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La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

05/05/2023

Romano Bilenchi, Il gelo

Andrea Brattelli sceglie spesso titoli poco ordinari da recensire: stavolta propone Il gelo di Romano Bilenchi. Pubblicato nel 1982, è un romanzo che, scrive Geno Pampaloni nella prefazione, "vuole cogliere, nell'adolescenza, la situazione germinale dell'assedio cui l'uomo di oggi è sottoposto; gli interessa l'esperienza della solitudine, del non-comunicare (...). L'infanzia, l'età pre-ideologica, non è infatti idoleggiata come un mito; ma è l'anticipazione, la verifica, la semplificata verità di un modello "fatale" di rapporto con la realtà (natura e società)". Per chi lo desidera, è disponibile la lettura del libro su Ad alta voce, a questo link.


Ogni anno la solita storia, ci si ritrova ad annaspare in un marasma di libri catalogati non per genere ma secondo la dirittura di arrivo nelle varie competizioni, come se si trattasse di Formula Uno: “Premio Bancarella”, “Premio Strega”, “Premio Campiello” ecc.

Il gelo di Romano Bilenchi (scrittore nato a Siena nel 1909) con la snellezza delle sue scarse cento pagine compie ciò che decine di questi libri promossi nelle varie gare cercano di fare.

L’espediente narrativo, il MacGuffin di Hitchcockiana memoria del “coming of age” ha una lunga tradizione letteraria. Robin Crusoe ad esempio, con la sua ostinata e sfortunata tendenza a non seguire i consigli paterni penso sia il primo della saga. Tra altri del genere annoveriamo Huckleberry Finn e il più recente The Catcher in the Rye (it. Il giovane Holden).

Pubblicato nel 1982, quest’opera è il fiore della creazione di Bilenchi i cui petali accarezzano lo sconvolgimento emotivo dell’adolescenza, che sbocciano nell’età adulta e la influenzano positivamente o negativamente.

Il titolo è la sintesi del romanzo e si palesa sin dalla prima riga con questa frase:

“Il gelo del sospetto e dell'incomprensione si contrappose tra me e l'umanità
all’età di sedici anni, all'epoca dei miei esami di maturità".

L'arrivo e la transizione dall'infanzia all'età adulta è una forma di disillusione. Per il giovane protagonista si verifica nel momento in cui suo nonno muore. La sua adorazione per l’anziano si trasforma in disprezzo per il resto della sua famiglia, per come gestiscono sia il funerale, sia la memoria del defunto. Il patriarca era un narratore di storie e quindi appariva più antico dell’intera umanità agli occhi del ragazzino. I parenti invece lo consideravano un mentecatto affetto da demenza senile e ciò dispiaceva al fanciullo.

Il freddo, a seguito del lutto, entra così nel suo cuore e alla sua fervida immaginazione alimentata dai racconti del nonno si sostituiscono scetticismo e smarrimento; non riesce a elaborare la perdita.

Nella campagna rurale lo smarrimento del giovane, metaforicamente evidenziato dalle descrizioni delle sue passeggiate faticose, appesantite dal fardello dei pensieri, è mirabilmente descritto: sembra quasi di leggere un’opera di Faulkner. La natura selvaggia ricalca e simboleggia lo spirito impetuoso del ragazzo che passa dall’adolescenza all’età adulta, cercando di sopprimere quegli istinti primordiali in una Italia che ancora non ha svezzato i suoi connazionali e quindi non li ha resi capaci di parlare serenamente in famiglia di tali pulsioni. Erano anni in cui la “transitorietà” faceva da padrona, mutamenti che sono invece per natura eutocici* nella vita dell’essere umano, ma, in simili contesti, la sessualità rende tutto solo molto imbarazzante.

L'oscurità che ne deriva è in contrasto con il paesaggio pastorale e sembra che qualcuno ci costringa a svernare col gregge in una grotta in cui penetra solo la brezza invernale. Siamo come le comparse in questo romanzo: come i braccianti, con la testa china a zappare, non siamo autorizzati a godere il sole che accarezza i girasoli seppure sono talmente vicini da poterli sfiorare con le dita; siamo come le giovani massaie che vengono esiliate presso parenti lontani o costrette a farsi monache per non portare “le colpe” a casa e non finire in galera per aborti occultati. Tutto è infettato dal seme del sospetto e ci sembra assurdo che Bilenchi da ragazzo abbia dovuto subire tutto ciò perché anche la più fervida immaginazione di scrittore non può imbastire un resoconto così ben dettagliato della sopravvivenza nelle colline senesi di un tempo. Sarebbe logico pensare, quindi, che tutto ciò sia accaduto realmente o sia quantomeno ispirato a fatti genuini ed autentici. L’esilio emotivo che pervade il romanzo è l’amara conseguenza della Strapaesanità di allora e non una invenzione.


*eutòcico agg. [der. di eutocia] (pl. m. -ci). – In medicina, detto di parto che si svolge normalmente (Treccani)

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