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04/08/2023

Diario di Hiroshima, di Michihiko Hachiya

Tra pochi giorni ricorreranno gli anniversari dello sgancio degli ordigni nucleari sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki da parte degli Stati Uniti. Questi avvenimenti hanno avuto un impatto tale che ancora oggi ne commemoriamo le vittime: ad esempio domenica 6 agosto tornerà a Bologna la cerimonia delle lanterne galleggianti. Andrea Brattelli ha scelto di ricordare le tragedie nipponiche parlando di Diario di Hiroshima di Michihiko Hachiya, crudo resoconto di un medico che racconta delle cure prestate alle persone colpite.



Quest’opera è una affascinante documentazione su quanto accaduto a Hiroshima in seguito al lancio della bomba atomica che portò alla resa del Giappone dopo due settimane sul finire della Seconda Guerra Mondiale. Un genuino resoconto sul campo redatto da un medico giapponese che si trovava lì in quei tragici momenti e che potrebbe essere utile per approfondire la nostra conoscenza su quanto accaduto quel giorno ed è sicuramente un valido compendio a qualsiasi libro concernente il secondo conflitto mondiale.

Dal 6 Agosto al 30 Settembre 1945, il dottor Michihiko Hachiya tenne un diario sul quale annotò tutte le sue esperienze durante lo sgancio della bomba atomica su Hiroshima e ciò che accadde i giorni successivi. È una toccante testimonianza diretta dell’orrore e degli incubi generati dall’olocausto nucleare, resoconto monumentale che documenta sia le vicissitudini del protagonista/scrittore, sia quelle di vari sopravvissuti.

Hachiya è stato, essendo un medico, tra i primi uomini al mondo a studiare gli effetti della radioattività sulle persone e a fornire quindi un resoconto dettagliato dei danni da radiazione. Durante questo periodo estremamente difficile ci coinvolge stranamente lo sbigottimento dei sanitari; la paura aveva lasciato spazio allo stupore nel vedere cosa l’uomo era terribilmente stato capace di fare liberando energie che prima si attribuivano esclusivamente al dominio degli dei. Mi è venuta in mente, leggendo queste pagine in particolare, la frase di Platone: "Solo i morti hanno visto la fine della guerra".

Gli occhi del mondo si posarono sulle rovine di un paese distrutto, contemplando la distruzione portata da un ordigno i cui effetti devastanti non erano stati mai sperimentati sino ad allora. Mentre il sangue fuoriusciva da ogni orifizio di “burattini” sopravvissuti, loro malgrado, all’attacco, i medici cercavano di curarli anche analizzando i loro fluidi e umori corporei: staccandosi dal malato morente correvano con dei campioni verso i microscopi e, stropicciandosi via dalle mani i capelli dei leucemici per utilizzare le piccole manopole per mettere a fuoco lembi di pelle e scrutarli meglio, osservavano sistemi biologici mutati come in un horror fantascientifico di serie B.

Scrivo tutto ciò per avvertirvi che questo reportage non è per i deboli di cuore; la descrizione delle condizioni fisiche delle vittime è talmente ben articolata che vi sembrerà davvero di essere trasportati in un obitorio per osservare quei corpi sfigurati e gravemente ustionati.

Sembrerà assurdo ma, nonostante tutto ciò, persone che anche dopo un mese venivano ritrovate quasi morte e sconquassate da dolori, avevano ancora la forza per gridare che il governo giapponese non doveva arrendersi. C’è chi giurava di aver sentito tra le fiamme generate dall’esplosione gente che flebilmente, con l’ultima aria nei polmoni, supplicava tutti di non arrendersi. Assumevano le sembianze di fuochi fatui che dalle fiamme dell’inferno facevano capolino per affermare in qualsiasi modo, anche in maniera ingenua, la loro presenza nel regno dei vivi. "Solo un codardo si tirerebbe indietro ora", asserivano; "preferirei morire piuttosto che essere sconfitto" alcuni dicevano, e via discorrendo. L’orgoglio era più importante della vita loro e dei connazionali.

In seguito gli americani sbarcarono sulle coste del Giappone. Ci si aspettava che ne approfittassero per finire di uccidere i sopravvissuti, ma ciò non accadde. Consegnate tutte le spade, le katane dei samurai che finirono confiscate, bruciate o, molto più probabilmente, rubate dai generali dell’esercito statunitense, iniziò l’opera di ricostruzione del paese.

Hachiya morì nel 1980. Nonostante visse a un miglio da dove esplose la bomba campò molto a lungo; le radiazioni non ebbero molto effetto su di lui a quanto pare. Secondo me è da paragonare a un angelo caduto dal cielo a seguito di un cataclisma per occuparsi dei dolori dei comuni mortali e la sua penitenza per essere il fortunato sopravvissuto a quelle condizioni in cui tutti perirono è stata il dover ricordare la tragedia in ogni singolo dettaglio ogni istante della sua restante vita da quel maledetto giorno in poi.

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