Non morire di Anne Boyer (nata a Topeka nel 1973), Premio Pulitzer 2020, è un racconto sulla non-morte della scrittrice. Che è anche poetessa: e si percepisce, ad esempio quando parla del letto come di un luogo di amore e di riposo ma che richiama anche un'idea di morte, citando John Donne.
Il titolo originale, The Undying: Pain, Vulnerability, Mortality, Medicine, Art, Time, Dreams, Data, Exhaustion, Cancer, and Care, è un indice dei contenuti di questo libro che è allo stesso tempo un diario, una riflessione sul sistema sanitario statunitense e un manuale di letteratura sul cancro.
Non mancano infatti riflessioni tratte da pagine di grandi scrittori: figura ricorrente, la prima a essere citata, è quella di Susan Sontag, che fu colpita dal cancro in tre momenti diversi e morì a causa di questo male, descrivendolo in modo incredibilmente acuto nel libro Malattia come metafora (1977).
Anne Boyer scopre, una settimana dopo il quarantunesimo compleanno, di avere un cancro al seno altamente aggressivo: triplo negativo. La scrittrice sottolinea la particolarità del cancro alla mammella rispetto ad altri tipi di tumore: è femminile, deforma il corpo, attacca una parte legata all’estetica e all’identità, così come i capelli che se ne vanno con la chemio. Anche il personale delle strutture ospedaliere e dei padiglioni (che sono "luoghi di transito" letterale e metaforico) è spesso femminile, a replicare il lavoro di cura spesso invisibile svolto tra le mura domestiche. Le altre donne malate sono da invidiare (se stanno meglio) o da temere quando peggiorano.
Un altro aspetto è quello della malattia largamente mediata dal digitale: a iniziare dall’autodiagnosi e dalla ricerca dei dati relativi alla sopravvivenza; e poi gli esami stessi, nei quali la paziente viene sottoposta a scansioni e “letta” dalle macchine; e ancora il web dei falsi malati, di quelli che “il cancro è un’invenzione di Big Pharma”, dei sostenitori di improbabili terapie alternative che si pentono (agghiaccianti i commenti sotto i video delle persone decedute) e dei feticisti del cancro.
Boyer pone poi l’accento sull’industria sanitaria statunitense privata, con polizze che spesso non coprono le terapie necessarie. La chemioterapia, che debilita tanto il cancro quanto la persona nel quale il male si è generato, si addentra nel corpo tramite il port, dove però si infiltra anche la trita retorica del think positive nel tentativo di camuffare il dolore (anche attraverso il trucco, le parrucche e gli abiti sgargianti) e quella ancora più triste della “guerra da vincere”, quasi a farne una responsabilità personale in caso di morte. La retorica del “f***ulo il cancro” è sbagliata, perché il cancro è parte del corpo. L’atteggiamento è tutto? Provate a dirlo a chi ha l’ebola, provoca Boyer.
Questo libro, che mi pare tradotto in modo davvero rimarchevole da Viola Di Grado, è anche un insieme di sigle, termini e diagnosi; ma è soprattutto una prosa che colpisce l’immaginazione anche con immagini inaspettatamente poetiche. La storia della malattia non è la storia della medicina: è la storia del mondo, dice Boyer. Rifiutare la chemioterapia significa morte certa; farla è sentirsi morire ma, spesso, riuscire a vivere, anche se mai completamente risanate. E nel frattempo, infragilite e trasformate, bisogna trovare la forza per tornare a lavorare.
Concludo dicendo che sarebbe difficile trovare una parte “preferita”, tra queste pagine tutte coinvolgenti. Il concetto più interessante è forse quello della malattia come rivoluzione. Mentre l’idea più struggente e poetica al tempo stesso è quella legata al tempio delle lacrime di Giulietta Masina: un “luogo di pianto pubblico… dove tutti i bisognosi di lacrime potessero riunirsi e piangere in buona compagnia e con un equipaggiamento adeguato”, che Boyer aveva sognato di creare prima di ammalarsi.
Boyer vuole lasciare anche un messaggio di speranza: la sofferenza non è (o meglio, non lo è necessariamente) il contrario della bellezza. E se, parafrasando Emmanuel Lévinas, la sofferenza è inutile, Boyer ci ricorda che è quanto si dice anche della poesia. Dunque, ci può essere poesia anche nel dolore.