brattelli ci parla di Gli occhiali d'oro, toccante romanzo dello scrittore bolognese (ma ferrarese di adozione) Giorgio Bassani: l'incontro di due uomini invisi al regime fascista nella Ferrara anni Trenta, uno studente ebreo e un medico omosessuale, destinati all'emarginazione sullo sfondo della nebbia padana.

"Non c'è nulla più dell'onesta pretesa di mantenere distinto nella propria vita ciò che è pubblico da ciò che è privato, che ecciti l'interesse indiscreto delle piccole società perbene."


Tempo fa, recensendo La commedia umana di William Saroyan, ho fatto appello al senso di “comunità” che può aiutare un ragazzo in difficoltà a crearsi un avvenire e a far sì che nasca in lui una sorta di intelligenza empatica che può essere un sostegno, a sua volta, per altre persone.

Nell’opera di Bassani Gli occhiali d’oro ritroviamo questo tema che prende corpo come un motivo musicale: siamo uguali in quanto borghesi, siamo diversi perché ebrei; il fascismo sarà l’elemento catalizzatore che accelera la reazione e la deflagrazione morale tra quei due modi di essere.

Durante la dittatura infatti avviene una paralisi delle coscienze che sarà la causa di una degenerazione progressiva di ogni cosa. La borghesia aveva favorito l’avvento del fascismo ed è poi stata, a sua volta, sospinta proprio dal regime verso un’involuzione. Si è tanto più uguali, come uomini appartenenti alla classe dominante, quanto più si è diversi, come ebrei esposti alle persecuzioni razziali.

Lo scrittore capì che la guerra e il totalitarismo si identificano sì con un momento irrazionale della storia che però non si risolverà con la loro fine. Il dopo sarà sottolineato da una fase in cui si cercherà di recuperare l’irrecuperabile assecondando una memoria elegiaca.

La carità sarà l’unico strumento per sopravvivere alla caduta dei valori e al vuoto ideologico.

Tutto ciò sarà documentato da e attraverso la persona protagonista di questo romanzo che perderà i diritti a poco a poco e l’io narratore sarà invaso da un senso di coscienza civile che ci farà riflettere sul suo malessere interiore.

Sotto questo punto di vista Broch e Bassani sono molto simili; in entrambi i casi dovremmo parlare di incolpevoli soggetti alla vessazioni dirette e indirette dei borghesi.

Hitler fu la reincarnazione di questi ultimi, uccelli rapaci che ammettono atrocità con la complicità dell’indifferenza politica parente di quella etica.

I diversi aspetti del problema si saldano così in un circolo perfetto e i discorsi fatti sino ad ora ci valgono come riferimento analogico per il caso proposto dal narratore. Il “colpevole” è il dottor Athos Fadigati la cui storia ci viene raccontata dal padre. Il nostro eroe borghese sarà bravo come otorino ma è terribilmente banale come persona. Ciò giustifica le persone che lo circondano a imbastire conversazioni che sembrano casuali ma non lo sono affatto, bensì intimamente collegate da una sorta di perversione, la stessa che si ritiene abbia il nostro giovane ebreo perché omosessuale e quindi soggetto alle ire celesti come tutti i sionisti dato che sono perseguitati da duemila anni almeno.

La sua “colpevolezza” però lo riscatterà alla fine e la conoscenza del male non avverrà in lui ma nel cuore di un suo caro amico…

19/08/2022

Kafka sulla spiaggia di Haruki Murakami

Per festeggiare la fine delle ferie estive, Andrea Brattelli ci propone uno dei libri più conosciuti dello scrittore giapponese Haruki Murakami. Atmosfere oniriche e surreali, cultura occidentale e tradizioni nipponiche si fondono in un romanzo irrinunciabile: Kafka sulla spiaggia.


Kafka sulla spiaggia è un libro il cui stile di scrittura mescola elementi di surrealismo a fatti e problematiche della vita di tutti i giorni evocando un mondo lontano dalla nostra percezione di comuni esseri viventi, sensazione comune comunque a chiunque si approcci a qualsiasi forma d’arte giapponese per la prima volta da profano; ad un tratto però, durante la lettura, ci sembrerà il tutto molto allettante e a “portata di mano” e su quest’ultima mia affermazione tornerò a scriverne più tardi.

L’opera, come in un chonmage* elaborato sapientemente a forma di ginkgo, si evolve intrecciando due trame parallele, raccontando la storia di Kafka Tamura – un ragazzo di 15 anni che scappa di casa per sfuggire a una maledizione edipica - e la vita quotidiana di Nakata – un anziano giapponese che ha una straordinaria capacità di comunicare con i gatti a causa di un incidente e che trascorre le sue giornate a localizzare, trovare e restituire i gatti perduti ai loro proprietari. Sebbene le loro strade percorrano linee parallele, il loro percorso inevitabilmente alla fine si incrocerà dando luogo ad un finale... kafkiano, appunto!

