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La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

28/05/2021

I Buddenbrook di Thomas Mann

Questa volta, Andrea Brattelli si cimenta con l'esordio dello scrittore tedesco Thomas Mann.



Quest’opera è la prima di Thomas Mann e gli valse il premio Nobel*. A distanza di un secolo ci sarebbe da chiedersi come fa uno scritto in cui si descrive il decadimento di quattro generazioni di commercianti ad essere ancora così apprezzato.

Se mi è permesso esprimere un parere, penso che il suo umorismo acuto e una trama fatidica siano la ricetta, oltre al fatto di descrivere tutto minuziosamente, tecnica quest’ultima mitigata da una sottile ironia per non rendere la narrazione stucchevole.

Le vicissitudini della famiglia, della sua ambivalente insicurezza e desiderio crescente di morte contemplata dalle donne che vi appartengono e che scimmiottano l’ideale della famiglia borghese non sono considerate necessariamente un male perché l’imprenditoria, puramente speculativa, tende ad essere accantonata in favore della più nobile arte.

Il vecchio Johann Buddenbrook cede infatti la fiorente azienda di famiglia a suo figlio Jean. Dopo la sua morte, suo figlio Thomas rileva l'attività e inizialmente la gestisce con successo. Dopo anni di attesa, finalmente nasce il tanto atteso primogenito della famiglia di Thomas; il piccolo Hanno è però sempre malaticcio e risulta piuttosto interessato all’arte che al commercio.

Il romanzo consta di undici parti di lunghezza quasi uniforme. L’autore ha scelto un contesto storico strettamente correlato ai fatti di cronaca (addirittura gli abitanti di Lubecca, luogo d’ambientazione della narrazione, si sono accorti che alcune comparse nello scritto erano dipinte in maniera identica a loro per fisionomia, costumi e modi di fare).

Gli eventi si svolgono in 42 anni (dal 1835 al 1877) e alcuni periodi vengono analizzati in maniera più dettagliata quindi la loro durata sembra maggiore.

Il linguaggio è sobrio, fresco, le discussioni vertono su fatti concreti.

Lo stile cambia nel corso del romanzo per far sì che si possa riprendere la discussione su più pagine: all'inizio, i personaggi sono principalmente caratterizzati dalla somma delle loro azioni, da ciò che affermano e da come lo dicono - vengono aggiunti successivi passaggi che ne illustrano la psicologia, soprattutto quando si descrive il nuovo nascituro. 

I dialetti e le espressioni idiomatiche giocano un ruolo speciale nella creazione dei personaggi. Ad esempio, il vecchio Johann Buddenbrook si distingue per la sua lingua, che alterna basso tedesco, alto tedesco e francese, il che lo rende agli occhi di tutti, lettori compresi, un uomo d'affari colto e illuminato. L'esatta riproduzione delle peculiarità del dialetto (ad esempio la cadenza della lingua prussiana orientale e bavarese) avvicina l’opera alla tecnica narrativa del naturalismo. 

La famosa ironia di Thomas Mann gioca un ruolo speciale, con l'aiuto del quale prende le distanze dai suoi personaggi, li smaschera o chiarisce l'assurdità di certi comportamenti attraverso una descrizione volutamente esagerata (iperbato).

Lo scrittore è il re della sintassi ipotattica (presenta quindi periodi in cui abbondano le frasi subordinate causali, temporali, relative, finali ecc.).

Il romanzo di Thomas Mann, che si basa sul suo background familiare, è ovviamente troppo individuale perché questo sviluppo possa essere generalizzato in ogni dettaglio. Tende ad essere corretto, tuttavia, poiché fa il punto della classe media a metà del 19° secolo. Ciò diventa particolarmente chiaro quando gli argomenti (storicamente garantiti) vengono discussi nel romanzo. 

L’autore stesso ha una profonda antipatia per lo Zollverein. A partire dal 1834, questo sistema avrebbe dovuto smantellare le barriere commerciali tra i piccoli stati tedeschi e garantire uno scambio regolare di merci a costi inferiori. Nelle discussioni tra gli appartenenti alla famiglia Buddenbrook, tuttavia, l'attenzione non verte principalmente sulla crescita dei profitti, ma sulla perdita dell’indipendenza.

