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La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

28/04/2023

Chernobyl history of tragedy, di Serhii Plokhy

In occasione dell'anniversario del disastro nucleare più noto e più importante della storia (era il 26 aprile 1986), Andrea Brattelli ci parla di un testo di Serhii Plokhy vincitore di numerosi premi di saggistica: Chernobyl history of a tragedy. Andrea lamenta inoltra come l'energia nucleare sia stata demonizzata agli occhi dell'opinione pubblica anche a causa dell'incidente.


In Svezia, il 28 aprile 1986, un chimico responsabile della misurazione dei livelli di radiazione si accorse di un presunto malfunzionamento al sistema di allarme contaminazione della centrale nucleare in cui lavorava: questi continuava a suonare incessantemente. Il tecnico quindi andò ad esaminare la scarpa di un collega che risultò radioattiva a causa di elementi normalmente non rilevati nell'impianto. Gli svedesi sospettarono immediatamente un incidente sovietico. Ci vollero molti giorni prima che qualcuno venisse a scoprire che qualcosa di molto brutto era accaduto a 1.500 km di distanza, a Chernobyl, Ucraina.

In qualità di autore, Serhii è un brillante interprete non solo degli eventi stessi, ma anche del loro significato storico nel lungo periodo essendo vittima egli stesso, a distanza di anni, di danni alla tiroide provocati dall’incidente. Vi sono dei paragrafi appositi in cui si spiega cosa sono il röntgen, il midollo osseo e i raggi gamma ed è quindi molto probabile che egli, in questo caso, abbia riportato ciò che ha imparato durante le visite mediche dai dottori che monitorano il suo stato di salute: lo scrittore taglia, con una prosa incisiva, la carne malata dal suo corpo, si denuda della sua pelle per sbatterci sulle pagine di questo scritto, come su di un tavolo da cucina professionale in acciaio austenitico*, tutte le sue fragilità e i ricordi tristi dei suoi amici morti di leucemia.

A Pryp"jat si seminarono i chicchi della disillusione dell’atomica sovietica da cui fiorì anche il movimento indipendentista ucraino. Gorbaciov da questo disastro ne uscì malconcio e dalle pagine di questo racconto di cronaca si evince come egli fosse totalmente impreparato ai cambiamenti... Preferì quindi continuare sulla stessa china invece di cercare di scardinare un sistema rigido e corrotto promuovendo la formazione di una nuova classe dirigente competente in vari settori dell’economia energetica. 

Mi è rimasta impressa, ad esempio, leggendo questo libro, la figura di Valentina Briukhanova, la moglie del direttore dell’impianto che continuò il suo lavoro di dirigente nonostante, insieme al marito, fosse stata condannata dopo l’incidente (lavoravano entrambi alla dirigenza di impianti nonostante per quella figura professionale fosse previsto un solo posto percependo, entrambi, un lauto stipendio ciascuno). Un’altra figura orribilmente affascinate è quella di Efim Slavsky, che all’epoca dei fatti aveva già 88 anni. Campò fino a cento anni e, sino alla sua morte, continuò, nonostante tutto, a difendere il suo progetto di reattori RBMK modificati, nonostante la sua incompetenza, dato che era diventato ingegnere minerario per meriti militari; si era distinto per la sua osservanza alle leggi dittatoriali del regime. 

Non mi sembra che da allora molto sia cambiato. Qui in Italia, per esempio, politici che durante la prima ondata di epidemia di Covid con la loro pessima gestione della pandemia hanno causato più morti di Erich Priebke siedono ancora sulle loro poltrone; tornando in Russia, invece, si evince come Putin non abbia mai fatto tesoro degli errori commessi dai suoi predecessori. Non mi soffermerò sulla dinamica e sull’analisi tecnica dell’incidente che è comunque ben descritta nell’opera, non servono particolari conoscenze scientifiche per capirla: ne troverete tante, di trattazioni simili, su internet, compresa quella redatta da me.

