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14/05/2021

Davide Lajolo, Il vizio assurdo

Andrea Brattelli ci parla della biografia di Cesare Pavese scritta da Davide Lajolo.



Davide Lajolo è stato un grande amico di Pavese. L’amore fraterno che li legava continuò a cingere il cuore dell’autore di questo libro anche dopo la morte dello scrittore cuneese morto suicida.

Per questo motivo Lajolo aspettò dieci anni per redarre Il vizio assurdo e, ripresosi dal dolore, cercò di non focalizzarsi, nello scrivere, sul dramma umano di Pavese e le sue opere che ne palesano tutt’ora i dissidi interiori.

Nel lontano 1945 vi fu una conversazione tra Davide e Cesare dal sapore di una epifania. 

Un ricordo stigmatizzato riaffiorò nella mente dell’autore: a Torino, sotto il sole a picco, in un’atmosfera che ricordava un quadro di De Chirico, Pavese guardando negli occhi Lajolo asserì: "Il fatto che siamo poco sudati vuol dire che io e te valiamo ancora qualcosa perché siamo rimasti contadini. Il sole trova posto sulla nostra pelle e non ha bisogno di farla luccicare".

Tutti i discorsi tra i due riconducevano alla campagna. Cesare nei suoi libri ha lasciato tutto se stesso; certamente il meglio perché era come una vigna, seppur eccessivamente concimata. Forse è per questo che sentiva marcire in sé anche le parti che riteneva più sane. Il troppo letame moltiplica i vermi e distrugge il raccolto.

In questa biografia si è cercato di rallentare il passo per non viziarla con l’amicizia e redarre quindi uno scritto il più possibile attinente alla realtà dei fatti e che collimasse con il carattere di Pavese, un uomo che decantava i concetti ad alta voce e la parola gli prendeva le briglie... E il mulo taciturno così si trasformava in cavallo imbizzarrito; i discorsi continuavano a getto continuo, non accettando interruzioni.

Nell’animo dello scrittore cuneese, “lì dentro”, si manifestavano sentimenti di egoismo e generosità, fedeltà e tradimento.

Nessuno sapeva quando l’uno si sovrapponeva all’altro: quando egli aveva anche solo il sentore che una persona si stesse insinuando troppo nel suo vero “io” lui l’abbandonava.

Lasciava le donne, perché aveva paura dell’amore e della sofferenza che ne deriva; una sofferenza che spaventa, lo stesso spavento della madre che deve partorire.

Può definirsi Pavese un uomo complesso ancor prima che scrittore capace?

E' complessa la vigna, dove l’impasto concimi-sementi, acqua e sole, fornisce l’uva migliore, ma non quella dove, troppo spesso, alla stagione del raccolto le viti sono inaridite e senza grappoli.

Egli era costituito di tante parti che non si fondono; in letteratura l’aggettivo adatto è eclettico.

Questo era proprio l’aggettivo più odiato da lui. Quest’odio suppurava come una fistola che richiedeva una incisione chirurgica, e il bisturi usato è la penna di Lajolo.

Ritroviamo quindi quest’ultimo chino sui suoi appunti, intento a scrivere quest’opera. I versi divorano le radici e la vigna, gialla di filossera, è morta. E’ tempo di concludere in maniera stoica. Occorre però ben altro per sconfiggere il pessimismo di Pavese e il giudizio errato che dava di se stesso. Occorre molto di più che blaterale prediche e frasi scherzose per entrare nel suo cuore chiuso in un disperato disinganno e per sorreggere il suo fisico stremato.

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