Seguici su https://quarantasettelibrocheparla.com/

La cavale, di Albertine Sarrazin

Andrea Brattelli parla del secondo romanzo di Albertine Sarrazin , scrittrice morta nel 1967 a soli 29 anni dei quali ben 8 trascorsi in car...

29/09/2023

Taverna alla Giamaica, di Daphne Du Maurier

Andrea Brattelli ci parla di un giallo di Daphne Du Maurier del 1936, ambientato nella Cornovaglia dell'Ottocento. La romanziera scrisse numerose opere che furono poi trasposte sul grande schermo, in particolare da Alfred Hitchcock: è anche il caso, appunto, di La taverna della Giamaica.


Vi ricordate del vecchio ristorante abbandonato situato sulla scogliera di Astoria nel film I Goonies?

Bene, difficile che vi dimenticherete anche della taverna dimenticata da Dio, del tutto simile nell’aspetto al locale del suddetto film, nascosta tra le brughiere frequentata da altrettanti loschi individui, ovvero contrabbandieri della Cornovaglia.

Un vento ansimante come Chunk mentre ripete il nome di Chester Copperpot dopo aver rovistato tra pezzi da museo in soffitta fa oscillare un’insegna malconcia. Più che un punto di approdo, il casolare a causa del suo aspetto sinistro sembra una creatura del diavolo partorita per distrarre i capitani delle navi e per farle schiantare quindi contro le coste rocciose che puniscono più violentemente del destino.

Il fato c’è chi pensa che ci guidi per l’intera esistenza. Il sudore freddo ci accompagnerà per tutta la lettura di questa storia fino alla svolta nauseante, quando ci accorgeremo che abbiamo passato il tempo a combattere i cattivi visibili ma non la vera origine del Male, che è rimasta nascosta tutto il tempo.

Mary Yellan è una ventenne che ha perso padre e madre; decide quindi di andare a vivere dai suoi zii in Cornovaglia lasciandosi un triste passato alle spalle. Non è quello un posto per una ragazza, gli suggerisce l’autista del pullman a cui lei sta chiedendo indicazioni mentre la porta a destinazione inerpicandosi tra stradine strette e scoscese.

Arrivata nella landa desolata, la nostra protagonista dovrà fare i conti con uno zio più simile ad un lupo mannaro che a un essere umano, dedito al vizio dell’alcool pagato con i suoi loschi traffici, e una zia malata da accudire, afflitta da morbi quasi peggiori di quelli che portarono alla tomba sua madre.

Tutti questi problemi vengono annegati letteralmente in fiumi di superalcolici. Quest’opera è una storica evocazione di mali senza tempo che avvelenano la vita delle famiglie: abusi domestici, binge-drinking, uccisioni indiscriminate di uomini, donne e bambini. L’autrice sostanzialmente si propone di esplorare il male nella sua forma più pura e agghiacciante.

La fonte di tutti i problemi sono sempre gli uomini, dipinti come individui stupidi e nerboruti, ribollenti di rabbia come il mare in tempesta, altro protagonista del romanzo, che si può guardare con occhi atterriti mentre inghiotte, di tanto in tanto, sopravvissuti a naufragi o i testimoni scomodi di qualche crimine.

Contrapposte a queste figure dannate troviamo le donne, angelicate come nel “Dolce Stil Novo”, vittime di continue soprusi, affaticate da individui a cui sono costrette ad accompagnarsi e da una vita di stenti. Il pallore stesso di zia Patience è dovuto alle percosse che subisce dal marito, che risuonano anche nella sua mente e nella sua anima come scosse di assestamento di un forte terremoto, che continuano a far danni, creare macerie e stressano il sistema nervoso degli scampati al disastro.

Poco credibile è invece proprio la figura dell’eroina principale, Mary Yellan. Sin da subito stringe patti con lo zio in modo che egli lasci in pace sua zia ma, durante la narrazione, ci accorgiamo che non c’è stato il tempo necessario affinché la fanciulla, seppur intelligente, abbia avuto il tempo di capire tutte le dinamiche famigliari e l’insana economia domestica dominante nello spettrale maniero.
 