Scriverò invece del coraggio dei vigili del fuoco e delle forze dell’ordine che cercarono di combattere l’incendio che si abbatté sulla città creando un olocausto nucleare, dello strazio dei profughi che andarono a vivere in luoghi vicino presso appartamenti incastonati in casermoni di cemento armato approntati alla meno peggio dal governo e arredati con mobili il cui legno di pino che è tuttora contaminato da isotopi radioattivi. La popolazione, composta da 50.000 persone, fu comunque costretta, nel Maggio dello stesso anno, a partecipare a manifestazioni popolari in piazza, nonostante le radiazioni. Quando sì capì che il terreno lì intorno sarebbe rimasto contaminato per i successivi 20.000 anni non solo le strade e le piazze ma tutta quella zona di Kiev diventò una località fantasma.

Serhii Plokhy ha la capacità, sia entrando nelle spiegazioni tecniche, sia nel guidarci nei meandri del pensiero politico corrotto di allora, di rendere semplici le cose difficili ma, come tutti coloro che scrivono sul tema nucleare, non consulta un ingegnere esperto del campo. Insinua nel lettore paure legate alla proliferazione nucleare in paesi in cui è instaurato un regime dittatoriale e paventa il pericolo di infiltrazioni di stampo mafioso nello stoccaggio e gestione dei rifiuti e scorie nucleari: fandonie raccontate anche da molti politici italiani. In realtà proprio dopo incidenti come quello di Chernobyl è stata istituita una organizzazione che controlla l’intera filiera nucleare nel mondo e questi pericoli non possono più esistere. 

Il sapere scientifico richiede tempo per essere appreso, applicazione, ma, in particolar modo, contestualizzazione e onestà intellettuale. Non si può rinunciare, oggettivamente, dati alla mano, alla luce dei cambiamenti climatici che stanno sconvolgendo il nostro pianeta, ad una forma di energia che potrebbe risanare, insieme alle altre, le sorti climatiche della Terra. Inoltre, impianti di potenza del genere non vengono più costruiti; la loro fragilità consisteva anche nell’usare Uranio naturale, molto instabile, per la produzione di Plutonio per armi nucleari, incamiciato in alluminio anodizzato e grafene e usando acqua leggera: il tutto solo per economizzare il più possibile sui costi di gestione. Non si può strumentalizzare ideologicamente un esempio unico di totale mala gestione di una fonte di energia per privarci di qualcosa, senza aver tuttora altre soluzioni valide, che ci potrebbe migliorare la vita. Soprassediamo, infine, su quanto accaduto poi in quegli anni in Italia, con la chiusura dei migliori impianti nucleari al mondo e la demonizzazione di progetti e persone tra cui i professori Felice Ippolito e Mario Silvestri orchestrata magistralmente dai vertici della Edison.

*Le leghe inox austenitiche, sono leghe prodotte con alte percentuali di leganti: in pratica un ampliamento degli acciai inox austenitici tradizionali. Sono nate per coprire le debolezze di questi ultimi in fatto di resistenza alla corrosione, sia alveolare sia tensocorrosione. (Fonte: Wikipedia.)

21/04/2023

I figli dell'invasione (The Midwich Cuckoos) di John Wyndham

Andrea Brattelli ci parla de I figli dell'invasione, romanzo di fantascienza da cui è stato tratto Il villaggio dei dannati in varie trasposizioni cinematografiche. Il titolo originale fa riferimento al cuculo, che sfrutta gli altri uccelli per la cura dei propri nati.



Libro pubblicato sul finire degli anni '50, forgiato dai timori insinuatisi a seguito della Guerra Fredda, di primo acchito può sembrare una storiella ingenua (ai giorni nostri) sugli alieni che cercano di mimetizzarsi tra di noi; si rivelerà invece un piccolo scrigno di considerazioni filosofiche. Il titolo fa riferimento al comportamento di alcuni cuculi che depongono le loro uova nei nidi di altri uccelli, portando inconsapevolmente questi ultimi a far nascere e crescere la loro prole.

La sinossi infatti è questa: in un tranquillo villaggio inglese appare un oggetto d’argento e, nello stesso momento, tutti gli abitanti perdono i sensi. Quando si riprenderanno si scoprirà che tutte le donne della cittadina sono rimaste incinte.

Le persone dovranno quindi riadattare il loro stile di vita per affrontare problemi che prima non contemplavano neppure, dato che verranno messi alla luce bambini identici tra loro che mostreranno facoltà sovrumane e che potrebbero risultare un pericolo per loro stessi e per gli indigeni del luogo. 

