Lucia Berlin non si vergognava di nulla. Né io avevo mai letto un'autobiografia scritta a episodi, alcuni assai brevi e singolari, molti vagamente romanzati, ma tutti pieni di una vita tempestosa, vissuta intensamente e narrata in modo freddo, quasi alla Richard Matheson (ma la critica la accosta a Alice Munro).
Dentro le storie di La donna che scriveva racconti ci sono tutte le tragedie che si possano immaginare, e molte sono autobiografiche: la scoliosi, una vita in continuo viaggio tra tanti lavori precari, mariti e figli, e l'alcolismo come dipendenza ereditata dal nonno. Impossibile distinguere i racconti privati dalle narrazioni dell'autrice onnisciente.
Troviamo così i tentativi di disintossicazione dall'alcool, alcuni dentro casa con i figli che le nascondono i soldi e altri in posti dimenticati da Dio e dall'uomo; un tentato aborto in Messico; l'aborto provocato dalle botte del compagno tossicodipendente; le molestie di un ricco rampollo pedofilo e del nonno; la chemioterapia della sorella; ma in questo volume, a condividere le tragedie della Berlin, ci sono anche tante persone indigenti e ignoranti.
Sono ormai pochi i libri che trovo irrinunciabili, ancora meno quelli che ritengo validi compagni di vita e casi eccezionali quelli che penso contengano insegnamenti utili a rendere meno traumatico l'approccio alla malattia, alla solitudine e alla tomba. Questo è uno di quei libri.
Lo leggerò
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