A difesa della scrittrice, per aver partorito una simile figura dalla sua fantasia, possiamo lasciar intendere forse che la narratrice desse per scontato sin dall’inizio che una giovane vessata dalle fatiche per aver accudito senza successo i genitori malati abbia maturato una forza d’animo forgiata dalla frustrazione che le ha poi permesso di occuparsi e difendere i più deboli. Ed ecco allora che la vediamo spiare pirati e briganti di mare, arrancando sotto vento, facendosi forza e spingendo sui gomiti mentre tenta, strisciando in cunicoli dove i ladri nascondono la refurtiva, di non far cadere la torcia di fuoco che altrimenti, inevitabilmente, si spegnerebbe nelle pozze fangose. 

L’indignazione morale supera qualsiasi sua paura. Mary è una giovane donna non autocommiserante, possiede una naturale e impavida propensione a ottenere giustizia per i derelitti; ha un solo difetto, quasi fatale: non sa giudicare bene chi le sta intorno e di conseguenza, si circonda di persone sbagliate. L’amore non fa per lei, così ha deciso, dopo aver contemplato la triste vita delle altre donne del luogo. La loro felicità inizia a deteriorarsi già all’uscita dalla chiesa, dopo il sacramento nuziale, come se la salsedine onnipresente riuscisse a entrare anche nei luoghi sacri, a differenza dei demoni, per corrodere tutto ciò che c’è di materiale e non.

Non scriverò altro per non rovinarvi il finale (spoilerare si suol dire, giusto?), fatto sta che vedremo la protagonista girare lo sguardo da un’altra parte durante lo svolgimento dell’intera vicenda; lei girerà il volto per non incrociare gli occhi suoi con quelli del maligno (resto vago appositamente) ma una forza primordiale si insinuerà in lei affondando le radici su un suolo in cui, nella profondità del terreno, era già stata coltivato in precedenza un sussurro di inquietudine nutrito con la vera sporcizia che prescinde dalla violenza e gli omicidi di cui è stata testimone.

22/09/2023

Le onde, by Virginia Woolf

Andrea Brattelli affronta Le onde, romanzo sperimentale della scrittrice britannica Virginia Woolf, la cui prosa ricorda spesso la poesia e anzi, somiglia più a un concerto sinfonico. Un testo che lascia intendere che la realtà si modifica a seconda di chi osserva e, con il tempo, cambia anche il ricordo.


I principi cardine della signora Woolf presenti nella sua scrittura, non di meno ne Le onde sono una deroga al realismo superficiale in difesa di una meno banale, una meno probabile rappresentazione ristretta della vita.

La sua rottura con la narrativa tradizionale della scuola di Arnold Bennett, una scissione dovuta sia al suo temperamento che al suo talento, arrivò presto e, come si evince leggendo i suoi romanzi, a mano a mano con il crescere del suo talento diventano più pronunciati. In effetti, la sostanza stessa delle sue opere ha subito un cambiamento sempre crescente: vi è una notevole “distanza” tra Clayhanger e Jacob’s Room e una ancora più considerevole tra quest’ultimo libro e The Waves.

Le discrepanze non sono solo nel metodo: la sostanza stessa dei suoi scritti ha subito una trasformazione. Nel creare nuove forme, ha trovato anche nuovi materiali per adattarle. Non troviamo un precedente nelle sue produzioni per quanto concerne l'interludio chiamato Time Passes in To the Lighthouse, o per il jeu d'ésprit compiuto in Orlando. Tutte queste sperimentazioni sono diventati i passi che hanno portato alla nascita de Le onde, che conclude il ciclo.