I fanciulli cercheranno di avere il controllo sui comuni mortali e questi ultimi entreranno in conflitto gli uni con gli altri a causa delle diverse scuole di pensiero sulla gestione dei nascituri che crescono, stranamente, troppo in fretta. Da ciò si nota subito che la morale vuol essere questa: gli umani sono così deboli e, al contempo, pieni di sé che anche una piccola difficoltà (simboleggiata dai marmocchi alieni) può causare dissidi tra loro e chiunque poi potrà governarli dall’esterno col metodo del “Divide et Impera” nato nella seconda metà del '400 e utilizzato sin da allora da qualsiasi becero tiranno.

Tornando al nostro racconto, le domande che ci sovvengono spontaneamente sono: come si confronteranno gli abitanti di Midwich con questi esseri soprannaturali? Riusciranno a partorire anche uno spirito comunitario per risolvere i problemi di varia natura che verranno a turbare sistematicamente la loro tranquillità dall’esterno?

Usare come “topos” i bambini è ciò che dona qualche tinta horror a questo romanzo fantascientifico: mentre leggiamo ci poniamo domande su ciò che possiamo fare per prenderci cura, in generale, di esseri piccoli e indifesi che mostreranno solo poi le loro vere fattezze e trasformeranno in una trappola le quattro mura domestiche ricoperte dalla carta da parati ingiallita dove volevamo tenerli al sicuro e capiremo che nessuno si potrà prendere cura di noi che ci ponevamo tanti dilemmi quando loro e le nostre paure ci avranno sopraffatti. 

Questi esseri sono tutti interconnessi tra loro, sembra che abbiano creato una rete neurale per comunicare collegati come in internet e tra le tele virtuali di un ragno osservatore appollaiato tra esse vi sono intrappolate le donne gestanti vittime di pettegolezzi e in balia dei loro sensi di colpa e della vergogna. La percentuale maschile dei vari personaggi è alta ma non per maschilismo da parte dello scrittore. Egli vuole identificare tutti questi uomini tutti in un unico e solo “Giuseppe” che si prende cura in tutti i modi della sua donna in dolce attesa, anche se il figlio è stato concepito in modo non convenzionale (per utilizzare un eufemismo) e si fa carico delle pressioni sociali e, al contempo, pone al sicuro la donna dalle sue paure, difficoltà, angosce, dicerie, tutte di varia natura.

Una volta parlando con un prete gli ho detto che ciò che non mi piace sicuramente della religione cristiano cattolica è la “confessione”: i fedeli confessano i loro peccati, ciò che hanno fatto... ma non ciò che non hanno fatto e che avrebbero potuto fare per migliorare se stessi e la vita di qualcuno; ecco, questo romanzo potrebbe insegnarci a rinunciare ogni tanto almeno alla nostra zona di comfort e provare a misurarci con problemi più grandi di quelli che immaginiamo di saper affrontare per migliorare la situazione. Solo in questo modo si diventa adulti e ciò lo capiranno anche i bambini di un altro mondo protagonisti del romanzo perché, anche se si hanno grandi potenzialità e una famiglia che fa di tutto per tirare avanti e per farci maturare,  il talento va educato e allenato.

19/04/2023

Speak di Laurie Halse Anderson, disegni di Emily Carroll

"Le prime dieci bugie che ti raccontano alle superiori: Uno. Siamo qui per aiutarti."



Melinda ha 13 anni e frequenta il primo anno della Merryweather High School. Le compagne, comprese la ex migliore amica, la evitano da quando, a fine estate, ha rovinato una festa. 

Quella sera, Melinda ha subito una violenza da parte di un compagno e ha chiamato la polizia, ma non è riuscita a raccontare la verità. 

"Dentro di me è rinchiusa una bestia che mi lacera le costole."

Da quel momento, la ragazza è diventata il bersaglio dei bulli. Nel fumetto vediamo che Melinda si ritrae sempre più dal mondo che la circonda, i voti peggiorano; insegnanti e genitori non sembrano voler ascoltare. 