I Buddenbrook è un romanzo di famiglia: tutti gli sviluppi importanti avvengono all'interno di questa sfera, gli eventi esterni passano in secondo piano. Il suo declino avviene internamente: l'ideale familiare dell'Ottocento, ancora intatto all'inizio del romanzo, si dissolve pian piano, la forza del legame dei membri della famiglia si attenua e la lealtà degli sposi si sgretola.

La filosofia di Schopenhauer ha avuto una grande influenza sul lavoro artistico di Thomas Mann, che si riflette anche nei Buddenbrook (Thomas Buddenbrook legge anche Schopenhauer): il contrasto che definisce la trama tra la vita quotidiana e l'arte, che Schopenhauer identifica nel Willing è radicato ed è l’unico mezzo affinché la seconda sfugga dalla prima.

Hanno di Buddenbrook è il simbolo della decadenza: il ragazzino è debole, meditabondo, introverso, ma allo stesso tempo fantasioso e musicale. Il suo amore per la musica rivela la sua profonda avversione per la vita commerciale e il mondo borghese. Thomas Mann non vede la decadenza solo negativamente: l'incapacità di vivere va di pari passo con la sensibilizzazione e l'estetizzazione.

Il segno più chiaro di decadenza è il desiderio di morte dei membri maschi della famiglia: mentre Johann Buddenbrook senior è ancora pienamente vivo, il console adempie i suoi doveri solo a "denti stretti" e passando attraverso "muro protettivo" di pietà e pietismo. Nonostante la sua grave serietà, Thomas è esposto a un imminente declino. Christian invece si trasforma presto in uno psicotico.

*l'opera fu pubblicata nel 1901, il Nobel del 1929 fu attribuito "principalmente" per I Buddenbrook e per La montagna incantata.

21/05/2021

Jurij Dombrovskij, Il conservatore del museo

Questa settimana Andrea Brattelli ci parla di uno degli ultimi libri dello scrittore russo Jurij Dombrovskij (1909-1978), che trascorse 18 anni tra lager e confino e venne ucciso da sconosciuti poco dopo la pubblicazione, a Parigi, del suo ultimo romanzo contenente una evidente critica al regime comunista. Il conservatore del museo apparve nel 1964, alla fine dell'epoca del "disgelo" di Krusciov. 




Il tema principale del libro in questione è la libertà di spirito nell’era del dispotismo. Quest’ultimo viene posto in netto contrasto con la coscienza storica del protagonista che conserva i manufatti del museo, se ne prende cura e ne conserva la memoria... Conserva in particolar modo il ricordo delle atrocità compiute dagli uomini nei secoli, a seguito delle quali la menzogna e la falsità hanno preso il sopravvento. Questa negatività però sembra essere un male necessario per arrivare ad un nuovo rinascimento dell’umanità e di ideali di rinnovamento.

La trama sembra non esserci in quest’opera, nessuna analisi dell’animo né del protagonista, né tantomeno di altri personaggi che sembrano disegnati da bambini che perlopiù scarabocchiano su fogli patinati con matite colorate spuntate e dalle mine rotte a seguito delle continue cadute causate dai loro modi maldestri.

Ci viene posto dinanzi, senza scelta, il tempo di una vita di una persona, tutto qui.

La vita di quest’uomo arranca dopo le repressioni di Stalin (il respiro del dittatore scivolerà tra le pagine del libro aiutandoci a voltar pagina di volta in volta pur senza esser nominato).

Notizie sui giornali, discussioni, non lo riguardano. Questo archetipo di personaggio serve allo scrittore per non dover discutere della dittatura comunista che viene relegata ai lembi dei fogli che compongono il romanzo: si può leggere qualcosa tra le righe che stona come le pieghe che facciamo alle pagine a mo' di segnalibro.

Sono poco spaventose...