Questo romanzo è probabilmente originale nella sua finzione; è raccontato interamente in soliloqui. Tutto quello che sappiamo dei sei personaggi i cui destini seguiamo dall'infanzia fino alla vecchiaia sono da loro trasmessi in una successione di discorsi rivolti solo ed esclusivamente al lettore. Non c'è conversazione tra loro e nessuna narrazione diretta. L'uso del soliloquio nella finzione non altera di per sé drasticamente la sfera narrativa del racconto: è sempre stato usato sul palcoscenico esattamente come il flusso di coscienza o il monologo interiore e sono stati poi, solo in seguito, adattati per esigenze legati alla narrazione scritta. Richiamano, direttamente, il funzionamento della mente di un personaggio. 

Usato per lo stesso scopo nella prosa, per quanto altamente artificiale, può avere il vantaggio, rispetto al monologo interiore, di esprimere pensieri più articolati, maggiormente retorici, fornendo alle idee la massima capacità di espressione. Gli individui non sono solo pensanti; esprimono infatti se stessi, e non c'è motivo per cui l’ autrice non dovrebbe esprimere le proprie riflessioni in modo che sembrino dipinte ad olio su tela. Per il resto, queste persone hanno un'esistenza formale del tutto in linea con l'idea classica di romanzo: vanno a scuola, vanno a lavorare, si sposano, hanno relazioni amorose, invecchiano, muoiono... Cosa c'è di più tradizionale?

Ciò si riscontra anche in The Waves anche se, in questo caso, l’autrice fa di tutto per avvicinarsi alla poesia. Lei non solo ha ignorato la realtà superficiale, è anche andata oltre, analizzando la psicologia dei protagonisti. Non è veramente interessata al popolo, al senso prosaico dell'umanità: si preoccupa “solo” dei simboli, di emblemi poetici, della vita, delle stagioni che cambiano, del giorno e della notte, del pane e vino, del fuoco e del freddo, del tempo e dello spazio, della nascita e della morte e dei cambiamenti. Queste cose, trattate separatamente, come fatti, sono davvero materiale da romanzo. Trattati invece collettivamente, come simboli, sono le fondamenta della poesia. 

Nello spirito, nel linguaggio, in effetti Le onde non è uno scritto poetico ma un poema sinfonico, con temi e sviluppo tematico in prosa. È tanto debole nella percettività genuina quanto ricco di sensibilità. Anche quando un personaggio sembra più abile nel guardare dentro se stesso ciò è l'essenza di un’intero stato d'animo che è stato catturato, non una singola verità. La signora Woolf non schematizza i suoi personaggi come uomini e donne: loro sono semi e in questa condizione rimangono per tutto il libro. I loro pensieri, le loro parole, le loro differenze preliminari l'uno dall'altro diventano stilizzati e loro stessi si adattano, alla fine, in un modello che è per metà solo ornamentale. Non sono sei persone ma sei poeti immagisti.

Questo componimento, questa realtà illusoria, è fine a se stessa, non un mezzo. La trama è un ordito intreccio di impressioni sensoriali ingarbugliato nell’astrazione poetica. Come scritto ha un'alta distinzione dovuta alla chiarezza, luminosità; è, al tempo stesso, meravigliosamente accurato e sottilmente connotativo. La sensibilità pura e delicata che si trova in questo linguaggio e gli stati d'animo che esprime sono vera e propria poesia. Rimane tuttavia la questione riguardo al giudizio complessivo che si potrebbe dare a quest’opera.

Certamente ha una forma seducente; certamente vi sono molte frasi belle; sicuramente rivela una sensibilità squisita. Queste qualità lo rendono abbastanza buono da meritare un più attento esame e quindi, misurato secondo degli standard per romanzi classici, sebbene sopravviva come qualcosa di raro e abbastanza unico, emerge come scrittura minore. Non può soddisfare le esigenze né della narrativa autorevole né della poesia importante. 