Murakami si approccia nel redarre questo romanzo attingendo alla cultura giapponese fatta di realismo magico, antiche profezie, sessualità per costruire un mondo incantato dove i personaggi sperimentano amore, perdita degli affetti, malinconia e gioia a volte trascinati come in un uragano da questa miriade di sensazioni.

La biblioteca dove il protagonista va a rifugiarsi durante l’assaggio della libertà di evasione è simbolicamente descritta come un santuario dove potersi mettere al riparo dai sentimenti e poter trovare sollievo ed equilibrio nella ragione. La stessa bibliotecaria Oshima si comporta da “Grillo Parlante” non evitando stoccate al ragazzo come nella scherma con il fioretto, elargendogli saggi consigli che lo fanno desistere dai suoi pensieri illogici nati e maturati forse anche dall’ansia di affrontare da solo la vastità del mondo che lo circonda e le avversità che potranno sopraggiungere.

L’anziano Nakata, invece, analfabeta e senza istruzione, vaga per la città cercando gatti fuggiti da casa. Come nei Tenohira no Shosetsu (racconti in un palmo di mano) gli incontri tra lui e questi animali, ambasciatori di altre dimensioni, sono pennellate suggestive di scarna liricità che però, così come la mano, con un semplice nostro gesto di rotazione, può mostrare il palmo, così come il dorso, questi fenomeni hanno la funzione di aprire uno squarcio in una realtà alternativa capovolgendola ma sempre in analogia con il fanciullo allontanatosi volontariamente da casa. La vita che questo senzatetto finora conduceva senza uno scopo, ora sembra che volga in un’altra direzione.

Il segreto per capire questo volume è rileggerlo più volte, ma la soluzione reale ad alcuni enigmi è avvolta in un intricato sudario e non sono pochi in questo scritto. Segnano il confine tra oscurità interiore ed esteriore e prendono spunto da grottesche invenzioni colte dall’immaginario collettivo giapponese che si è evoluto nel corso dei secoli.

*acconciatura tradizionale giapponese per uomo

16/08/2022

Elena Ferrante, I margini e il dettato

Premetto che di Elena Ferrante non avevo, volutamente, mai letto nulla in quanto detesto l'alone di mistero attorno alla sua identità. In seguito a un consiglio di lettura, tuttavia, mi sono decisa a leggere questo ebook utilizzando il prestito di MLOL.

Il piccolo volume I margini e il dettato, del 2021, raccoglie quattro testi inediti di Ferrante sulla "avventura dello scrivere": nello specifico, tre interventi realizzati per le Umberto Eco Lectures (figlie delle "Lezioni Magistrali" ideate da Eco per la Scuola Superiore di Studi Umanistici) e un saggio composto per la chiusura di un convegno di italianisti su Dante.

Ferrante riflette sulla scrittura in genere e sulla propria in particolare. Per fare questo, correda il testo di numerose citazioni di autori e di autrici (solo nel primo saggio troviamo Italo Svevo, Gaspara Stampa, Virginia Woolf e Samuel Beckett).

Larga parte delle riflessioni riguarda infatti il ruolo delle scrittrici e il rapporto tra donna e scrittura; ma anche lo stesso pregiudizio verso le scrittrici: "Ho conosciuto nella mia vita uomini molto colti che non solo non avevano mai letto Elsa Morante o Natalia Ginzburg o Anna Maria Ortese, ma non avevano mai letto Jane Austen, le sorelle Bronte, Virginia Woolf."

Molto interessante la parte riguardante Svevo e la fatica di scrivere (con la scissione tra l'io di chi vuole scrivere e il proprio pensiero che diventa evidente, "si manifesta" ed è difficile starci al passo: da qui la "fastidiosa approssimazione" della scrittura) e il punto della scrittura considerata per secoli una prerogativa maschile, tanto da mettere in difficoltà la giovane Elena Ferrante che si sentiva limitata e illegittima nell'approcciarsi alla scrittura. 

"Temevo... che fosse proprio la mia natura femminile a impedirmi di accostare il più possibile la penna alla pena che volevo esprimere."

Il punto centrale, toccato in modi differenti nei vari saggi, è il rapporto tra la vita di chi scrive e il suo stile. Sosteneva Virginia Woolf che la scrittura deve essere separata dalla "vita grezza" per concentrarsi sulla creazione. "La scrittura vera è quel gesto che fruga dentro il deposito della letteratura alla ricerca delle parole necessarie." Eppure è importante anche il caos, l'impeto, il disordine: ecco perché Ferrante parla di due scritture, quella ordinata e quella convulsa.