Vivendo nella sua campana di vetro, il responsabile del museo ha solo un vago ricordo anestetizzato delle sue lotte per la libertà. Egli è uno storico che rimette insieme e cataloga manufatti in un museo non essendo più capace di sistemare anche solo qualcosa nella sua miserabile vita.

Questo è ciò che lascia dietro di sé dell’animo umano la dittatura.

Numera tutto, pedissequamente, come pena, come contrappasso per aver lasciato passare anni a combattere contro i mulini a vento a guisa di un Don Chisciotte dei tempi moderni.

Ogni tanto si concede qualche scampagnata per andare a scavare manufatti in luoghi imprecisati, da dove sono state inviate segnalazioni da gente del luogo.

Durante le pause lui e la sua squadra vengono invitati a ristorarsi col bere ma egli bevo poco o nulla e rimugina sempre. La sua rigidità è quella di una lastra di acciaio inossidabile che riflette la realtà senza viverla, un fantasma la cui vita del mondo che lo circonda gli passa attraverso.

Il protagonista quindi è un ex militante ma gli altri suoi colleghi chi sono? Cosa fanno? Sostanzialmente non si sa nulla. Kornilov è un esule che ha trovato lavoro al museo per puro caso, grazie alla carità di un politico? Clara è solo un’amica?

Alcune storie che fanno da cornice sono lasciate a metà come gli scavi che si portano avanti per far riaffiorare qualcosa di una tradizione e di una civiltà che ormai non c’è più.

Smottamenti, terremoti, alluvioni bloccano tutto.

Come deja-vu vediamo un'anziana che non si sa per quale motivo scolpisce il busto di una persona cara prematuramente scomparsa.

I dubbi sorgono durante la lettura, sul perché di certe scelte. Sono dubbi che assalgono anche i personaggi, che hanno paura del loro stesso vicino che li spia, che non si possono fidare di nessuno anche se tutti virtualmente connessi al museo che è come un'entità viva dei film dell’orrore che spaventa tutti ma non punisce poi nessuno (alcuni dipinti non possono essere esposti perché rappresentano fisicamente una realtà diversa da quella imposta dal comunismo e, in caso contrario, si viene minacciati).

Forse la risposta più semplice che possiamo dare ai nostri quesiti è che Il conservatore del museo è una storia di perseveranza: chi è sopravvissuto ai gulag torna alla propria vita a testa bassa cercando di viverla al meglio non cacciandosi più nei guai fino all’arrivo di tempi migliori.

14/05/2021

Davide Lajolo, Il vizio assurdo

Andrea Brattelli ci parla della biografia di Cesare Pavese scritta da Davide Lajolo.



Davide Lajolo è stato un grande amico di Pavese. L’amore fraterno che li legava continuò a cingere il cuore dell’autore di questo libro anche dopo la morte dello scrittore cuneese morto suicida.

Per questo motivo Lajolo aspettò dieci anni per redarre Il vizio assurdo e, ripresosi dal dolore, cercò di non focalizzarsi, nello scrivere, sul dramma umano di Pavese e le sue opere che ne palesano tutt’ora i dissidi interiori.

Nel lontano 1945 vi fu una conversazione tra Davide e Cesare dal sapore di una epifania. 

Un ricordo stigmatizzato riaffiorò nella mente dell’autore: a Torino, sotto il sole a picco, in un’atmosfera che ricordava un quadro di De Chirico, Pavese guardando negli occhi Lajolo asserì: "Il fatto che siamo poco sudati vuol dire che io e te valiamo ancora qualcosa perché siamo rimasti contadini. Il sole trova posto sulla nostra pelle e non ha bisogno di farla luccicare".

Tutti i discorsi tra i due riconducevano alla campagna. Cesare nei suoi libri ha lasciato tutto se stesso; certamente il meglio perché era come una vigna, seppur eccessivamente concimata. Forse è per questo che sentiva marcire in sé anche le parti che riteneva più sane. Il troppo letame moltiplica i vermi e distrugge il raccolto.