C'è qualcosa di pallido, mite, malinconico, sentimentale riguardo la sua essenza poetica - esprime troppo facilmente (nonostante la sua bella prosa), quasi troppo convenzionalmente i sentimenti dell'uomo verso se stesso e nei confronti dell'universo, i suoi rimpianti per il tempo che passa, la sua paura della morte. Nessuno ha mai descritto meglio di quanto la signora Woolf abbia fatto qui il comune desiderio di essere umani di imprimere nella nostra memoria tutto il dettaglio di una scena prima che cambi, di arrestare un momento nel tempo. Non potremo mai ottenere infatti, in un lampo mistico, tutta l’idea di universo, ma solo molti dettagli separati di esso, volta per volta, contestualmente a ciò che stiamo dicendo e facendo.

15/09/2023

L’ultima spiaggia, di Nevil Shute

Andrea Brattelli ci parla di un romanzo di fantascienza postapocalittica del 1957 dal quale sono stati tratti due film: L'ultima spiaggia di Nevil Shute, pubblicato nel 1957 in piena guerra fredda. L'autore (che era stato ingegnere aeronautico e militare durante i due conflitti mondiali) immagina una terza guerra planetaria provocata da potenze atomiche considerate minoritarie...

Sovente trovo peculiari le traduzioni dei titoli (e talvolta anche di interi testi) dei libri nel passaggio dalla lingua inglese all’italiano. Questa volta no, anzi. L’opera dell’ingegnere Nevil Shute intitolata L’ultima spiaggia nella nostra lingua, in quella originale reca il titolo On the beach. Mi viene quindi da sorridere pensando al fatto che, quando pubblicarono questo romanzo, nel 1957, le persone comprandolo pensassero di leggere una storia su un gruppo di surfisti la cui pelle veniva baciata dal sole mentre praticavano il loro sport preferito tra le onde dell’oceano californiano. Tutto ciò a patto che questo romanzo, ai tempi, non fosse stato acquistato anche da un veterano della Royal Navy. Per la marina militare britannica infatti in gergo On the Beach sta ad indicare “ritirato dal servizio” e quindi si poteva intendere che ci si sarebbe approcciati ad una diversa lettura rispetto a quella preventivata.

Il racconto invece narra di un olocausto nucleare e di come il popolo di Melbourne si sia rassegnato a morire a causa delle radiazioni insieme a tutta le gente del pianeta.

L’antefatto di questa storia risiede nell’esperienza dello scrittore in qualità di tenente dell’esercito. Durante la Seconda Guerra Mondiale egli costruì insieme al reparto ingegneristico militare inglese una potente arma da usare sulle coste nemiche denominata "Panjandrum" (una specie di piattaforma lancia missili e razzi) talmente potente da risultare pericolosa non solo per il nemico ma anche per coloro che la utilizzavano in battaglia. Fu così che, per fortuna, non fu mai adoperata.

Questo libro rappresenta una metafora sull’inadeguatezza australiana anni '50 e delle paranoie del suo popolo. L’autore infatti sosteneva che durante la Seconda Guerra Mondiale l’esercito suddetto nell’affrontare la Germania nazista si fosse relegato su fronti sussidiari nonostante le più recenti ricostruzioni storiche sconfessino queste sue teorie: l’esercito australiano svolse un ruolo chiave nelle battaglie del Pacifico.

Secondo quanto scritto in questo romanzo, l’Australia non riuscì a sfruttare appieno gli importanti cambiamenti che sul piano economico e industriale avrebbero potuto migliorare il benessere dei cittadini e che, anzi, hanno invece contribuito ad alimentare le loro ansie e paure.

A impersonare queste idiosincrasie della gente l’autore utilizza quindi, per rimanere ancorato alle vicende storiche del suo passato, protagonisti provenienti dal mondo militare; gli ufficiali Peter Holmes e John Osbourne, rispettivamente della Marina e della ricerca scientifica, il capitano Dwight Towes del sottomarino USS Scorpion. A controbilanciare gli effetti di tutto questo testosterone vi è la figura di una donna, Moira Davidson. Ognuno di loro dimostra di avere il proprio modo di affrontare le avversità fisiche, mentali ed emotive dovute alla consapevolezza della fine che incombe. Tutte le loro interazioni, emozioni, i loro pensieri costituiscono la struttura centrale dell’opera.

