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La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

04/03/2022

Ho scelto la libertà di Viktor Andrijovyč Kravčenko

Questa settimana Andrea Brattelli parla di un libro parecchio attuale: Ho scelto la libertà di Viktor Andrijovyč Kravčenko, pubblicato in Italia nel 1948. Lo scrittore, nato in una famiglia di rivoluzionari, fu testimone della riduzione alla fame dei contadini ucraini durante la collettivizzazione forzata.



Da quando ho iniziato a scegliere insieme a Vaina i libri da recensire per il suo blog è aumentata la voglia in me di andare per mercatini e antiche librerie indipendenti a caccia di libri non dico introvabili ma quantomeno caduti nell’oblio, dimenticati inspiegabilmente in primis dalle case editrici che non li hanno più ristampati.

Ho scelto la libertà è uno di questi, non più commercializzato nonostante l’importanza storica che riveste, la triste attualità degli argomenti trattati . Se non si dà più importanza a simili opere mi chiedo a cosa serva riempirsi la bocca con frasi del tipo “la storia va insegnata, studiata ed imparata affinché alcune tragedie per l’umanità non si ripetano più”.

Preso al volo, questo libro l’ho inizialmente accatastato vicino ad altri di cui leggo di ognuno alcune pagine per decidere poi cosa proporre e terminare eventualmente la lettura di uno di essi.

Lo scritto di Kravčenko mi ha preso subito sin dall’inizio e l’ho divorato, nell’attesa di poterlo proporre in un momento che, speravo, non sarebbe mai arrivato, ma che, purtroppo, è giunto, e fatico a scriverne per rispetto nei confronti del dolore altrui: ho paura che qualsiasi cosa io proponga sia banale e non opportuno. 

È una storia vera in cui vengono narrate le vicende legate ad un funzionario di Stalin, pagine dolorose della storia umana che riempirono le cronache solo dopo “il processo del secolo”. Come il nome di Kravčenko sia stato dimenticato, diversamente da quanto non è capitato fortunatamente a Solženicyn, a me pare un mistero o quasi.

Ci sarebbe infatti da ricordare che, non appena un individuo osava denunciare il sistema sovietico, veniva immediatamente calunniato e insultato. Nella migliore delle ipotesi subiva l’oblio sotto una coltre copiosa di fango.

Accusato di essere una spia americana, lo scrittore russo vinse la causa per diffamazione. Pura formalità comunque, le scuse sincere arrivarono troppo tardi, dopo la sua uccisione mascherata da finto suicidio, avvenuta nel 1966.

Noi leggiamo Primo Levi o Anna Frank perché questi autori, partendo da un punto di vista personale, basato sull’esperienza, raccontano poi in maniera cruda i fatti. Questo è ciò che fa anche lo scrittore russo. La metodologia di svolgimento precedentemente descritta non vuol essere un “indorare la pillola” per aiutarci a metabolizzare storie tragicamente indigeste. Il fatto è che il meccanismo dell’autobiografia aiuta ad immedesimarsi e comprendere in maniera empatica.

Kravčenko racconta ciò che ha patito con una sincerità che si percepisce in ogni pagina. Narra come ha "vissuto" all'interno di questo inferno, come è riuscito a resistere, in che maniera, ovvero, con una certa dose di fortuna; è riuscito a sopravvivere e ottenere posizioni piuttosto "privilegiate". Spiega come è riuscito a fuggire, non senza pericoli, e devi aver almeno letto il suo libro per misurare la dose di forza psicologica e fisica che richiede questa disumana avventura.

Da questa lettura si evince anche che non è sempre così ovvio determinare chi sono i carnefici in un sistema in cui la nozione di responsabilità non ha più senso. Al di là degli individui, vediamo che è soprattutto un sistema ultra-statale , ultra-centralizzato, ultra-burocratico che produce questo abominio. Se Stalin era, naturalmente, l'apice di un tale sistema, non sorprende che il profondo dispotismo di quest'ultimo sia sopravvissuto al despota. E arriviamo a porci questa domanda spaventosa: se vivessi in un tale sistema, quale posto occuperei? 

Questa domanda che mi sono fatto mi porta forse ad essere, come temevo sin dall’inizio, inopportuno scrivendo questo pensiero: di primo acchito questo romanzo mi ha fatto venire in mente Animal Farm. Per noi che non abbiamo mai avuto simili problemi queste creazioni della letteratura, seppur pregevoli, sembrano caricature della società esagerate, se va bene le intendiamo come romanzi distopici troppo esterni a noi stessi. E’ forse per questo che Kravčenko è stato dimenticato? Ha trattato un argomento per noi troppo irreale?

Chiudo scrivendo che questo libro è un grido disperato di aiuto, urlato dalle vittime dell’Holodomor che riecheggia nelle pagine di Storia. Mi affido quindi alle parole di Schopenhauer che scrisse:

“[…] Mi spingerei persino ad attribuire alle biografie, e soprattutto alle autobiografie, un valore maggiore che alla storia stessa, almeno per come viene normalmente trattata, dal punto di vista dell'intima conoscenza della natura umana. Da un lato, per i primi, i dati sono raccolti in modo più diretto e completo rispetto ai secondi; d'altra parte, nella storia vera e propria, non sono tanto gli uomini ad agire, ma i popoli e gli eserciti; una biografia fedele ci mostra in una sfera ristretta la via dell'azione dell'uomo con tutte le sue sfumature e forme, la saggezza, la virtù, la santità in pochi, la stupidità, la bassezza, la malignità nella maggior parte e in altri anche il male.[…]

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