In questa biografia si è cercato di rallentare il passo per non viziarla con l’amicizia e redarre quindi uno scritto il più possibile attinente alla realtà dei fatti e che collimasse con il carattere di Pavese, un uomo che decantava i concetti ad alta voce e la parola gli prendeva le briglie... E il mulo taciturno così si trasformava in cavallo imbizzarrito; i discorsi continuavano a getto continuo, non accettando interruzioni.

Nell’animo dello scrittore cuneese, “lì dentro”, si manifestavano sentimenti di egoismo e generosità, fedeltà e tradimento.

Nessuno sapeva quando l’uno si sovrapponeva all’altro: quando egli aveva anche solo il sentore che una persona si stesse insinuando troppo nel suo vero “io” lui l’abbandonava.

Lasciava le donne, perché aveva paura dell’amore e della sofferenza che ne deriva; una sofferenza che spaventa, lo stesso spavento della madre che deve partorire.

Può definirsi Pavese un uomo complesso ancor prima che scrittore capace?

E' complessa la vigna, dove l’impasto concimi-sementi, acqua e sole, fornisce l’uva migliore, ma non quella dove, troppo spesso, alla stagione del raccolto le viti sono inaridite e senza grappoli.

Egli era costituito di tante parti che non si fondono; in letteratura l’aggettivo adatto è eclettico.

Questo era proprio l’aggettivo più odiato da lui. Quest’odio suppurava come una fistola che richiedeva una incisione chirurgica, e il bisturi usato è la penna di Lajolo.

Ritroviamo quindi quest’ultimo chino sui suoi appunti, intento a scrivere quest’opera. I versi divorano le radici e la vigna, gialla di filossera, è morta. E’ tempo di concludere in maniera stoica. Occorre però ben altro per sconfiggere il pessimismo di Pavese e il giudizio errato che dava di se stesso. Occorre molto di più che blaterale prediche e frasi scherzose per entrare nel suo cuore chiuso in un disperato disinganno e per sorreggere il suo fisico stremato.

07/05/2021

Guy de Maupassant, Una vita

Andrea Brattelli ci parla del primo romanzo di Maupassant. Dal 1881 lo scrittore francese inizia a soffrire di emicranie che tiene a bada con stupefacenti. Proprio allora pubblica la sua prima raccolta di racconti, La casa Tellier, che ha subito successo. Scrive tanto Maupassant, che nel 1883 termina il suo primo romanzo Una vita, prima come scritto d’appendice su un quotidiano e poi pubblicato in volume, vendendo parecchie copie. Il figlioccio di Flaubert, onesto, allergico all'ipocrisia borghese e clericale, sensibile e attento ai più deboli, morirà di neurosifilide nel 1893 a neppure 43 anni, dopo quasi due anni di incoscienza e un tentativo fallito di suicidio.


Una vita 

Il lettore capace di ascoltare le parole contenute nelle frasi dell’autore, che lasciano solchi profondi come ferite inferte dalle sue angosce, frutto della sua visione pessimistica della vita, si accorgerà che Maupassant non è uno scrittore di romanzi ameni. Ci trae in inganno il suo fraseggiare breve e scorrevole, il suo descrivere l’essere umano in maniera volgare, volto quasi esclusivamente ad assecondare istintivamente il desiderio di godimenti materiali, allettato dalla vita mondana.

Nello scrittore non vi è una predisposizione naturale alla gioia di vivere; quest’ultima è un’aspirazione tormentante, un’ansia segreta di liberazione, che si consuma nell’atto stesso in cui viene soddisfatta, accrescendo così lo sconforto e l’inquietudine.

Questi sentimenti si nascondono sotto la sabbia dello scorrere del tempo mentre la trasparenza, come l’acqua di mare che accarezza i fondali dei mari, facilita la comunicazione allo stato puro.

Il mestiere dello scrittore, secondo Maupassant, è quello di far compiere uno slancio al lettore e di saper fargli leggere nel tempo la corretta cronologia degli avvenimenti, in modo da farlo respirare a pieni polmoni la vita, obbligandolo a trascurare divertimenti e commozioni a favore di una comprensione profonda dell’universo e delle cose che ci circondano.

Per destare in noi un’emozione quindi, non diversa da quella che ogni autore prova dinanzi allo spettacolo della vita, Egli deve riprodurla con scrupolosa verosimiglianza.