Mi vorrei soffermare sulla figura Moira di cui Dwight si innamora. Retoricamente per l’uomo lei può essere intesa come un porto sicuro dopo che egli ha perso (forse) tutti i suoi familiari; attracco inoppugnabile come quello in cui accede con il suo sommergibile in seguito ad un viaggio lungo tanto quanto quello di Ulisse.

Scritto sotto l’incombente minaccia della Guerra Fredda, L’ultima spiaggia mostra le reazioni alla catastrofe da parte della razza umana che sono senza tempo. Le azioni e la psicologia dei personaggi sono ben delineati e sembra che vengano guidati dalla voce dell’autore; uno stratagemma classico, che funziona sempre, ma che risulta un po’ obsoleto ai giorni nostri.

La singolarità di quest’opera è che non vi sono descritti i disordini sociali dovuti a questa drammatica circostanza: il caos è, letteralmente, tenuto fuori dalle scene. L’unica scelta, di carattere esclusivamente edonistico, rilevante in tal senso è quella relativa alla serata di festa che impazza in una delle vie principali di Melbourne, durante la quale la gente canta, balla sotto l’effetto dell’alcool. Per una volta Nevil Shute è riuscito a far diventare la città emblema di qualcosa nel mondo, anche se tutto il resto non c’è più... E in tutto ciò si coglie una sottile (superflua) ironia.

Ricordate la poesia di T. S. Eliot nella quale, alla fine, si afferma che quando l’umanità si estinguerà non si avvertirà un boato bensì un lamento*? Bene, sembra che anche Nevil Shute creda fermamente in questo. I personaggi continuano a vivere le loro esistenze, i chirurghi a operare negli ospedali persone destinate comunque a morire presto e, tra giornali svolazzanti, con il sibilo nelle orecchie del vento che fischia insinuandosi tra le strade vuote c’è chi guarda attonito nel palmo della sua mano pillole di cianuro della Chemist Warehouse**.

Passando attraverso le cinque fasi del dolore (diniego, rabbia, contrattazione, depressione, accettazione) con gratitudine molti accettano di non poter raggiungere tutti gli obiettivi che si erano prospettati durante la loro esistenza, ma continuano a fare tutto ciò che è necessario per tutto il tempo possibile fino a quando di loro non rimarrà che una scatola vuota fatta di tessuti umani.

In questa “guida educata all’apocalisse” una cosa mi ha davvero sorpreso: l’autore afferma che la guerra nucleare era iniziata in Albania. Nevil Shute era già a conoscenza del fatto che Enver Hoxha in quegli anni ospitava nelle sue acque sommergibili nucleari russi o è solo una coincidenza?

*Gli uomini vuoti (The Hollow Men), 1925

**Nel film omonimo queste scene sono state girate la domenica mattina, molto presto e in estate, quando in giro non vi era praticamente nessuno; scelte opportune attuate anche nel film Occhi bianchi sul pianeta Terra.

08/09/2023

Fame, di Knut Hamsun

Questa settimana ho chiesto ad Andrea Brattelli di leggere Fame, che ho "scoperto" grazie a Raiplay (qui trovate la lettura Ad alta voce). La recensione contiene le riflessioni di Andrea, che ne sottolinea la rilevanza: se pensiamo che è stato pubblicato nel 1890, lo troveremo ancora più sorprendente. Il malessere derivato da una società realmente malata e le oscillazioni del protagonista tra verità e bugie anticipano anche, in parte, un altro romanzo modernissimo: La coscienza di Zeno.