I disegni di Emily Carroll accompagnano in modo perfetto la storia di Laurie Halse Anderson: Speak (Il Castoro, 2019) è infatti l’adattamento dell’omonimo romanzo di Anderson pubblicato nel 1999, un tema delicato narrato in modo ideale per le giovani generazioni.

La storia è efficace e realistica: da una parte l’indifferenza della scuola e della famiglia, dall'altra le dinamiche tra adolescenti con i loro fragili equilibri tra inclusione ed emarginazione; in mezzo la difficoltà di raccontare una realtà drammatica.

Carroll, nota per i suoi fumetti fantahorror, fa un ottimo lavoro dando forma alla depressione di Melinda, al suo dolore e alla sua guarigione. Se proprio l'arte diventa un mezzo di espressione per la protagonista, il mezzo del fumetto risulta particolarmente adatto a raccontare la sua storia, che è quella di tante ragazze in tutto il mondo.

14/04/2023

Racconti dell’Ohio di Sherwood Anderson

Andrea Brattelli ci parla della raccolta Racconti dell'Ohio, il più noto lavoro di Sherwood Anderson, scrittore statunitense dalla vita intensa che morì a soli 64 anni a causa di uno stuzzicadenti. Curiosità: Stephen King lo annovera tra i quattro scrittori responsabili della mitologia che sostiene la necessità di utilizzare droga e alcool perché più creativi o sensibili di altri.



Un anziano reporter, George Willard, torna con il pensiero alla sua vita passata e rimembra le persone che ha incontrato e le vicissitudini del tempo che fu. Nella sua mente risultano essere particolarmente radicati i ricordi legati a soggetti grotteschi che incontrò a Winesburg, piccola cittadina immaginaria dell’Ohio.

Le persone di questo luogo principalmente soffrivano di solitudine, di quella tipologia che crea un doloroso vuoto nella vita di chi la subisce. Il periodo storico in cui sono ambientati i racconti è caratterizzato da una forte propensione al bigottismo e pudicizia e quindi vi era, in generale, un desiderio ardente di vivere le passioni represso però dagli usi e costumi dell’epoca.

Il protagonista è un attento osservatore delle abitudini e modi di fare dei cittadini: silenzioso ed educato, suscita rispetto nella genti e le stimola a confidarsi con lui. Il suo essere taciturno sembra elevarlo a spirito onnisciente ma così non è; egli, come ogni essere umano, ha pregi e difetti ed è vulnerabile. Possiamo comunque supporre che, in alcuni luoghi del Pianeta e in determinati periodi della storia l’assenza di Dio è più tangibile ed è in questi frangenti dell’umanità che alcune persone all’apparenza migliori di altre, più educate e dotte assurgono al ruolo di profeti (perlopiù falsi).

Piccole frazioni di città sono isolate dalle metropoli e non subiscono il trambusto causato dal traffico e dal progresso che si fa largo tra le ceneri della Prima Guerra Mondiale. La similitudine con l’animo dei protagonisti è palese ma nella tranquillità della preghiera a capo chino all’ombra dei luoghi di culto loro stessi anelano una vita più emozionante e con meno vessazioni.

Purtroppo il muro costituito da mattoni di buone maniere altro non è che manierismo, che si nasconde come il fango denso sotto le pietre lisce e lascia spazio all’iniquità, vessillo dei poveri derelitti egocentrici perché pensano che le loro tristi vicissitudini siano le più gravi in assoluto rispetto a quelle degli altri.

Come accadde per New Orleans Sketches di Faulkner, anche Anderson quando scrisse questi racconti era in una modesta pensione e cercava di coniugare, nella sua produzione letteraria, il proprio animo con l’amore attingendo alle sue esperienze adolescenziali nella contea di Clyde, Ohio, prettamente dedita all’agricoltura. Si era sempre ripromesso di non assomigliare a quei zotici dei suoi compaesani.