Per chiunque scriva, la questione autobiografica assume una rilevanza fondamentale. In particolare, Ferrante si sofferma su Autobiografia di Alice B. Toklas e sull'accusa rivolta a Ernest Hemingway da Gertrude Stein che in lui vedeva lo scrittore delle "confessioni di comodo" fatte per vendere copie. 

Parlando del proprio rapporto con la scrittura, Ferrante parte dalle esperienze scolastiche, da autori e autrici (e insegnanti) che l'hanno ispirata e giunge alle evoluzioni stilistiche che hanno interessato la sua opera a partire dagli anni Ottanta, a cominciare dal passaggio alla prima persona. 

Per quanto mi riguarda, non conoscendo i suoi romanzi non posso comprendere appieno il discorso sui personaggi femminili da lei costruiti, ma non occorre aver letto i suoi libri per apprezzare I margini e il dettato.

Il concetto di scrittura come "gabbia", della creazione che deve farsi largo tra l'io e la "cattiva lingua" di cui parlava Ingeborg Bachmann, è troppo affascinante per rinunciare alla lettura di questo libro e anzi, adesso sono curiosa di scoprire anche la Ferrante narratrice.

12/08/2022

La figlia del silenzio di Morris West (Daughter of Silence)

Andrea Brattelli ha rispolverato un libro apparso nel 1961 ma tradotto in italiano solo 30 anni dopo: La figlia del silenzio (Daughter of Silence) dello scrittore australiano Morris West, all'epoca di questo romanzo corrispondente del Vaticano. West è stato uno scrittore di bestseller spesso trasformati in opere teatrali e cinematografiche.


Una giovane contadina, Anna, uccide il sindaco di un piccolo borgo toscano. La calma di quel luogo viene quindi turbata da questo omicidio e dal processo che seguirà nei confronti della protagonista dall’animo almeno inizialmente imperscrutabile.

Il dolore provato sovente, infatti, è tanto grande che non lo si riesce ad esprimere e a parlarne con nessuno e non perché non ne si voglia discutere ma perché rigettarlo attraverso le labbra è come sputare acido muriatico che brucia tutto l'esofago ed è quindi è meglio, dopo averlo ingoiato, tenerlo giù, dentro lo stomaco.

Un avvocato sull’orlo di una crisi di nervi per problemi personali cercherà di fare di tutto per farle ridurre la pena.

Nessuno dei personaggi della storia sfugge alla drammaticità degli eventi che vengono narrati nell’aula del tribunale, molti dei quali intrisi di una violenza che viene dal passato e che assume un sapore nostalgico durante lo svolgimento della storia.

Tante sono le comparse (non le definisco così a caso), umanizzate fino all’inverosimile, forse in maniera troppo esagerata, in tutta la loro pienezza sia nella psiche che nella forma fisica perché è questo l’unico modo, secondo Morris West, di indagare la natura umana e mostrare cosa è capace di partorire nelle occasioni più difficili.

I veri protagonisti della storia sono l’amore, i suoi intrighi appassionati e la giustizia, inficiata non poco dalla corruzione. A tal proposito infatti l’opera in questione fa riflettere sull'inadeguatezza e l'ingiustizia dello stato di diritto quando si deve tener conto necessariamente di circostanze attenuanti o instabilità mentale.

Attorno a questi due elementi si alimenta la tensione, in un paesino dove anche il vino si addolcisce con il sangue di antichi sacrifici. Servirà il suo nettare, come una sorta di cura omeopatica, anche a lavare via l’onta di un crimine eseguito a sangue freddo e mondare le coscienze?

Per rendere un po’ movimentata la storia quando si giunge ai capitoli riguardanti la materia legale con i suoi tecnicismi (esposti in maniera prolissa) il narratore fa assumere in questi punti al romanzo una sembianza cospirazionista. Tanti sono i dettagli sciorinati nel romanzo riguardanti qualsiasi argomento trattato passando dall’uno all’altro, talvolta un po’ troppo repentinamente, quindi tutto ciò decisamente non può essere catalogato come climax. Non ci sono colpi di scena e tutto sembra un po’ troppo prevedibile ma lo sviluppo della trama non ne risentirà più di tanto.

In conclusione, Morris West mi fa pensare a Sciascia ma il secondo nei suoi libri su temi analoghi esplica meglio le questioni filosofiche legate al libero arbitrio e al determinismo.

05/08/2022

Bruce Chatwin, Che ci faccio qui? (What Am I Doing Here)

Inauguriamo quello che per tradizione è il periodo delle ferie estive con la recensione di Andrea Brattelli di What am I doing here, una miscellanea dei racconti di viaggio del grande Bruce Chatwin, l'ultimo libro pubblicato quando lo scrittore e viaggiatore era ancora in vita.