Knut Hamsun è stato uno scrittore premio Nobel per la letteratura la cui opera di ricerca nell’ambito dell’ esistenzialismo precede, ma può essere accostata, a quella di Kafka (Il processo) e di Albert Camus (Lo straniero). Nel romanzo in questione intitolato Fame si sviscera la vita quotidiana di un uomo solo e disperato in una grande città. Il narratore non possiede un nome, è uno scrittore freelance che ha solo una "ambizione", uno scopo nella sua vita: non morire di fame, appunto! È uno stacanovista, non esigente, ma accetterebbe di buon grado del cibo e un riparo per la notte come compenso per i suoi innumerevoli sforzi. 

Quanto scritto da me sino ad ora, poco o nulla in verità, ci impone subito alcune riflessioni: le sue fatiche sono tutte necessarie? Non potrebbero essere partorite dalle sue ansie oppure, il nostro protagonista non sarebbe meno piegato dalla fatica se invece di combattere i suoi pensieri intrusivi e ossessivi che lo divorano come un cancro potesse impegnare il suo tempo a migliorare le sue qualità e competenze e quindi il suo lavoro di scrittore che si fonda sulla creatività? Hamsun esplora quindi i traumi mentali e fisici del personaggio in un'opera magistrale che ha ispirato alcuni dei più grandi autori di narrativa filosofica del XX secolo, sottolineando nel suo lavoro che la lotta per sopravvivere in una metropoli può assumere le sembianze della follia più totale nella sua forma più pura.

Il protagonista cammina per la città di Oslo, redigendo articoli nei parchi, sperando che vengano pubblicati in modo da avere i soldi per comprare cibo e pagare l'affitto, con il quale è sempre in ritardo. La sua vita è scandita meccanicamente ogni ora, minuziosamente, poiché deve sempre preoccuparsi di avere del cibo da mettere sotto i denti durante le fredde giornate. Profondamente introspettiva, quest’opera è molto stimolante poiché seguiamo ogni pensiero e sentimento dell’io narrante sempre più disperato mentre il suo umore cambia: passa dall'essere speranzoso all'essere senza speranza numerose volte durante il giorno. Ciò fa sì che le persone a volte lo aiutino, altre volte no, come se si sentissero attratte o meno dalla sua personalità schizofrenica. Attraverso i suoi occhi possiamo vedere la città di Christiania e la capire la sua organizzazione sociale mano a mano che camminando elaboriamo le immagini... Il quadro che ne emerge è relativamente desolante.

La Fame stessa è da considerare una coprotagonista della storia e viene citata molte volte. Questo è più che comprensibile dal momento che essa non è mai lontana dai pensieri immediati del nostro giornalista: "Se solo uno avesse un boccone da mangiare in una giornata così limpida!", egli grida disperato. Alcuni potrebbero trovare la narrazione leggermente ripetitiva, ma questo è esattamente il punto del libro: il narratore è intrappolato in un circolo vizioso di bisogno e disagio fisico e mentale, e ci viene palesato che questa sensazione perdurerà e che nessuna richiesta continua ed ossessiva farà sì che qualcosa cambi.

Come Meursault in The Stranger, il narratore in Hunger a volte rifiuta di fingere o di essere qualcuno che non è, anche allo scopo di salvare la propria pelle. Egli ha i suoi principi e le sue convinzioni innate, la sua identità, una bussola morale, e non vuole fare nulla che possa compromettere il suo io interiore o i suoi principi di vita. Scorrendo nella lettura notiamo infatti che il protagonista dice ad un certo punto: "la consapevolezza di essere onesto mi è venuta in testa, riempiendomi della gloriosa sensazione di essere un uomo di carattere, un faro bianco in mezzo a un mare umano torbido con relitti galleggianti ovunque". Questo potrebbe essere il suo più grande "fallimento", poiché la società in cui vive si preoccupa delle apparenze ed è basata sulla menzogna che spesso portano a maggiori benefici. Il nostro scrittore a volte è impulsivo nel suo comportamento e dirà "piccole bugie" per confondere qualcuno o per attirare l'attenzione di altri, ma la sua condizione pietosa non cambierà ugualmente, né quando si comporterà bene, né quando avrà comportamenti secondo il suo metro di giudizio disdicevoli. Tutto ciò si tradurrà in una romantica rovina.