Al fresco delle fronde degli olmi, sonnecchiando, l’autore dà vita a personaggi che a volte, ammetto, mancano un po’ di profondità e rispecchiano la realtà “sbadigliante” della vita dei mandriani nelle campagne rurali (non dissimili dai paesaggi dipinti da Lajolo nel Piemonte). Solitamente invece lo scrittore rimarca l’alienazione dell’individuo nelle sue debolezze, ne mette a nudo la bruttezza di quei corpi, dei volti, delle mani provate dalla fatica che però hanno un’anima dolce come le mele appena colte seppur nodose. Non è un “Freak Show” ciò che mette in mostra. Lo studioso Ray Lewis White scrisse infatti: "Grottesco deriva da grotta, perché sulle pareti delle caverne gli artisti antichi a volte disegnavano figure umane distorte, brutte, caricature degli esseri umani stessi". 

Solo facendo riferimento a questo significato primordiale della parola possiamo capire che nel libro Racconti dell’Ohio non vi è nulla di realmente offensivo verso l’individuo dalla scorza dura e l’animo tenero e frollato dai cattivi eventi. Forse potremmo affermare che Anderson assomiglia un po’ ad un Cechov alle cui storie e personaggi ha aggiunto un po’ di pepe, "prurigine" metaforicamente intesa come voglia di soddisfare principalmente i desideri sessuali che tali rimangono, sepolti come i morti di Spoon River e forse un giorno decantati agli avventori di saloon che si fermeranno in quei luoghi dimenticati da Dio per una birra, bramati come l’amore di Leopardi per Silvia o per Laura del Petrarca.

11/04/2023

L'Esorcista di William Peter Blatty

Per riprendersi dalle scorpacciate pasquali, non c'è niente di meglio di un buon libro horror che con la Chiesa ha molto a che fare: L'Esorcista di William Peter Blatty. Ospito oggi la recensione di Riccardo Colella, pubblicata originalmente sul suo blog Stazione Cinema. La trovate qui, se avete voglia di dare un'occhiata.


“Karras smise di leggere. Scosse la testa. Qui non c’era di mezzo nessuna manifestazione di fenomeni paranormali: era soltanto la prova delle illimitate capacità della mente umana.“

L’horror più terrificante di sempre. Quante volte ci siamo imbattuti in questa affermazione, al momento di analizzare L’esorcista? E forse, a pensarci bene, non siamo poi così lontani dalla realtà. Se infatti siamo qui a parlare di un film che, a cinquant’anni suonati dalla sua uscita e dopo aver terrorizzato intere generazioni di spettatori, continua a fare il suo lavoro più che degnamente, è logico pensare che, a conti fatti, quel film possa davvero essere così spaventoso come dicono. Proviamo a spulciare i vari siti tematici, Wikipedia, le riviste di critica o i semplici blog di settore (proprio come questo). Una delle prime informazioni che ci salterà all’occhio, parlando del film diretto nel 1973 da Willliam Friedkin, sarà sempre quel “…tratto dal romanzo di William Peter Blatty”. E allora, mi sono detto, perché non leggerlo questo “romanzo di William Peter Blatty”? Se è vero, infatti, che il film lo abbiamo visto tutti (più o meno), quanti sono quelli che il libro di Blatty l’hanno letto per davvero?

È bene chiarire subito una cosa: per quanto mi riguarda, non sono mai stato uno di quegli integralisti che “il libro è sempre meglio del film”. Nella storia della letteratura cinematografica, non si contano i casi in cui la qualità del film ha superato quella del romanzo. Nella fattispecie, mi sento di affermare, senza alcun dubbio, che un film come Lo squalo sia ben superiore all’opera di Peter Benchley. E badate bene che parliamo di un testo di alto livello. Analogamente, lo stesso Casino Royale di Ian Fleming credo si possa collocare al di sotto della trasposizione diretta da Martin Campbell nel 2006 e che inaugurava il ciclo jamesbondiano di Daniel Craig.

Nel caso specifico, misurarsi con quello che (come detto in apertura di recensione) è a tutti gli effetti considerato il caposaldo del cinema horror, non è una passeggiata. Nonostante sia uscito prima il libro (come accade quasi sempre) rispetto al film, William Peter Blatty ce la mette davvero tutta, non sfigurando e, in alcuni casi, arrivando ad eguagliare l’opera cinematografica che tutti conosciamo. Il romanzo scorre piuttosto facilmente e senza grossi intoppi, non perdendo mai di incisività, salvo in alcuni frangenti forse troppo descrittivi (specialmente nella parte iniziale) che possono portare ad un calo dell’attenzione. Tuttavia, lo scorrere delle pagine ci guida verso un’escalation del pathos, esattamente come avviene nel film. Lo stile dell’autore è fluido e non particolarmente complesso e il pregio del libro, come è naturale che sia, è quello di approfondire alcuni aspetti che nella pellicola vengono tralasciati o affrontati solo marginalmente.

