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30/09/2022

Moby Dick di Herman Melville

Andrea Brattelli ci ha preso gusto con i classici che sono diventati film diretti da John Huston. Questa settimana è la volta di Moby Dick, la balena bianca creata dalla fantasia di Herman Melville. Il romanzo uscì a Londra col titolo The whale (1851), mentre sul mercato statunitense fu pubblicato subito dopo col titolo Moby Dick or the whale. In Italia venne tradotto per la prima volta da Cesare Pavese nel 1932. 
                                               


Eraclito in un suo scritto asserisce che è impossibile entrare nello stesso fiume due volte perché le acque, scorrendo, fanno sì che questi muti continuamente.

I libri invece tali sono e tali rimangono, sia che leggiamo uno stesso libro una o più volte; nel tempo però siamo noi a cambiare e forse i “grandi classici” ci aiutano a capire il perché.

Moby Dick è un romanzo che può diventare, nelle librerie di ciascuno di noi, il nostro personale capodoglio privato che rimane lì, sul ripiano, imponente e ci guarda, stuzzicandoci l’animo e insinuando in esso curiosità.

Forse passeranno anni, non lo toglieremo mai dallo scaffale per prestarlo o regalarlo, piuttosto poggeremo quest’opera sopra delle altre o viceversa, ma, alla fine, la leggeremo.

Nonostante la prosa accattivante e la superba traduzione di Bernardo Draghi per quasi cento pagine la pedanteria fa da padrona: il testo si presenta come un documentario in realtà, con uno stile ottocentesco, quindi proprio del periodo. Lento è lo scorrere della vita dei marinai sulle baleniere ed è esacerbante la pesca (oserei affermare più che altro la mattanza) di capodogli e balene. Adoro questo stile prosaico, ma odio letteralmente l’argomento trattato (il massacro indiscriminato e la morte di creature indifese).

Azzardo un’ipotesi sul perché di queste lunghe descrizioni e note che farebbero impallidire Infinite Jest di David Foster Wallace. Ai tempi moltissime persone non avevano mai visto un capodoglio, una balena bianca, ed è questo il motivo per cui, secondo me, l’autore si sofferma nel delinearne le fattezze, i comportamenti, ad elucubrare sul bianco. Non mi capacito, non so fornire una risposta plausibile però su altri avvenimenti approntati con pedanteria, come la scena sulla raccolta di rifiuti, descritta però in maniera talmente poetica che una mattina, dopo essermi rapportato con questa descrizione, avrei avuto voglia di mettermi a fare il netturbino.

Scritto questo, torniamo a noi, ed ecco che, finalmente, spunta il protagonista, il capitano Achab la cui vicenda verrà narrata da Ismaele che altro non è che lo scrittore Melville il quale, con una regia di shakespeariana memoria ci condurrà attraverso un mondo selvaggio seppur, nel nostro immaginario, l’oceano non richiami certo aggettivi da posporre solitamente alla giungla; nel mare in tempesta le voci dell’autore e di Ismaele si uniranno come onde granitiche al turbinare del vento.

Durante la lettura si è tentati di saltare qualche passaggio. Normalmente tale atteggiamento sarebbe assolutamente controproducente nella maggior parte dei casi ma, considerando che alcuni capitoli sono dei saggi e rappresentano spunti filosofici eccezionali, per Moby Dick potremmo fare un’eccezione... però, sarebbe davvero il caso? Pensiamo di riuscirci? La risposta è no: l’opera diventerà la nostra ossessione, come per il capitano protagonista della vicenda questa creatura dei mari è il suo demone da cui in realtà è inseguito e che non sta cacciando. La brama, il desiderio di possedere qualsiasi cosa ad ogni costo è la nostra peggior gabbia anche in un mondo che ci pare a nostra disposizione come quando si salpa per il mare aperto. Se vogliamo, da questo punto di vista, la narrazione potrebbe protendere verso una grande fiaba ecologista.

Pochi sono i libri che trattano dichiaratamente di metafisica immergendola in un contesto filosofico e poetico come quello rappresentato dalla baleniera Pequod sulla quale marinai sgarbati intrecciano corde di materiale ricercato e, al contempo, rude sulle mani. Il loro vociare è come una grattugia per le orecchie di fanciulli borghesi avvezzi nel cercare la spiritualità nella Bibbia e muse nei salotti aristocratici. Moby Dick di simile al Vecchio Testamento ha solo la stazza e mostra la magnificenza della balena che inghiottì Giona. 

Per il resto riferimenti biblici nel testo sembrano più un’offesa che un’invocazione a Dio per aver creato con pennellate di follia uomini come Achab che si dannano e rivendicano sempre vendetta. Lampi di verità brillano tra le pagine come saette sul mare in tempesta, Melville trascina i suoi lettori sulla scia spumosa della baleniera dalla prua frangiflutti, i riflessi degli attori di questa epopea si riflettono sulle onde come le luci dell’alba e le loro parole assumono forme pittoresche come se sussurrate da sirene. Le loro sembianze si muovono sul ponte della nave all’unisono con i loro pensieri.

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