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Niente di vero, Raimo. Il posto, Ernaux

Che senso ha accostare due titoli molto diversi per stile, contenuto e periodo narrato? Perché nella scheda di presentazione di Niente di ve...

17/08/2021

Non morire di Anne Boyer

Non morire di Anne Boyer (nata a Topeka nel 1973), Premio Pulitzer 2020, è un racconto sulla non-morte della scrittrice. Che è anche poetessa: e si percepisce, ad esempio quando parla del letto come di un luogo di amore e di riposo ma che richiama anche un'idea di morte, citando John Donne.


Il titolo originale, The Undying: Pain, Vulnerability, Mortality, Medicine, Art, Time, Dreams, Data, Exhaustion, Cancer, and Care, è un indice dei contenuti di questo libro che è allo stesso tempo un diario, una riflessione sul sistema sanitario statunitense e un manuale di letteratura sul cancro.

Non mancano infatti riflessioni tratte da pagine di grandi scrittori: figura ricorrente, la prima a essere citata, è quella di Susan Sontag, che fu colpita dal cancro in tre momenti diversi e morì a causa di questo male, descrivendolo in modo incredibilmente acuto nel libro Malattia come metafora (1977).

Anne Boyer scopre, una settimana dopo il quarantunesimo compleanno, di avere un cancro al seno altamente aggressivo: triplo negativo. La scrittrice sottolinea la particolarità del cancro alla mammella rispetto ad altri tipi di tumore: è femminile, deforma il corpo, attacca una parte legata all’estetica e all’identità, così come i capelli che se ne vanno con la chemio. Anche il personale delle strutture ospedaliere e dei padiglioni (che sono "luoghi di transito" letterale e metaforico) è spesso femminile, a replicare il lavoro di cura spesso invisibile svolto tra le mura domestiche. Le altre donne malate sono da invidiare (se stanno meglio) o da temere quando peggiorano.

Un altro aspetto è quello della malattia largamente mediata dal digitale: a iniziare dall’autodiagnosi e dalla ricerca dei dati relativi alla sopravvivenza; e poi gli esami stessi, nei quali la paziente viene sottoposta a scansioni e “letta” dalle macchine; e ancora il web dei falsi malati, di quelli che “il cancro è un’invenzione di Big Pharma”, dei sostenitori di improbabili terapie alternative che si pentono (agghiaccianti i commenti sotto i video delle persone decedute) e dei feticisti del cancro.

Boyer pone poi l’accento sull’industria sanitaria statunitense privata, con polizze che spesso non coprono le terapie necessarie. La chemioterapia, che debilita tanto il cancro quanto la persona nel quale il male si è generato, si addentra nel corpo tramite il port, dove però si infiltra anche la trita retorica del think positive nel tentativo di camuffare il dolore (anche attraverso il trucco, le parrucche e gli abiti sgargianti) e quella ancora più triste della “guerra da vincere”, quasi a farne una responsabilità personale in caso di morte. La retorica del “f***ulo il cancro” è sbagliata, perché il cancro è parte del corpo. L’atteggiamento è tutto? Provate a dirlo a chi ha l’ebola, provoca Boyer.

Questo libro, che mi pare tradotto in modo davvero rimarchevole da Viola Di Grado, è anche un insieme di sigle, termini e diagnosi; ma è soprattutto una prosa che colpisce l’immaginazione anche con immagini inaspettatamente poetiche. La storia della malattia non è la storia della medicina: è la storia del mondo, dice Boyer. Rifiutare la chemioterapia significa morte certa; farla è sentirsi morire ma, spesso, riuscire a vivere, anche se mai completamente risanate. E nel frattempo, infragilite e trasformate, bisogna trovare la forza per tornare a lavorare.

Concludo dicendo che sarebbe difficile trovare una parte “preferita”, tra queste pagine tutte coinvolgenti. Il concetto più interessante è forse quello della malattia come rivoluzione. Mentre l’idea più struggente e poetica al tempo stesso è quella legata al tempio delle lacrime di Giulietta Masina: un “luogo di pianto pubblico… dove tutti i bisognosi di lacrime potessero riunirsi e piangere in buona compagnia e con un equipaggiamento adeguato”, che Boyer aveva sognato di creare prima di ammalarsi.

Boyer vuole lasciare anche un messaggio di speranza: la sofferenza non è (o meglio, non lo è necessariamente) il contrario della bellezza. E se, parafrasando Emmanuel Lévinas, la sofferenza è inutile, Boyer ci ricorda che è quanto si dice anche della poesia. Dunque, ci può essere poesia anche nel dolore.

10/08/2021

Febbre di Jonathan Bazzi

Finalmente riprendo le mie recensioni. E lo faccio parlando di Febbre, del 2019.


Finalista al Premio Strega 2020, l’autobiografia di Jonathan Bazzi colpisce per la sua brutalità. 

Febbre è il racconto di un ragazzo balbuziente, emotivo e omosessuale che non è uguale a nessun altro.

Jonathan si trova suo malgrado a crescere in una città che non ama (Rozzano, chiamata Rozzangeles, il Bronx del Sud, descritta come la terra dei rapper e di poveri tamarri ai limiti della legalità) e con una famiglia tutto fuorché perfetta, ma che ama moltissimo.

L’amore, ma soprattutto la ricerca di esso, fa capolino da ogni singola riga: anzi è ancora più evidente nel susseguirsi di testimonianze di disagio che è l’adolescenza di Jonathan.

Un giorno del 2016 a Jonathan viene la febbre, poche linee ma costanti; una febbre che lo rende stanco, che gli fa venire i brividi quando esce per poi farlo sudare la notte.

La malattia, un tema classico della letteratura, trova qui un moderno aggiornamento con le inevitabili autodiagnosi trovate su Google: Jonathan si convince di avere una malattia incurabile ormai in fase terminale.

La ricerca della verità diventa una comprensibile paranoia: gli esami del sangue rivelano che Jonathan è sieropositivo. Qui il romanzo racconta da vicino che cosa comporta una simile scoperta: la paura di morire, le crisi di ansia.

Ma questo libro non è solo un dramma: è anche un racconto di speranza; c’è una sorta di fatalismo che aiuta a raggiungere una inevitabile quanto matura accettazione della realtà, che non è più quella tragica degli anni Ottanta: oggi l’Hiv si può curare.

Febbre è un libro doppiamente importante quindi, sia per la vicenda umana di un ragazzo che trova una maggiore serenità grazie allo studio e all’affetto di coloro che lo circondano, sia perché può dare conforto ad altre persone nell'accettare con consapevolezza la propria malattia.