A partire dall’ispettore Kinderman, le cui indagini e intuizioni descritte nel libro, hanno finalmente un senso e una logica ben strutturata, passando per la figura di Chris MacNeil, col forte legame che lega lei e Regan, la bambina protagonista del romanzo, fino al maggiordomo Karl con sua moglie Willi e le loro vicende familiari, caratteristica totalmente assente nel film, i personaggi trovano tutti una profonda caratterizzazione che assicura profondità e respiro alla storia. Carismatica e ben approfondita la figura del gesuita Damien Karras, autentico fulcro del romanzo, con le sue debolezze e i suoi rimorsi a far da corollario ad una fede che vacilla in più di un’occasione. Interessantissime anche le disquisizioni mediche che accompagnano il lettore per tutto il libro, non cedendo mai alla semplicità di riconoscere totalmente e in maniera arrendevole, una possessione che pure sembrerebbe inequivocabile.

Di contro, almeno per quello che è la mia opinione, ho trovato piuttosto scarna la figura di padre Merrin, sul grande schermo interpretato dall’immenso Max Von Sydow, che avrebbe meritato una ben più approfondita caratterizzazione. È vero che il romanzo, così come il film, si apre concentrandosi sulla sequenza archeologica in Iraq, ma un passaggio più approfondito sull’attività di esorcista del buon Merrin sarebbe stata più che gradita. A bilanciare questa mancanza, tuttavia, troviamo una fondamentale e approfondito confronto tra i due sacerdoti sulla fede e il senso di colpa. Proprio quest’ultimo aspetto, infatti, è una caratteristica che torna più e più volte nel libro. Quel senso di colpa che Karras nutre nei confronti della madre e che gli impedisce di trovare quella pace interiore che lo riappacificherebbe con Dio, quello che Chris prova nei confronti della figlia, per via di una carriera che la assorbe costantemente e del recente divorzio. O quello che la stessa Regan nutre nei confronti della madre, così affermano tutti i medici che visitano la bambina, proprio per quest’ultima ragione.

La tensione c’è e la storia scorre accompagnata da un’atmosfera che si avvicina moltissimo a quella del romanzo. I dialoghi sono costruiti con credibilità, così come le disquisizioni mediche che appaiono solide e ben argomentate. Da non sottovalutare tutta la sottotrama collegata al folklore e che si ricollega agli episodi blasfemi che si verificano nei paraggi di casa MacNeil. Parliamo di un’opera non scontata, certamente all’avanguardia per l’epoca e fonte di ispirazione per innumerevoli altri prodotti che sarebbero arrivati in seguito. Un romanzo che alcuni potrebbero definire un po’ “impolverato” ma che sicuramente nella classifica dei migliori libri horror, non fatica a posizionarsi ancora piuttosto in alto, se non addirittura sul podio. Sempre lì, pronto a terrorizzare tutti noi.

07/04/2023

Il segno rosso del coraggio, di Stephen Crane

Andrea Brattelli ci trasporta nel racconto della guerra civile americana attraverso l'opera del giovane e squattrinato scrittore Stephen Crane, il quale morirà a soli 28 anni lasciando tuttavia un'importante traccia nella storia della letteratura. Da Il segno rosso del coraggio (1895), John Huston realizzerà nel 1951 La prova del fuoco.


Se vi ponessero la seguente domanda: "Quale pensiero ha perseguitato scrittori del calibro di Norman Mailer, Joseph Heller, James Jones e Karl Marlantes tanto da costituire un modello di ispirazione per le proprie opere?" La risposta da fornire sarebbe questa: "Il resoconto di Stephen Crane del passaggio di un giovane dall’adolescenza all’età adulta attraverso la metamorfosi di un soldato che tutti noi identifichiamo nel primo vero romanzo di guerra americano".