La serietà di Maupassant non può dunque essere revocata in discussione e, anzi, l’esplicita formulazione del suo programma d’arte mette in evidenza il suo aggiornamento coi problemi di struttura tecnica che sono propri del racconto e del romanzo e ad un tempo il suo proposito di farli progredire sulla strada di soluzioni convincenti.

Il romanzo così concepito vi guadagna quanto ad interesse, a dinamica narrativa, a colore, a ritmo vitale.

Invece di illustrare a lungo lo stato d’animo di un personaggio, gli scrittori obiettivi, non necessariamente naturalisti, cercano di cogliere quell’azione o quel gesto che un certo stato d’animo deve far compiere necessariamente ad un dato individuo in una determinata situazione; e da un capo all’altro del romanzo fanno sì che codesto individuo si comporti in maniera tale che ogni suo atto o movimento siano il riflesso della sua natura interiore.

Essi nascondono pertanto la psicologia e ne fanno la carcassa dell’opera, così come l’ossatura invisibile è la carcassa dell’essere umano.

Maupassant, sostanzialmente, aderisce al principio dell’impassibilità dello scrittore recependolo come stimolo alla scrupolosa descrizione del reale e soprattutto accettandolo quale reagente alla tentazione di inserirsi nel racconto con effusioni liriche e ricordi di esperienze autobiografiche.

04/05/2021

La metà del doppio di Fernando Bermúdez (2020)


Non è facile, per me che non sono particolarmente esperta di letteratura fantastica, recensire questa raccolta di racconti edita da Edizioni Spartaco nel 2020 (apparsa in Argentina nel 1997 con dieci racconti, metà dei quali selezionata per questa edizione italiana che vede inoltre l'aggiunta di due inediti); ma il libro in oggetto va ben oltre ogni tentativo di classificazione.

Fernando Bermúdez è nato a Buenos Aires nel 1962, vive a Stoccolma ed è docente di linguistica; e si vede. Scrivo di proposito che si vede, invece di "si legge/si intuisce"; perché la scrittura di Bermúdez ci riempie di immagini; immagini che richiedono anche un incessante lavoro di interpretazione psicologica e che ci conducono attraverso un continuo mutamento dei tempi e degli spazi, reali e mentali.

Non è una lettura passiva quella che ci aspetta. Fin dal primo racconto, Mezzanotte passata, quello più "semplice", lineare e ordinario, ci viene richiesta insieme una forte partecipazione emotiva (il protagonista è un infermo alle prese con il rimpianto di un amore passato che ritorna feroce insieme alle considerazioni sulla condizione attuale) e quasi cinematografica, poiché sembra di essere davanti a una sceneggiatura o a un testo teatrale. La tematica della disabilità, questa volta visiva, tornerà poi nel racconto Mappa mundi.

L'utilizzo del linguaggio (e qui il mio pensiero va al lavoro di traduzione, che deve essere stato davvero accurato, per poter restituire l'unicità della composizione originale) serve a creare un connubio tra la dimensione della narrativa grottesca e surreale e quella collegata agli accadimenti reali, che come da tradizione in questo genere si mescolano irrimediabilmente con l'illusione, il falso, l'ambiguo.

Le citazioni letterarie sulla realtà/menzogna del resto sono rese esplicite nel racconto La condizione genuina, che regala anche una riflessione sulla forma stessa di alcune lettere dell'alfabeto. In Blomma poi raggiungiamo forse l'esempio del massimo coinvolgimento del lettore (anzi, lettrice). 

Ma il racconto più significativo, dal quale viene estrapolata una frase che offre il titolo della raccolta, è Hugo Talmann, morto a New York, con uno scrittore che attraverso continue creazioni manipola la realtà fino a ritrovarsi con un tumore al cervello.

Impossibile non scorgere tra le righe di Bermúdez (che ha vinto il Premio Cortázar e il Premio Rulfo) il lascito di Borges, ma anche echi ai nostrani Buzzati e Calvino, con in più qualcosa che lo accomuna allo stile di Carver.