Bruce Chatwin è stato, fino a poco prima di morire, un ramingo che ha basato la sua intera vita sull’essenzialità, che gli permise di vagare per il mondo per decenni, libero da pesi e convenzioni.

Scrisse dei popoli nomadi e delle loro afflizioni durante i pellegrinaggi, con tenerezza, armato di una penna leggiadra come una piuma, fatiche che egli sapeva sopportare benissimo e con decoro grazie alla sua cultura: è troppo riduttivo infatti, ancor oggi, definire questo scrittore un “narratore di viaggi” che lo fa sembrare un giornalista di riviste a tema per vacanzieri e camperisti della domenica; egli era ovunque, prima con la mente e lo spirito, poi con il corpo; la sua casa... in ogni luogo.

La frontiera comune delle sue peregrinazioni erano mete improbabili ed esotiche dove poter incontrare persone eccentriche, sia che vivessero nei salotti curati parigini, sia che dormissero sotto un pergolato di stelle o in lande desolate e primitive.

What am I doing here è una raccolta, una miscellanea dei suoi racconti di viaggio, una reminiscenza dei suoi migliori scritti.

Come altre sue opere, anche questa è zeppa di persone che brulicano tra le pagine del diario e di fatti accattivanti e gli ambienti naturali sono descritti incantevolmente. Inoltre allo scrittore piace confondere un po’ realtà e finzione ed è quindi compito del lettore accertarsi della veridicità di alcuni fatti narrati, sovente imperscrutabili perché si è disorientati da una cronistoria priva di ordine cronologico. Ci si dovrebbe quindi soltanto divertire nel leggere questi racconti ponendosi la domanda: "Dovrei rimanere stupito per gli usi e costumi di un popolo aborigeno di cui sto ora apprendendo la cultura o per l’inventiva di Chatwin?"

Il narratore britannico sembra che preferisse intervistare le donne anziane, con i loro volti scavati come se fossero appena fatti riemergere a colpi di piccozza dalle rocce metamorfiche di un’area geografica di cui custodiscono la storia sin dalla notte dei tempi. Vecchie arzille, terrose, schiette e vibranti come la scrittrice Nadezda Mandel’stam, ad esempio.

L’unica pecca, se si può definire così, di questo scritto è che avrei voluto conoscere qualcosa in più sul modo di ragionare e di intendere dello scrittore. Provo invidia, nel senso buono, per costui che ha girato il mondo ed ha saputo accogliere dentro di sé l'"io" di ogni essere umano che ha incontrato, nel pieno rispetto della cultura altrui, vivendo intensamente fino alla morte, che quando è giunta si è trovata dinanzi un uomo con una forte dignità, eclettico conoscitore del pianeta Terra che ci ha fatto scoprire attraverso i suoi taccuini e le sue foto. Assorbiti dalle sue parole e facendo nostri i suoi pensieri torniamo da un viaggio più istruiti, ne usciamo come persone migliori.

02/08/2022

L'uomo che amava gli alberi di Algernon Blackwood


Per chi come me da ragazzina aveva pochi spicci, la Newton Compton con le sue antologie di racconti è stata una vera manna dal cielo. Di Algernon Blackwood (1869-1951), una vita dedicata ai racconti e romanzi sul soprannaturale, avevo appunto letto un racconto inserito in Storie di fantasmi, il mitico Mammut 39. Grazie a un regalo, ho recuperato anche il romanzo breve L'uomo che amava gli alberi, nella traduzione di Alda Teodorani (il libro è meglio conosciuto col titolo L'uomo che gli alberi amavano, il che ha decisamente senso).

Quando Sanderson, un pittore che sa rivelare l'anima degli alberi, fa visita ai coniugi David e Sophie Bittacy, la loro vita cambia totalmente. La coppia abita in una casa nello Hampshire, sulla soglia della foresta. Il marito, innamorato degli alberi fin da giovane, quando viaggiava nella giungla indiana, sviluppa poco a poco una frenetica ossessione, che aumenta con l'avanzare della decadenza di un cedro che aveva protetto la casa dal richiamo ancestrale della foresta. Sophie, donna religiosa e altruista, cerca di salvare il marito a tutti i costi.

Le atmosfere gotiche dello scrittore inglese si alternano a descrizioni romantiche e riflessioni metafisiche sulla filosofia della natura e sulla coscienza del regno vegetale. La scrittura elegante e il ritratto minuzioso degli elementi boschivi impreziosiscono la narrazione rendendo la lettura piacevole non solo per chi ama le ghost stories. Descrizioni magnetiche quanto inquietanti che sembrano trovare degna rappresentazione cinematografica in certi incubi di Dario Argento nei quali la vicinanza del bosco infonde gran parte del terrore della pellicola (vedi Suspiria e, soprattutto, Phenomena, con il riferimento al vento che favorisce la fioritura e provoca la pazzia).