Lo scrittore in realtà non sperimentò mai gli orrori delle battaglie perché la guerra tra Stati era già finita prima che lui nascesse, ma la sua capacità di mettere a fuoco i dettagli, il realismo laconico della sua prosa, l’indagine minuziosa sulla psiche feroce dei soldati e il suo uso impressionistico del colore convinsero molti lettori per anni che egli fu un reale combattente piuttosto che un romanziere.

Alcuni critici ritengono che questo scritto, data la sua brevità ma, al contempo, incisività, sia il seme da cui nascerà, in seguito, il movimento modernista ed è alla base di tutte le opere letterarie di guerra contemporanee.

Crane, da scrittore freelance perennemente in difficoltà economiche, studiò il soggetto e l’ambientazione per il suo libro su riviste specializzate sulla guerra civile e parlando e disquisendo con i veterani.

In una intervista raccontò anche che sin da piccolo aveva fantasticato su storie di battaglie e sul poter incarnare un eroe combattivo; l’idea di un narratore che si immerge ed identifica nell’espressione letteraria del suo protagonista per redarre un romanzo è più famigliare al giorno d’oggi ma, nel 1890, era dannatamente originale e romantica come trovata! Creativamente fu la sua scelta più azzeccata e può essere paragonata a quella da cui scaturì Maggie: A Girl of the Streets (1893).

Il distintivo rosso del coraggio* non è un romanzo storico convenzionale. La sua ruvidezza, consistenza, densità è degna di un colossal cinematografico. Allo stesso tempo, infrangendo le regole, evita ogni riferimento al tempo e al luogo. Mentre si respira l’umidità de "la nebbia che si ritira" e che si solleva nelle prime pagine, si rivela un esercito "disteso sulle colline riposare". Questo periodo è seguito da un passaggio brillante, sicuramente un'ispirazione per le generazioni successive di sceneggiatori: "Di notte, quando il torrente era diventato di una triste oscurità, si poteva vedere attraverso di esso il bagliore rosso, simile ad un occhio, di fuochi da campo ostili appiccati nelle basse sopracciglia di colline lontane".

Dopo aver impostato la scena, e averla ampliata con una rapida e frugale sequenza di brevi capitoli, Crane svela il suo lato creativo: entra nella pelle di un giovane soldato, il volontario Henry Fleming, che si è arruolato come gesto di sfida a se stesso. Quando scoppia il combattimento intorno a lui, il coraggio lo abbandona. Non può affrontare la possibilità di subire "un distintivo rosso" e fugge, per poi tornare più tardi. Seguono altre schermaglie. Lentamente, il soldato vince la sua paura, diventa maturo, impara a essere un combattente e acquisisce appetito per la lotta.

Alla fine risulterà essere "un animale con vesciche e sudore nel caldo e nel dolore della guerra", ma ne è uscito illeso e, in qualche modo, guarito dalle sue ansie e paure. Diventerà quindi un amante assetato di immagini di cieli tranquilli, prati freschi, ruscelli dalle acque limpide, un uomo alla ricerca di un'esistenza di pace serena ed eterna che per essere raggiunta necessita di esercitare lo sforzo mentale, più pesante di quello fisico imposto dalle lotte intestine tra le genti, di disumanizzare il nemico, perché solo facendo ciò si capisce quando è il momento di combattere più per se stessi che per gli altri, che ci danno solo ordini, lottare per qualcosa che va al di là della vita che può terminare, in questi frangenti, in modo atroce... Ma ciò non accade forse anche fuori da certi contesti? Certe esperienze possono ritrovarsi utili in ogni evenienza. Ciò è evidenziato, anche da un’analisi odierna, quindi moderna, in tutti i conflitti nei quali porre dei limiti allo stress da combattimento servirà per ridurre l’impatto di paure sconosciute future.

Forse questo era il desiderio di Stephen, ma egli era già mortalmente malato di tubercolosi. Dopo la prima guerra mondiale il romanzo fu riscoperto, e da allora è rimasto come esempio imperituro della capacità narrativa di questo sfortunato giovane.

*In Italia è stato pubblicato con i titoli Il segno del coraggio, La prova del fuoco, Rosso è l'emblema del coraggio ma il titolo originale è The Red Badge of Courage.