Anche Knut Hamsun sembra snobbare la sua stessa creatura letteraria. Il Premio Nobel si comporta come Leopardi; al pari della Natura Matrigna, la Società e l'intero Universo sono silenziosi e inesorabili. Le strutture e le barriere sociali sono lì per paralizzare lo spirito umano, così come tutti i principi morali e le credenze individuali riguardanti la giustizia, portano a situazioni paradossali che poco hanno a che vedere con la salvaguardia del benessere comune.

In definitiva possiamo affermare che con quest’opera esistenziale si vogliono mettere in scena i risultati di un esperimento sociale in cui si è riusciti a dimostrare che un essere umano soccombe facilmente, nonostante la sua istruzione, se viene privato di ciò che gli è assolutamente necessario per vivere. Quindi l’uomo dirà addio al suo orgoglio, ai suoi principi morali, alla sua stessa essenza e convinzione interiore pur sopravvivere fisicamente. Logico è che questo teorema per essere definito tale deve avere postulati e assiomi ben definiti in un ambiente circoscritto e ben contestualizzato. In tutti i modi, si muore o "spiritualmente" o “fisicamente” – non in entrambe le maniere simultaneamente.

01/09/2023

Il diavolo sulle colline, di Cesare Pavese

Andrea Brattelli ci parla oggi del romanzo breve Il diavolo sulle colline, scritto nel 1948 e pubblicato nel 1949, che ho letto anch'io non molto tempo fa all'interno del volume che prende il titolo da La bella estate. Come gli altri componenti del trittico (l'ultimo è Tra donne sole), anche questo è un romanzo di formazione incentrato sul desiderio di trasgredire e la paura che ne deriva, sul rapporto tra città e campagna e sul suicidio. Non il miglior Pavese, ma da leggere proprio perché semplice e realistico.


Il diavolo sulle colline di Cesare Pavese è un romanzo molto evocativo in termini di luogo e tempo, reso suggestivo dall’autore che ricorda le colline, i vigneti e i piccoli villaggi del nord Italia illuminati dalla luce di uno splendido sole di giorno e dal chiarore di luna di notte. 

In questo paesaggio incantevole, un giovane uomo e i suoi due amici, in uno stato di torpore indotto dalla calura estiva, prendono il sole e chiacchierano del più e del meno. Un giorno si imbattono in un signore, un certo Poli, ricco e dissoluto, che abita in una villa lussuosa in collina con su moglie; i due sono legati da una relazione atipica se così possiamo definirla. 

Attirati dai suoi modi di fare e dal desiderio di trasgressione, i tre ragazzi seguiranno il possidente nelle serate mondane che si tengono nella sua abitazione che dall’alto del promontorio ove si staglia, come un essere supremo, domina e osserva le misere vite della gente comune. 

Invaghiti da queste esperienze che suscitano nel loro animo un’inattesa fiducia vanagloriosa in loro stessi che li fa tornare bambini, lasciano le vesti da adulti assieme a ciò che potrebbero rivelare sia a noi lettori che ai coprotagonisti della storia e che ci farebbero capire qualcosa in più sugli usi e costumi di quel tempo: esistono in realtà altre “novelle” di Pavese che ci possono rendere eruditi sulla cultura del tempo a guerra terminata.

La prosa semplice ci condurrà in un’atmosfera cinematografica che ricorda i film di Fellini o, volendo rimanere in tema di libri, sul set di un romanzo di Scott Fitzgerald, ma, alla fine, ci scontreremo contro un muro di mattoni. Il diavolo sulle colline è una storia di giovinezza e amicizia perdute, in cui possiamo assaporare e centellinare le esperienze giovanili (e non) di Pavese.